giovedì 17 agosto 2017


IL MOTO SOCIALE È TUTTO, IL FINE È NULLA ! DAL SOCIALISMO LIBERALE A “EN MARCHE !” 

Ottant’anni fa  in Francia, a   Bagnoles-de-l'Orne, vennero ammazzati da un’organizzazione di estrema destra,  su mandato di Galeazzo Ciano, Carlo e Nello Rosselli.

Fu Carlo a pubblicare nel 1930, durante l’esilio francese, il suo Socialismo Liberale, scritto nel ’29 all'epoca del confino a Lipari.

Ucciso dai fascisti, Carlo Rosselli non può essere rappresentato solo come una vittima ed acerrimo nemico del fascismo e della sua opzione totalitaria - che combatté con la forza e l’audacia di un attivista indomito -  ma occorre riconoscerlo e riscoprirlo anche come fine revisionista e critico del socialismo marxista.

A questo tema, infatti, è dedicato il saggio Socialismo Liberale e non  al fascismo che lo tenne prigioniero a Lipari. Perché? Perché in quella peculiare cattività, perseguitato dal regime di Mussolini, il pensiero libero di Rosselli partorì una critica radicale al socialismo marxista?

Perché  Rosselli, ed emerge in più punti del saggio, ritenne che l’ideologia marxista, la sua teologia politica deterministica, scientifica, atea ma non laica, nemica delle libertà individuali quanto del movimento spirituale di edificazione personale, contribuì involontariamente al trionfo italiano del fascismo.

Come mai  - si domanda Rosselli - i socialisti italiani negli primi anni ’20, senz’altro più numerosi dei fascisti, non riuscirono a governare i fenomeni rivoluzionari in corso, non riuscirono ad intercettare le inquietudini giovanili e nuove?

La colpa, secondo il pensatore ebreo-toscano, è della filosofia marxista e di quello scientismo positivista che la anima e che fonda – contro storia e realtà – la fiducia incrollabile, eretta sui sacri testi,  secondo la quale i vinti di oggi saranno necessariamente i vincitori di domani e la lotta di liberazione dei lavoratori non passa per il volontarismo e l’idealismo etico ma solo per le necessitate dinamiche strutturali del capitalismo che porteranno - una volta esplose tutte le contraddizioni impoverenti e schiavizzanti - alla vittoria del proletariato e della sua dittatura.

Visto così, l’impegno individuale spontaneo e moralmente indirizzato è senz’altro secondario rispetto all’analisi economicistica che diviene destino e ciò perché il dato sovra strutturale, culturale, nazionale, ideale, è solo un riflesso condizionato dello sviluppo capitalistico. Ed è per questo che per i marxisti italiani il fascismo fu solo una parentesi necessaria sul cammino certo della libertà socialista.

A tutta questa algida quanto paralizzante analisi, Rosselli oppone il gradualismo fattivo di Bernstein, il revisionismo di Croce, ma anche la liberal democrazia di Salvemini e di tutti coloro che lottavano allora per un socialismo sganciato dal marxismo, per un socialismo tutto improntato sulle esigenze del lavoro, del contratto, sulle rivendicazioni di giustizia e libertà  di un movimento operaio e sindacale – fortemente potenziato, è vero, dall’ideologia di Marx – ma che nella prassi, sin da subito, seppe agire per la propria liberazione attraverso la lotta per l’acquisizione di quei diritti sociali e civili, di quelle libertà borghesi  viste come conquiste per tutti e non come privilegi per pochi da travolgere nella trasvalutazione dei valori rivoluzionari.

Vale per Carlo Rosselli il più volte richiamato motto di Bernstein: il moto sociale è tutto, il fine è nulla !

È il motto dei riformisti che pongono l’accento sulla mobilità sociale, sul progresso di una società aperta e libera il cui movimento non sclerotizzato  rappresenta progresso e futuro e dinanzi al quale il fine ortodosso della socializzazione dei mezzi di produzione o dell’internazionalizzazione della lotta rivoluzionaria globale diventano solo astrattezze teologiche che, appunto, non hanno nessun senso per i lavoratori, gli artigiani, le imprese di un’economia mista  chiamate a generare, nel mercato libero ed equo da costruire, lavoro e diritti.

Al Marx hegeliano, Rosselli contrappone, quindi, un normativismo di matrice etica e kantiana che non nasconde la cesura tragica  tra essere e dover essere e che proprio per questo mobilita le volontà verso il riscatto, la lotta politica ed il risultato possibile e non utopico sempre aperto, comunque, sul baratro della sconfitta, del passo indietro.

 Contro tale visione eretica  – da molti marxisti  considerata spregiativamente come “giuridica”  – si muove un rivoluzionarismo mono direzionale che vede nei moti dello spirito solo degli orpelli secondari sulla strada già tracciata della liberazione collettiva: una liberazione però – ci dice Rosselli – che se non è davvero sostenuta da una rivoluzione morale ed etica – di quel popolo italico piegato da secoli di servaggio e di abitudine al potere paternalistico - rischia di non produrre frutti concreti, oscillando paradossalmente tra una retorica massimalista quanto vacua e l’estremo traccheggio parlamentare dedito anche, sotto traccia, al compromesso di bassa lega.

Questa era propriamente l’esperienza di Rosselli alle prese con l’analisi dei primi approcci al potere da parte dei socialisti ormai entrati nelle istituzioni democratiche. E qui Rosselli, riprendendo il Croce revisionista del socialismo, è chiaro: solo una forte matrice ideale, solo l’attitudine all’esame di coscienza può consentire l’inosabile, la sostituzione della filosofia marxista e dei suoi dogmi come filosofia prima del movimento socialista. E per sostituirla con che cosa?

E qui l’analisi di Rosselli ci aiuta a comprendere il secondo polo del termine ossimorico socialismo liberale: non c’è una unica nuova filosofia della storia sostitutiva ed escludente, non c’è un nuovo fine feticcio sul cui altare santificare e sacrificare ogni azione, ogni movimento operativo, ogni patto davvero progredente e di risultato utile; esiste la pluralità d’approcci e visioni motivata da un processo migliorista nemico dello stallo, dello status quo dei privilegi.

Il socialismo quale erede naturale del liberalismo, quale liberalismo delle masse in marcia per progredire dallo stato di miseria e di minorazione politica, non ha fini ultimi che non siano quelli della creazione e custodia di una società in cammino verso diritti e libertà per tutti.

                Su tale strada il metodo liberale, al contrario dell’impostazione socialista classica, non viene considerato come un utile strumento  per la conquista legale del Potere che potrà ben essere messo da parte, come ogni idealità e operatività di minoranza, per l’istituzione della dittatura. Il metodo liberale, invece, è inteso come imprescindibile viatico di libertà che, attraverso la competizione democratica e la salvaguardia dei dissenzienti, potrà davvero realizzare l’obiettivo primo del socialismo, la libertà appunto.

Ed allora, l’esaltazione del socialismo non marxista inglese, la rivendicazione pragmatica del principio di revocabilità delle scelte, la concreta rappresentazione delle dinamiche positive di una economia complessa in cui convivono plurime e diverse esperienze:  quelle artigianali, quelle cooperative, quelle capitaliste e di profitto, quelle di Stato, consentono al Rosselli degli anni ’30 - ma davvero nostro contemporaneo -  di fornire, di fornirci uno strumento attualissimo di affrancamento deciso da formule teologistiche di lotta politica, rappresentanti  soluzioni tanto semplici quanto astratte, le quali – penso soprattutto oggi al qualunquismo demagogico e populista - non concepiscono eresie, critiche, revisioni, punti deboli nel cammino verso la conquista del potere.

 In fondo, la lettura – oggi - di Socialismo Liberale ( https://www.liberliber.it/mediateca/libri/r/rosselli_carlo/socialismo_liberale/pdf/rosselli_carlo_socialismo_liberale.pdf) , è importantissima per la sinistra europea ed italiana, per superare nella rivisitazione critica dei propri assunti l’eterno conflitto tra puristi ed eterodossi, per uscire definitivamente – e sarebbe l’ora ! – dalla assurda pretesa d’autenticità a fronte dell’accusa di tradimento rivolta verso il pensiero critico e pragmatico, per sostenere tutti quegli autentici riformisti – penso a Macròn – miopicamente combattuti come usurpatori e violentatori di una ideologia che si assume  fissa, di una comunità di base che si interpreta come dotata di peculiari caratteristiche di classe che non ammettono – pena la deviazione – la messa in discussione delle proprie acquisizioni dogmatiche a fronte dell’ostinata forza della contingenza, del reale en marche, appunto.

 

Enzo Musolino


Le inquietanti notizie degli ultimi giorni (http://ildispaccio.it/primo-piano-2/143196-reggio-paura-nella-notte-uomo-entra-in-gelateria-sottozero-e-fa-fuoco) ci raccontano di rinnovati attentati alla libera impresa da parte della Ndrangheta in Calabria.

In un tessuto economico privato fragile che punta sui servizi turistici, la criminalità organizzata, nel tentativo di strutturare un monopolio forzoso sulla movida estiva, interviene con fare violento ed intimidatorio per impedire la stipula di contratti, l’apertura di nuove aziende e per continuare a rivendicare l’infame diritto al “pizzo”, alla tassa del crimine.

Non solo, quindi, l’aggressione continua ad aziende sane “pesanti” come quelle, ad esempio, impegnate nel porto di Gioia Tauro e che coraggiosamente cercano di operare per far sì che questa grande infrastruttura non sia solo un crocevia internazionale per la cocaina (http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/8070) ma, ormai, anche le imprese artigianali sono coinvolte in dinamiche para terroristiche naturalmente estranee al rischio di impresa e che affossano – più della crisi – ogni velleità di rinascita di uno dei tanti territori, progressivamente desertificati, del nostro Sud.

Lo stesso, in vero, lo abbiamo visto all’opera ad Ostia (http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/06/11/news/cosi-funziona-la-mafia-di-ostia-1.168949) e diversamente ma, purtroppo, nella stessa triste direzione di violenta interposizione tra domanda ed offerta di mercato,  l’influenza nefasta della criminalità sulle imprese è emersa, nel corso degli ultimi anni, anche nel Nord Italia - con la rilevazione e la gestione “pompata” dalle necessità del riciclaggio di attività commerciali in crisi (http://gazzettadireggio.gelocal.it/reggio/cronaca/2017/03/21/news/rosy-bindi-la-ndrangheta-parla-anche-emiliano-1.15062664) - ed addirittura nel Nord Europa con gli investimenti immobiliari dei clan soprattutto in Germania (http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/11_Novembre/12/valentino.shtml).

Ora, aldilà delle importantissime ricadute di Giustizia e delle implicazioni morali e personali che hanno coinvolto tante vittime innocenti di tali soprusi, il quadro generale su delineato individua il libero mercato come ulteriore vittima di mafia, quale cultura del merito e della concorrenza vissuta come alternativa e destabilizzante da un Potere che si pregia di “chiudere” e soffocare i territori con la rigida applicazione di regole arcaiche, con l’imposizione di confini di competenza, con balzelli simil corporativi e limiti imposti, con la forza, alla libertà di intrapresa e alla crescita individuale e sociale.

A questa chiusura imposta a forza di intimidazioni e kalashnikov si accompagna, in aggiunta, la pervicace ed infruttuosa presenza - nel nostro Sud - di un’economia pubblica fondata su trasferimenti poco trasparenti - magari “legittimati” dall’obiettivo di innalzare capannoni pseudo produttivi (spesso made in Lombardia ed Emilia) - e sulla gestione clientelare di favori e posti di lavoro, in cambio di consenso e voti, da parte di potentati politici, vere e proprie consorterie spregiudicate dedite al trasformismo più becero.

La forbice nefasta, dunque, si chiude pericolosamente a tagliare le ali ad ogni afflato libero di vera cultura di mercato, impedendo l’accesso a fondi, al credito, all’interlocuzione pubblica garantita da criteri obiettivi a tutti quegli imprenditori – miracolosamente presenti, non si sa per quanto tempo ancora, pure alle nostre latitudini - che rivendicano orgogliosamente autonomia e chiedono rispetto per un’ operosità finalizzata al giusto profitto; un profitto – che non è un furto ma, troppo spesso, è espropriato e spolpato -  conquistato con la fatica, il risparmio, l’investimento produttivo che genera quell’ordine di mercato e quella libera organizzazione sociale che Adam Smith chiamò “Grande Società” e Karl Popper, la “Società Aperta”.

L’art 2082 del nostro codice civile liberale – un miracolo d’eccezione sfuggito, nel 1942, alla completa fascistizzazione del diritto – non definisce l’impresa in astratto ma, piu’ concretamente, l’imprenditore, focalizzando l’attenzione normativa sulla libertà dell’individuo, sullo spirito e sulla carne viva coinvolti in un progetto – rischioso - sempre aperto sulla voragine tanto del successo che del fallimento.

E l’imprenditore è propriamente colui che organizza ed esercita – in libertà, appunto – un’attività finalizzata alla produzione e allo scambio e che realizza – inintenzionalmente – una ricchezza reciproca, una ricchezza sociale.

Ed anche questo tipo umano è protagonista e vittima delle dinamiche del nostro Paese; protagonista e vittima di un’epopea ancora in fieri: l’artigiano in abiti da lavoro che lotta – con la sua vita e la sua opera – contro gli appetiti parassitari e tiranni di colletti bianchi e neri, contro le cravatte e i cravattari di Stato ed Antistato.

 

Enzo Musolino

 

 

ILCUSTODE DELLA COSTITUZIONE 

Se la Costituzione è - come intuì Carl Schmitt - la decisione politica fondamentale del soggetto del potere costituente (Dottrina della Costituzione, 1929), allora, in ultima analisi, Costituzione è il nome della forma politica contemporanea, tanto nel suo aspetto  normativo, quanto nel senso spirituale di ragione e destino di una Comunità. In tal modo intesa, quindi, essa non è riconducibile esclusivamente al dato letterale – non è solo, documento - ma è “volontà esistenziale” (ancora Schmitt, Il Custode della Costituzione, 1931), e , pertanto, Politica di un determinato potere che si propaga nel suo mutare storico-concreto.

Se c’è una lezione decisiva che ci ha lasciato il Secolo Breve, è quella relativa all’evidenza che un liberalismo vuoto, neutralizzato e formalista, non sa fronteggiare il fenomeno eversivo, sia quello radicale e cripto teologistico del totalitarismo, sia quello anti sistema ed antagonista della partitocrazia settaria. Lo Stato di Diritto, ridotto ad amministrazione e burocrazia, oblia la forza costituente  dell’origine, si depoliticizza e consegna le proprie istituzioni a quelle forze totali che hanno scopi ed ideologie (anche religiose) escludenti rispetto alla cornice liberal democratica, e che tendono a rappresentarsi iper conflittuali in quanto veritativi e portatori di una palingenesi salvifica rispetto all’esistente quadro politico. In piccolo, la deriva esclusivista del tipo del partito o movimento ‘diverso’ e refrattario alla contaminazione, lo abbiamo visto all’opera all’indomani delle elezioni politiche italiane del 2013, allorquando la ditta bersaniana - l’usato sicuro e tradizionale - subì come uno scossone irrimediabile il rifiuto dei pentastellati di condividere la responsabilità di governo del Paese, preferendo orgogliosamente il solipsismo al compromesso.

Ora, il sistema liberale classico concepisce partiti liberi e non totali; ossia partiti di opinione che non sono così estranei tra loro da impedire, in Parlamento, attraverso il confronto razionale, un accordo sovra partitico nell’interesse generale, dell’istituzione democratica e del suo pluralismo. Il fatto che anche la nostra Prima Repubblica abbia vissuto (almeno fino al compromesso storico ed al consociativismo) il confronto tra forze inconciliabili ed il rischio del prevalere di un partito anti sistema ed alternativo all’Occidente, ci rassicura solo del fatto che i grillini, almeno in tale ambito, non rappresentano una novità così fresca e ci dice tristemente che la ‘differenza’ italiana persiste oggi come allora, come persiste il gap liberale rispetto a Paesi più maturi, pragmatici e meno dediti all’utopismo elettorale e propagandistico. Del resto, in un clima generalizzato di continua resa dei conti epocale, è ovvio che, alla lunga, la risposta risolutiva e pacificante che un tal sistema può offrire sia quella (odiosa come il problema che mirerebbe a risolvere) consociativa e dell’accordo sotto traccia ed extra istituzionale.

I movimenti populistici e radicali, quindi, con il netto rifiuto dell’assunzione di responsabilità condivisa, con la retorica della purezza e della totalità del proprio potere che si assume rappresentativo di una fantomatica Collettività ferita dalla incapacità e dalla corruzione altrui, mantengono - in tale crisi e tensione irriducibile e rivoluzionaria (e le rivoluzioni non sono sempre subito giacobine e sanguinose) - la propria energia politica al di fuori delle istituzioni democratiche, contribuendo al depotenziamento e alla neutralizzazione delle stesse; le quali vengono offerte al pubblico ludibrio come inemendabili se non al prezzo “necessario” di una auspicata e prossima acquisizione in solitaria, e, quindi, monocorde, del potere politico. Ma in tal modo – e parliamo ancora e per fortuna di fanta politica del tipo Veni, Vidi, Web, opera letteraria del mentore Casaleggio – una volta raggiunto il potere, lo Stato, inevitabilmente, tenderebbe a confondersi con il partito, con il movimento, rendendo esplicito il superamento del sistema liberale, grazie all’esercizio totale di un premio super legale al possesso del potere in capo ad una forza (o ad un leader aggressivo, pensiamo a Trump)  che, ad esempio, vincoli gli eletti, magari contrattualmente e sotto sanzioni, ad un legame che non è più rappresentativo ma padronale, scaturente direttamente dall’ideologia fondativa legittimante.  In un tale possibile contesto distopico, la teoria liberale delle uguali chances da riconoscere a tutti i partiti in competizione per il potere democratico, ha senso solo in una situazione di unità ed omogeneità valoriale e spirituale del sistema che si rifà, appunto, ad una Costituzione condivisa. L’ordine politico, infatti, anche quello liberal democratico, non si fonda solo sulla legalità formale ma anche sull’origine concreta del proprio potere costituente che ha imposto – in un dato momento storico - un’Idea ed una scelta esistenziale (nel nostro caso quella repubblicana, democratica e liberale)  su di un'altra, sconfitta. Potremmo parlare più chiaramente di una legittimità politica costituzionale che necessariamente implica l’esclusione dall’agone politico di quelle forze – terroristiche, eversive ed antagoniste – che sfrutterebbero la presa legale del potere per mutare radicalmente lo Stato di Diritto, magari svilendo e mutando il principio di rappresentanza e di libertà degli eletti a fronte di un più utile e demagogicamente comprensibile mandato vincolante, sanzionabile e sempre revocabile dai sacerdoti dell’ortodossia, o magari – come ci ha rappresentato Houellebecq nel suo Sottomissione, 2015 – introducendo, attraverso la retorica dei diritti umani e dell’integrazione multiculturale, una Sharia soft e la poligamia. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione legale che, paradossalmente, anche attraverso la retorica della difesa della Costituzione più bella del mondo a fronte degli interventi emendativi degli “altri”, rappresentati come corrotti ed interessati, giunge sostanzialmente ad una radicale mutazione ontologica del livello costituente liberale, sostituito da un plebiscitarismo fondato su categorie morali e teologico politiche (il mito dell’alterità, appunto) extra giuridiche e, quindi, non laiche.

Una possibile risposta all’incubo su evocato potrebbe essere quella di impegnarsi per ripoliticizzare le istituzioni libere – altro che neutralizzazione del Politico !! – attraverso l’affermazione delle regole liberali e garantiste rispetto a tutti i livelli di potere, non solo partitici ma anche burocratici, corporativi, autoritari ed irresponsabili democraticamente.

Si tratterebbe di lavorare politicamente per una neutralizzazione attiva che tuteli la neutralità delle istituzioni dai nemici della libertà. Tra gli esempi storici citabili, il più importante è senz’altro quello tedesco. L’art 21, capoverso 2, della Legge Fondamentale, infatti, nega l’accesso al potere a forze antisistema che hanno obiettivi ed atteggiamenti tesi ad alterare l’ordine democratico liberale. Grazie a tale formula, la Repubblica Federale fu capace di difendersi dal revanscismo nazionalista e nazista e dal rivoluzionarismo sovietico; tutte forze che, nelle forme ostative delle maggioranze parlamentari negative, avevano decretato la fine dell’esperienza democratica del primo dopoguerra, costringendo l’attivazione continua dello stato di eccezione previsto dall’art. 48 della Costituzione di Weimar.

Tutto ciò può sembrare al momento esagerato? Magari liberale ma non democraticistico? Ebbene, nei ricorsi storici che stiamo vivendo e che rigettano l’Occidente ai primi anni dello scorso secolo, cosa si può ideologicamente opporre innanzi alla minaccia distopica del neo califfato arabo, alla democratura del neo sultanato turco, all’accentramento autoritario del neo cesaro papismo russo, al neo plebiscitarismo demagogico occidentale, se non  il richiamo originario al concreto dispiegarsi di un nucleo valoriale liberale, pluralistico ed autenticamente popolare (perché di buon senso) che possa essere rappresentato come autentico Custode della Costituzione ?

 

ENZO MUSOLINO

IN DIFESA DEL “COMPAGNO ZETA” 

Due sono stati gli interventi che mi hanno colpito nel corso della scorsa assemblea nazionale del partito democratico, e sono stati gli interventi di chi - davvero fuori dagli schemi - non ha indossato una precisa casacca, non si è intruppato semplicemente per Renzi o per gli scissionisti ma  ha tenuto a rappresentare, a fronte della contrapposta retorica, profili complessi di realtà e concretezza che è sempre necessario comunicare e diffondere.

Il primo è stato quello del ministro del lavoro Poletti, il quale dopo una serie pressoché ininterrotta di retorica lalurista vecchio stile, tutta incentrata sul mito di un “lavoro” da difendere con le unghie e con i denti dai finanziari, dai capitalisti, da un mercato – sempre da riformare – dipinto come la causa dei mali generatisi dalla lunga crisi, dopo la richiesta veemente di molti di un PD rivolto sempre e comunque, senza se e senza ma, dalla parte del lavoro, appunto, ha tenuto a precisare un dato di concretezza dal quale, fuor di retorica, è difficile trascendere: il lavoro lo crea l’impresa; il lavoro buono, quello non clientelare, frutto del merito e della concorrenza, il più duraturo perché legato a produttività e profitto lo crea l’impresa buona, l’impresa che sa stare sul mercato, che, magari, sa anche usare con intelligenza gli strumenti finanziari, senza, per questo, vendersi al diavolo della finanza sanguisuga ed assassina. In aggiunta, scandalo demitizzante a parte, ha chiarito brevemente la storia dei voucher in Italia, un’invenzione, comunque da riformare e non da demolire per l’indubbio effetto di contrasto al lavoro nero, che non è stato il frutto del jobs act renziano – che, da ultimo, ha precisato, invero, modalità di comunicazione della effettiva prestazione rendendo obbligatoria l’email preventiva all’ispettorato territoriale del lavoro – ma di una serie di governi precedenti – da Berlusconi a Letta, passando per Monti – che progressivamente hanno ampliato la platea dei potenziali beneficiari senza che emergesse l’emergenza oggi pompata da una CGIL in cerca di una rinnovata strada 2.0 per il sindacalismo politico. Il jobs act ha concluso Poletti è quello che ha, con l’abolizione dell’art. 18, puntato sul contratto subordinato prevalente, che ha abolito formule contrattuali precarizzanti  co.co.pro. e associati in partecipazione con apporto lavorativo, che ha ridotto grandemente l’oscena formula delle false partita Iva. Ma tutto ciò, ovviamente, appartiene alla realtà e ai fatti e di certo non possiede quell’appeal retorico e romantico tale da strappare commozione ed afflato in una riunione così tragica di partito (purtroppo !).

L’altro intervento è stato quello di Giovanni Taurasi, giovane militante e delegato, che quali al termine dei lavori si è prodotto in una vera antropologia del “compagno Zeta”, cioè dell’anonimo militante di un circolo tipo del Pd renziano, sempre il primo ad arrivare in sede, sempre speranzoso  nella massiccia presenza altrui, sempre attento agli interventi dei più loquaci ed in silenzio quasi assolto dalla propria postazione all’ultima fila. Ma nache il compagno zeta che si illumina e ride il giorno delle primarie, il giorno della partecipazione di un popolo che riscopre passione civile e la bellezza della partecipazione e dell’impegno, il giorno della festa democratica (sempre che non venga guastata dalla prosaica presenza dei cinesi assoldati o da candidature di rottura sostenute da quelle truppe cammellate che sviliscono il libero voto di opinione dei tanti compagni zeta). In ogni caso il compagno zeta, nel pd, esiste, e questo è l’importante, questo è stato il segno ed il sogno regalatoci da Giovanni Taurasi: la rappresentazione della forza ostinata e davvero inattuale di chi, innamorato della politica e delle sue regole liberali e costituzionali, a fronte della violazione palese dell’elemento base del principio dell’alternanza democratica – chi vince ha il dovere di governare una comunità e chi perde ha il dovere di fare una minoranza responsabile fino alla prossima occasione – non si interroga pensoso e riflessivo  tanto sul perché di una scissione – a 25 anni dal crollo del Muro - francamente indifendibile neanche cantando Bandera Rossa (il potere è quasi sempre la risposta giusta a questa domanda) ma sul come siamo tutti arrivati a legittimare e a ingrandire tutto questo, tenendo milioni di iscritti – alle prese, nei circoli, con i problemi reali del Paese – ostaggio di uno psicodramma personale (quello di Emiliano) montato ad arte da pupari rimasti alla finestra.

 

Enzo Musolino

Il 20% di Pannella contro le mafie

Davvero può bastare la repressione giudiziaria a sconfiggere le mafie? Da più parti e da tempo ormai giunge una risposta negativa e si invoca, così, la cd soluzione culturale comunitaria, una sorta di rivoluzione dal basso che, travolgendo i retaggi del passato, la plumbea tradizione di omertà e paura, riuscirà a compiere il miracolo della palingenesi. Tutto giusto, e però da dove partire? Dalle Scuole si dice, dal potenziamento del corpo docente nel sud, dalla necessità di incidere sui ragazzi, sui giovani, su quei figli di ndrangheta  o di camorra che  – si aggiunge -  dovrebbero essere sottratti ai nuclei familiari, esclusa la potestà genitoriale ed affidati a soggetti terzi, deportati in luoghi neutri, quindi, al fine di compiere, appunto, la rivoluzione necessaria.
Non sembrano però, al di là dell’utopia e della pianificazione ideologica, soluzioni davvero sostenibili, almeno nella forma demagogica nella quale sono offerte al dibattito pubblico.
Da una parte perché di insegnanti al sud ce ne sono, e pure troppi, mentre il problema reale è la selezione di personale di qualità, cosa che, al netto del concorso di questi giorni – finalmente meritocratico, a cattedra e non abilitante – non è di certo avvenuta con il sistema di avviamento attraverso le cd graduatorie provinciali e, poi, ad esaurimento, premianti non il merito – mai valutato da alcuno – ma la caparbietà di rimanere agganciati per anni ed anni in liste, rinnovate periodicamente, ed infarcite di fantomatici, quanto onerosi, corsi on line di formazione, pressoché inutili ma capaci di fornire quel punteggio aggiuntivo utile alla scalata.
Per quanto riguarda, poi, le varie proposte di allontanamento dei bimbi dal nucleo criminale presunto mafioso, l’effetto sicuro di una tale impostazione statalista non sarebbe altro che quella di rinforzare il legame di appartenenza con un’origine obliata a forza e mitizzata come propria ed identitaria.
A fronte di tale rischio di rinforzo, appunto, si dovrebbe, invece, approfondire i paradossi di quelle – tante- coscienze scisse.
Una scissione, che gli insegnati – quelli veri intendo, quelli che non si limitano nelle proprie ore di lezione alla fredda trasmissione di dati ma che affrontano anche i problemi sociali e spirituali delle terre di mafia – conoscono bene: è la scissione tra un apparato valoriale, quello trasmesso loro dalle istituzioni, dalla parrocchia, dall’associazionismo, che cozza radicalmente con quello offerto dalle famiglie di provenienza, quello che respirano giornalmente a casa.
E tale scissione, quindi, va coltivata, questo paradosso approfondito, questa frattura estesa; solo il tarlo di una diversità possibile, di una vita estranea alle dinamiche del sopruso ed aperta a concetti quali sacrificio e merito può davvero influire sulle nuove generazioni, può portarle in contraddizione culturale con i vecchi, può dare  forza dirompente ad  una ribellione interiore e liberante fatta di lacerazione, di dolore ma anche di risultati definitivi, altro che deportazione al nord!
In realtà, a parte le illusioni palingenetiche studiate a tavolino e le rivoluzioni a freddo partorite dalla burocrazia ministeriale, nelle terre di mafia, anche dentro le scuole, ad opera, soprattutto, dei portatori di culture altre (i veri insegnati, i veri educatori, i veri preti, le famiglie sane, le occasioni del mondo libero) qualcosa di sostanziale è cambiato.
 Il flusso delle generazioni, il contagio virale di una onestà che non giudica ma propone, offre ed ascolta; la stessa possibilità di libertà, di iniziativa di movimento e crescita offerta dal capitalismo tecnologico, le tante idee in rete, lo spontaneismo intraprendente di forti menti globali alle prese con la confusa ma prolifica disamina delle domande di beni e servizi di un territorio, del proprio territorio - anche in questo tempo di crisi, o, proprio grazie a questo - hanno prodotto frutti buoni anche se non sufficienti.
E davvero nessuno ne può più di vessazioni, di minacce, dell’ingiustizia atroce di una libertà - anche d'impresa – concussa fino all’inverosimile.
Il coraggio borghese, bisogna ricordarlo, viene anche da qui, e la reazione sempre più diffusa al racket del pizzo, alla rapina di ndrangheta è sempre più di insofferenza, di opposizione ontologica.
Bisogna riconoscere, infatti, che tale  feudalesimo premoderno è ormai risibile – magari in privato, ma è da questo che si arriva al politico, al pubblico – ed essenzialmente goffo ed incomprensibile nelle diatribe capziose che i capi sono chiamati a dirimere, non senza difficoltà e compromessi, per gestire -  come una burocrazia di autorizzazioni al commercio - un territorio che, nonostante l’internazionalizzazione, la delocalizzazione e la dematerializzazione del profitto legato alle droghe e all’assurdo proibizionismo che lo genera, non cessa di essere rappresentato come fonte di sovranità; un territorio vissuto come roba e latifondo, magari estraneo al vero business, ma ritenuto, da un punto di vista teologico-politico, originario, mitico, sorgente ctonia di potere.
Ed allora, proprio contro questa metafisica teologica, contro tale infuriare di poteri indiretti e guerre sacerdotali di matrice rurale, lo spirito borghese e laico, il turbo capitalismo dei contatti, degli scambi e delle conoscenze on line che tanta parte hanno nella vita dei giovani, non hanno un effetto dirompente? Lo hanno eccome!
E, forse, laddove non può aver successo pieno la repressione penale, ne' la Rivoluzione Ideologica  e Comunitaria da tanto, troppo tempo idealizzata ed attesa, non potrà  spuntarla l'anarchismo individualista? Quell’istintivo Antistatalismo, l’essere  proprio delle nuove generazioni refrattarie alle burocrazie pletoriche non si rivolge, oggi, - chissà in quali forme sotterranee, imprevedibili e non previamente razionalizzabili - anche contro lo Stato dell'antistato? Contro un Potere, ormai sempre più  frammentato, scisso? Tutto è pronto, forse, perché dietro ai veri intraprenditori del Sud – ma non solo del Sud-  si strutturi una nuova coscienza borghese, l’eroismo inintenzionale ma davvero produttivo dell’orgoglio per il proprio lavoro,  la gelosia del successo ottenuto, il vizio della crescita delle aziende, della selezione dei lavoratori; pronto perfino - e finalmente - ad evadere il fisco  del Vampiro mafioso, a violare le norme dei suoi regolamenti generanti povertà ed egualitarismo verso il basso, a scacciare dalla proprietà, dalla vita, dagli interessi e dalle relazioni, gli emissari della sua politica non più dominante.
In tal senso, anche a Scuola, personalmente,  e con me tanti insegnanti non totalmente assorbiti dalle miserie burocratiche del calcolo dei punteggi in graduatoria, è spesso capitato di condividere con i ragazzi (coinvolti in dinamiche familiari segnate da crimine e carcere) non l’odio per i padri (cosa impossibile da insegnare, almeno in  un quadro generale di libertà estraneo a rivoluzioni culturali stile cinese) ma il loro superamento e tramonto: l’intraprendenza, il successo, l’impresa fattrice di modernità e progresso, non ha nulla a che fare con l’eredità dei padri, con l’appartenenza a corporazioni protette, con la vita facile di chi non ha sudato il proprio posto al mondo, di chi non sa cosa significhi spiccare il volo.

La borghesia (mi piace usare questo termine nel senso di Sergio Ricossa, ossia come vocazione dell'uomo a rapportarsi con l'altro, a crescere e a migliorare attraverso lo scambio) c’entra con l’intraprendenza dei singoli (soprattutto di chi non ha niente e ha fame di tutto), con la testarda opposizione al privilegio e al sopruso, con l’amore per le cose realizzate, con l’edificazione di iniziative libere di espandersi, capaci di successo, profitto e lavoro. Dopo i tanti eroi magistrati, poliziotti, preti e giornalisti, di questi eroi borghesi avremmo adesso davvero bisogno e, forse, di meno stigma sociale prodotto da una repressione statale -  per carità giusta ed indispensabile  - ma che, a livello culturale e spirituale, è incapace di ricadere nel profondo di  una società ferita – non solo dal sopruso mafioso -  bisognosa, innanzi tutto, di giustizia, di comprensione delle cause di crisi e di diritto alla conoscenza. Non per nulla, il politico italiano per eccellenza estraneo al calcolo personale, all’interesse spicciolo, ed aperto, nel solco del pensiero liberale, all’accoglienza non ghettizzante - intendo Marco Pannella - alle ultime elezioni politiche a Platì, nel 2013,  in Calabria, in quella stessa terra in cui, oggi, il Pd, non ha avuto il coraggio di affrontare coraggiosamente la possibilità anche di una sconfitta alle elezioni comunali (nonostante i media, il sostegno dei tanti soloni e nonostante la retorica delle liste portate al vaglio della procura) ottenne il 20% dei consensi; così come buoni risultati ottenne a San Luca ed Africo. Tutti mafiosi alle prese con il 41 bis che speravano nell’Amnistia predicata a colpi di sathiagrah da Pannella? Non credo, credo che il leader radicale fu capito più dai figli che dai padri, da quegli spiriti alle prese con la rivolta delle coscienze. Ed allora, che senso ebbe, che senso ha ancora, quel 20% se non quello del tragico appellarsi ad una giustizia altra ed alta di cui ci ha tanto parlato anche Corrado Alvaro? Una giustizia eroica -  e borghese aggiungo io -  davvero anti mafia. 

                                                                                                                                     Enzo Musolino

I presupposti culturali, storici e politici del Jobs Act

 

E’ vero che i freddi numeri rischiano di colpire ma non di chiarire e, pertanto, oggi è necessario a mio parere discutere anche di ciò di cui non si è mai davvero discusso: dei presupposti culturali, storici e politici che guidano l’azione riformista nell’ambito del diritto del lavoro, soprattutto nel momento in cui il complesso disegno riformista è messo alla prova dalla riduzione delle agevolazioni contributive. Innanzitutto, però, i numeri: il dato registrato il 30 settembre dall’’Istat è relativo ad un aumento dell’occupazione e, in particolare, ad un rialzo dell’occupazione stabile che raggiunge i 14 milioni e 920mila lavoratori. Per raggiungere un livello di occupazione stabile più alto di questo bisogna risalire all’agosto 2009.

Semplificazione e razionalizzazione sono le ragioni che hanno condotto al Jobs Act; semplificazione degli strumenti contrattuali, in vista dell’emergere prioritario di un contratto subordinato a tempo indeterminato e caratterizzato da tutele crescenti, e razionalizzazione tanto dei controlli ispettivi in materia di lavoro e di legislazione sociale quanto degli strumenti delle politiche attive di collocamento.

L’ispirazione di fondo è senz’altro riformistica in senso liberale e sociale e riproduce, nell’ambito del diritto del lavoro, le acquisizioni di quella economia sociale di mercato che ha consentito nell’immediato dopoguerra il miracolo economico tedesco e quello italiano.

Cosa viene superato, dunque? Una certa impostazione culturale di matrice collettivista che, soprattutto dagli anni 70 e fino alle riforme dei primi ani 90, ha investito il diritto del lavoro in Italia di un compito ideologico che progressivamente ha sganciato le legittime pretese contrattuali dei lavoratori dalla sostenibilità economica delle stesse e dal bene comune; fino all’estremo di un mercato del lavoro vincolato da un rigido collocamento pubblico obbligatorio, anonimo e refrattario ai criteri meritocratici e alle libere scelte d’impresa. In tal senso, pur rimanendo altamente positiva la valutazione complessiva dello Statuto dei Lavoratori (1970) – testo, occorre ribadirlo, non votato da quella sinistra comunista che, poi, lo ha strumentalmente sacralizzato – non si può tacere la progressiva trasformazione teologistica di alcuni dei suoi assunti in tabù immodificabili. L’esempio più significativo è quello del mitico articolo 18 (il reintegro in caso di licenziamento accertato come illegittimo nelle imprese con occupazione superiore ai 15 dipendenti). Ora, aldilà dell’effettiva operatività concreta (nella prassi sono negli anni sempre più frequentemente emerse transazioni di carattere monetario) sono evidenti i limiti di una norma tesa a rendere indissolubile una contingente dinamica sociale ed economica e che ha condannato al nanismo le prospettive di crescita di molte imprese intimorite dallo spauracchio di non poter affrontare le crisi cicliche; anche  a fronte di una giurisprudenza troppo spesso a digiuno delle regole di mercato e refrattaria – per motivi anche politici – ad accettare il principio liberale - ma anche cattolico democratico - secondo il quale il lavoro è creato innanzitutto dall’intrapresa e non dallo Stato. Con ciò, l’art. 18 è stato progressivamente caricato di una valenza cripto rivoluzionaria e conservatrice allo stesso tempo che ha spinto le frange più estreme dell’antagonismo a proiettare fino agli anni 2000 le tragiche illusioni palingenetiche del brigatismo armato contro, appunto, riformisti veri quali D’Antona e Biagi. Tale fenomeno di culto teologico politico di assunti normativi non è esclusiva solo italiana; lo stesso psico dramma, sempre all’interno della comunità politica di Sinistra, è stato vissuto in Gran Bretagna con la clausola 4 dello Statuto del Partito Laburista, approvato nel congresso del 1918. Tale norma impegnava in prospettiva la sinistra britannica a raggiungere l’obiettivo della statizzazione dei mezzi di produzione, negando teoricamente e strategicamente la legittimità del concetto di proprietà privata e di iniziativa economica libera. L’assurdo fu che tale vincolo politico rimase in vigore fino al 1995, fino al buon senso riformista di un giovane Segretario di nome Tony Blair, il quale non rinnegò né tradì – come invece fu accusato – le ragioni di giustizia ed equità della Sinistra ma, semplicemente e pragmaticamente, riconobbe l’assurdità di una cristallizazione ideologica di un assunto superato dal corso storico e dalle dinamiche sociali di un Paese già da anni alla guida della globalizzazione dei mercati e primo beneficiario degli effetti dell’intraprendenza privata. La nuova versione statutaria della clausola 4 del “New Labour” non fa più riferimento al controllo dello Stato sulla economia e parla, invece, di efficienza e di competitività, puntando sulla uguaglianza delle opportunità in un sistema economico nel quale la priorità sta nella creazione di ricchezza, unica via per consentire davvero il progresso sociale degli strati più deboli e la mobilità sociale. Fu proprio questa rivoluzione ideologica a consentire la lunga e proficua stagione di governo della Terza Via ed il superamento del thatcherismo, non certo l’arroccamento sul mito dello Stato padrone.

Come è noto, oggi, grazie al Jobs Act, figlio legittimo, è bene ribadirlo, tanto della riforma Treu che di quella Biagi, nonostante le tante resistenze conservatrici, il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato e a tutele crescenti è ormai operativo. I dati statistici relativi alla prima applicazione, aiutata da un poderoso sgravio contributivo, sono stati impressionanti: Il contratto subordinato sine die ha “cannibalizzato” tutte le altre forme contrattuali; i nuovi assunti – che sono tutt’ora in aumento, nonostante la fisiologica frenata dovuta alla riformulazione restrittiva degli sgravi – sono avviati con questo strumento e i vecchi co.co.pro e le associazioni in partecipazione con apporto lavorativo – forme flessibili che sono state abusate per lucrare profitto dallo sfruttamento dei lavoratori – sono state convertite in lavoro subordinato formalizzato.

Nel concreto, cosa comporta tutto questo? Innanzitutto, i lavoratori potranno più facilmente accedere ai prestiti e ai mutui ipotecari perché finalmente ‘stabilizzati’ nel tempo ed ancora, la vigilanza sugli illeciti a danno dei diritti retributivi e della contribuzione obbligatoria viene radicalmente semplificata perché gli ispettori invece di trovarsi di fronte la giungla contrattuale avranno a che fare con un contratto chiaro e prevalente.

Un ulteriore annotazione: gli eterni oppositivi e i benaltristi che coltivano l’ottimo contro il bene ed il possibile  – di destra o pseudo-sinistra poco importa stante la comune impronta illiberale – continueranno a concentrarsi sulla abolizione dell’art. 18. A me stesso ricordo la buona prassi della lettura e della analisi delle norme che si vogliono contestare senza preconcetti ideologici; sul punto, in sintesi: il reintegro sul posto di lavoro sarà sempre possibile nei casi di licenziamento nullo o privo di forme, in quello discriminatorio e potenzialmente mobbizzante e nel cosiddetto licenziamento disciplinare (cioè nel caso in cui si contesti al lavoratore un illecito a danno dell’organizzazione d’impresa)  quando è accertata in giudizio l’inesistenza del fatto notificato. Per tutto il resto – cioè per evitare i licenziamenti dettati da motivi economici – dovremmo contribuire tutti alla ripresa economica del Paese – i datori di lavoro con gli investimenti ed i lavoratori con la produttività della prestazione resa – perché le imprese esistono non per licenziare ma per assumere … e questo fanno quando il quadro normativo è certo e le prospettive per il futuro chiare.

RIFERIMENTI NORMATIVI: legge 10 dicembre 2014, n. 183 (“legge delega”); decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 (ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione); decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti); decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro); decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (disciplina organica dei contratti di lavoro); decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148 (ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro); decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 149 (semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale); decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150 (riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive); decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151 (razionalizzazione e semplificazione delle procedure a carico dei cittadini e misure in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità). Circolare Min. Lav. N. 24 del 05/10/2015 (procedimento per la concessione del trattamento straordinario di integrazione salariale); Circolare Min. Lav. N. 26 del 12/10/2015 (indicazioni operative sulle modifiche all’apparato sanzionatorio in materia di lavoro e legislazione sociale); Circolare Min. Lav. N. 30 del 09/11/2015 (nota integrativa alla circolare in tema di ammortizzatori sociali);  Circolare Min. Lav. N. 34 del 23/12/2015 (indicazioni operative sul riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro); Circolare Min. Lav. N. 3 del 01/02/2016 (collaborazioni coordinate e continuative, indicazioni per il personale ispettivo); Circolare Min. Lav. N. 04/03/2016 (modalità di comunicazione delle dimissioni volontarie e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro).

lunedì 8 dicembre 2014

GIUSTIZIA E DIRITTO POLITICA E ONESTA'

  • Diritto e giustizia, politica e onestà. Nelle ultime settimane – dopo la sentenza della cassazione sul disastro ambientale Eternit e le parole di Landini (FIOM) sul Governo che non avrebbe il consenso delle ‘persone oneste’ – si ripropone la questione dello scarto tra Giustizia e sentenze, tra Giustizia, forme del Diritto ed esercizio del potere e si sollevano contestazioni, opposizioni, indignazioni e purtroppo poco buon senso. Lo scontro fondamentale è tra sostanzialismo e formalismo all’interno dell’agone democratico e giuridico. La questione sembra tecnica ma invero, appena si traduce nella realtà dei processi mediatici, nella carne viva delle piazze in mobilitazione per il posto di lavoro, allora – immediatamente - risulta comprensibile la posta in gioco ed il rischio collegato ad ogni facile riduzionismo, alla comoda individuazione – in spregio alla complessità del reale - del nemico pubblico da sconfiggere ed abbattere.
  • Andiamo con ordine: sul caso Eternit, aldilà delle semplificazioni giornalistiche e del giustificato dolore espresso dai familiari delle vittime, esiste effettivamente uno sconfitto, ma non è la Giustizia né il Diritto; ad essere sconfitta è la strategia d’accusa della Procura della Repubblica di Torino che, nonostante da subito siano state sollevate censure sulla avvenuta prescrizione del reato, ha deciso di procedere per la fattispecie del disastro ambientale, benché il reato di disastro ambientale in Italia non esista e quello generico di disastro – previso dall’art. 434 c.p. - sia tipizzato con riferimento non ad eventi ad effetti lunghi ma sull’ipotesi del crollo di costruzioni.
  • Di certo, ciò ha significato una indagine più semplice; è stato ‘facile’ reperire materiale probatorio per fatti chiari. La catastrofe, infatti, c’è stata ed è indubbia ma si è come accantonato sotto il tappeto il problema, la polvere del tempo trascorso che non poteva che emergere nel giudizio innanzi la Suprema Corte.
  • La fabbrica Eternit, infatti, ha cessato di operare a metà degli anni ’80, il reato di disastro ha cessato di consumarsi allora mentre di certo non sono cessati i suoi effetti mortali e la Corte, chiamata ad una pronuncia non sul merito ma di diritto sulla corretta applicazione della legge (decisione che per sua natura ha portata generale chiamata a fondare Giurisprudenza), non ha quindi negato quelle morti, né cassato una storia incontestabile (quella della ‘decisione’ per il profitto e contro le persone) ma ha cassato la strategia mediatica della Procura di Torino, attenta a seguire se non a fomentare un clamore populista che ha trascinato nell’errore anche i Giudici di primo e secondo grado. Si è tentato, quindi, un percorso discutibile: si è puntato formalmente su un reato ormai consumato, il disastro, mentre il reato dissimulato, contestato però solo innanzi alle Piazze e alle famiglie delle vittime era l’omicidio, era la morte da amianto.
  • Ora si tratta di ricominciare, e finalmente il Procuratore Guariniello deposita gli atti di una inchiesta bis, stavolta per l’accertamento del reato di omicidio volontario, soggettivamente qualificato dal dolo eventuale.
  • Di certo questo è un reato difficile da provare, di certo richiede capacità di investigazione e di convincimento giuridico altissime e davvero una pronuncia dei Giudici motivata in tal senso - e confermata dalla Corte di Legittimità - potrebbe segnare una strada operativa anche per altri paesi europei coinvolti nella tragedia Eternit. Il problema è che tale strada si comincia ad esperire in colpevole ritardo, e speriamo che la si percorra non cedendo alla demagogia e alle istanze di Giustizia Assoluta di un sostanzialismo che ha in spregio regole e forme e che, purtroppo, conduce ad esiti inefficaci o barbari.
  • Bisogna stare accorti, la Storia insegna che quando alle forme della legge e del Diritto si sostituisce la giustizia sommaria di piazza per quanto motivata dalla richiesta di Verità, presto alla strage di legalità segue la strage dei popoli, la carneficina dei carcerati senza diritti e senza un giusto processo, il sangue versato dei nemici di partito, degli avversari di classe, di ceto, di razza.
  • A fronte di tutto questo, oggi, tanti magistrati - spesso davvero colpevoli di errori e ritardi ingiustificabili - e politici asserviti al senso comune ed incapaci di far intraprendere all’opinione pubblica un serio percorso di conoscenza del senso profondo dello Stato di Diritto, individuano nell’istituto della prescrizione il capro espiatorio del fallimento del processo Eternit ed in questa operazione di espiazione di massa Guariniello è santificato sull’altare dei giusti.
  • In realtà, l’istituto della prescrizione non c’entra niente, nessuna possibile riforma dello stesso potrebbe nascondere lo scandalo di un accertamento che interviene a trent’anni dagli ultimi fatti criminali; l’errore non sta nelle regole generali ma nell’aver coscientemente imboccato una via processuale sbagliata che necessariamente avrebbe trovato la strada sbarrata dalla Corte di Cassazione, la quale, lontana da Torino, è divenuta il parafulmine sul quale si scaricano tensioni generate ad arte.
  • Per quanto riguarda l’altro tema, le infelici frasi di Landini sugli onesti che non sarebbero dalla parte del Governo, ecco in campo un nuovo sostanzialismo di matrice razzistica ed elitaria. Gli onesti, i Giusti – per loro natura pochi – si troverebbero solo in una particolare classe sociale: i lavoratori dipendenti sindacalizzati e coscienti del proprio ruolo progressivo di matrice storicistica e rivoluzionaria mentre i disonesti, gli Ingiusti, sarebbero tutti gli altri, chi svolge la propria esistenza egoisticamente – magari evadendo le tasse – ed in un'altra direzione – senz’altro quella sbagliata - rispetto al necessario corso storico che prima o poi sancirà il trionfo socialista.
  • Tale sostanzialismo manicheo e semplicistico - che contraddice la realtà complessa e mutevole di una infedeltà fiscale diffusa capillarmente in tutti gli strati sociali italiani - è una bugia che finisce per dividere la società tra Santi predestinati e nemici dell’umanità, tra opzioni politiche dirette al bene ed altre ontologicamente negative e schiave di interessi nascosti. Niente di più falso, specialmente in materia di lavoro e di diritto sindacale. In tale campo, l’opzione pragmatica spingerebbe verso la duttilità di politiche chiamate ad essere verificate nel corso degli anni di applicazione, quindi nessuna scelta è a priori qualificabile come disonesta o, peggio, contraria agli interessi dei lavoratori, né si può tollerare la pretesa di certa pseudo- sinistra (ormai conservatrice e piegata su una ideologia sconfitta dalla Storia) di essere dalla parte di un progresso inteso come ineluttabile e teso al superamento dell’intraprendenza privata e dei suoi meccanismi capitalistici e di profitto.
  • In Italia non dovremmo mai dimenticare che il padre dello Statuto dei Lavoratori – Gino Giugni -è stato gambizzato dalle Brigate Rosse e che le stesse negli anni ’90 hanno ammazzato, sacrificato sull’altare della Verità e della Giustizia, sinceri democratici e studiosi riformisti quali D’Antona e Biagi. Sventolare, quindi, il vessillo della moralità di classe se può essere utile per carriere professionali, trionfi mediatici e politici è di sicuro contrario allo Stato di Diritto, ad un sistema liberale fondato sulla Legge.

martedì 11 novembre 2014

Nelle diverse articolazioni del Mito Rivoluzionario dello scorso Secolo tutto era invischiato nel ‘politico’, anche e soprattutto il Privato, quella dimensione esistenziale che una certa vulgata ideologica si impegnava a strappare dal segreto intimo della vita familiare per portarla alla ‘luce’ generale e necessaria del conflitto sociale e per ‘decostruirla’ una volta emerse alla ‘critica’ le dinamiche economiche condizionanti.
Tutto il processo era interpretato come progresso inarrestabile verso la realizzazione, se non di un prossimo, senz’altro di un ‘certo’ paradiso terrestre, nel quale a ciascuno sarebbe toccato la sorte di soddisfare naturalmente i propri bisogni, una volta dismessi i panni della singolarità egoista e vestiti quelli ‘uniformi’ e perequati dall’uguaglianza proletaria.
Poi, come sappiamo, le cose sono andate diversamente: sotto la coltre del grigio collettivismo di Stato nell’est europeo, e dell’uniformismo culturale e d’élite nell’Occidente radical chic, l’individualismo ha trovato comunque nuovi sbocchi di affermazione – tra cui anche la riscoperta del Sacro e il parziale sdoganamento del ragionamento metafisico – ed il sogno socialista si è frantumato non solo perché ‘schiacciato’ dal crollo del Muro ma, ben più in profondità, dal progressivo moto di ribellione delle coscienze frustrate di quei cittadini/insetti/ingranaggi parte di quei regimi ‘popolari e democratici’ che dopo anni di ateismo di Stato e di egualitarismo legalmente imposto - e tarato inevitabilmente verso il basso - non chiedevano altro che merito, differenziazione, possibilità di crescita, ricchezza, libera scelta e, non per ultimo, Dio.
Di certo anche tale rivolgimento ideologico - divenuto ormai ‘dominante’ - verso il ‘Singolo’ e la sua affermazione (a distanza ormai di 25 anni dalla fine dell’impero sovietico), sta lasciando residui e tracce nefaste, errori, esagerazioni ed estremismi soggettivistici che rischiano di impoverire del tutto quel che resta del concetto di Stato e di un sentimento di collettività che, lungi dall’essere retaggio del vecchio e dello sconfitto, rappresenta, invece, una ineliminabile dimensione della Persona. Ma non tutto è perduto, e mai nessuna epoca dell’avventura umana si è svolta davvero nel vuoto pneumatico.
Oggi, tra i ‘giovani’, non è più di moda disquisire di rivoluzione e di sorti progressive e necessarie, e, di certo, il paradigma “il privato è politico” non è più interpretato – come fecero anche i loro coetanei sessantottini - come un legittimo ‘movimento’ verso la compiuta espropriazione di una intimità vissuta solo come una eredità di tradizioni destinate ad essere travolte da un destino di Soviet, di cooperative, di Kibbutz, nei quali con l’individualità egotista sarebbe stato cassato ogni luogo intermedio del libero esercizio della Persona: matrimonio, famiglia, casa propria, libero impiego, libero svago; insomma tutti quei luoghi dell’anima nei quali il numero ristretto, la selezione e l’esclusione, la cernita degli affetti e degli impegni, avrebbe contraddetto l’obbligata permeabilità collettiva e solidale di una nuova politica, di una Nuova Società senza discriminazioni, appunto, né classi e chiusure.
Le nuove generazioni, figlie del disimpegno post contestatario e della disfatta dei miti di ‘liberazione’, possono non sapere nulla del conflitto ontologico tra capitale e lavoro, né della necessità scientifica della sconfitta del capitalismo, ma sanno ancora dibattere di vita e politica, declinando questi termini nell’ambito di nuovi modelli ideologici (figli di una rinnovata forma di affermazione liberante del Privato), sono i temi delle differenze di genere (non più ‘analizzate’ esclusivamente nell’ambito del ghetto femminista), dei diritti degli omosessuali (tra i quali si rivendica in primis il diritto tradizionale al matrimonio e alla famiglia), dell’accesso alle tecniche di procreazione assistita (altro che aborto!), delle scelte individuali sul fine vita, intuite queste ultime da un lato come un ponte spirituale, cimento verso le Cose Ultime (altro che ateismo di Stato!) e, dall’altro,  come affermazione liberale di limiti invalicabili da parte dell’’Organizzazione Pubblica, compresa quella sanitaria.
Potremmo parlare di biopolitica, o ancora meglio, di un nuovo tipo di riconoscimento politico delle scelte di vita, oggi ripiegato sulla persona in sé, sul suo proprio valore e non sulla classe sociale di appartenenza, né sulla applicazione di un concetto astratto di Giustizia.
Per molti tale ripiegamento intimo è negativo: Žižek – nel suo saggio del 2013 “In difesa delle cause perse” - parla apertamente di abbandono scellerato delle Grandi Cause Rivoluzionarie del passato a favore dell’affermazione reazionaria di un pensiero debole incapace di visioni energetiche e, quindi, violente, nel senso di quella violenza pura e divina così bene tratteggiata da Benjamin nel 1920 ed alla quale tutto si può perdonare – magari anche le vittime – perché indirizzata ed orientata alla Giustizia ed alla Verità fulminea, scientifica appunto.
In realtà, però, l’approfondimento del solco che divide, oggi, agenti pro vita e pro choice, difensori del matrimonio tradizionale e transgender che vogliono accedere al matrimonio, cultori dell’eutanasia e carnefici dell’accanimento terapeutico, familisti morali ed amorali, non evidenzia - a mio parere - una rinuncia ai grandi temi ma una loro riformulazione incentrata sulle istanze di libertà di un singolo che rivendica esclusivamente a sé quei ‘luoghi’ che si intende sottrarre all’attrazione del mito dell’emancipazione collettiva; non si tratta più, quindi, di lottare per l’affermazione di un Paradiso intra temporale ma di certo non si può dire che il tempo della lotta contro l’inferno del sopruso e dell’ingiustizia sia finito solo perché il buon senso e lo scetticismo verso facili ricette utopistiche ci impediscono di sacrificare la libertà individuale sull’altare della Giustizia Totalitaria.
In tale quadro, quindi, lo scontro effettivo – quello eminentemente spirituale - non è tra le opposte fazioni in campo sulle tematiche relative a quelli che in Italia chiamiamo diritti civili (e che in America, più correttamente, vengono definiti diritti sociali) ma si svolge – e ciò è paradigmatico all’interno delle Sinistre – tra chi vede nell’ancoraggio alle libertà individuali (anche religiose) una possibilità ancora non completamente esplorata per il riscatto sociale – penso all’autocritico Bertinotti che si mette volontariamente a scuola di liberalismo e a tutti i sinceri riformisti - e coloro, ad esempio i neo putiniani convertiti sulla strada dell’antiamericanismo di sempre (penso, ad esempio, al Fusaro di ‘Bentornato Marx’ che si fa Ortodosso e cesaropapista o al filologo Luciano Canfora che contro la fede religiosa dei Tibetani firma appelli a favore della repressione cinese), i quali bocciano tali questioni e tali dinamiche come piccolo borghesi, come sterili e debosciate trivialità liberali dalle quali solo la fine del capitalismo – magari con l’aiuto ‘storico-necessario’ dei terroristi islamici – ci potrà liberare, liberandoci probabilmente – aggiungiamo noi – dall’uomo stesso, da una complessità irriducibile ad unità che si tenta ancora una volta di ‘ridurre’ per ragion di Stato.
Di uno Stato nuovo si intende, forte ed autoritario (il regista russo Andrej Konchalovskij, ad esempio, oggi contesta le libere elezioni e la tutela di ‘reperti archeologici’ quali i diritti umani) che si dovrà necessariamente imporre contro le deboli ragioni dello Stato di Diritto, di quello stato fondato su leggi, costituzione e personalismo che consente in Occidente l’emergere e la diffusione capillare di un dibattito – penso, ad esempio, a quello sul matrimonio degli omosessuali – che vede il confronto pubblico, acceso, vitale e comunque proficuo (nel senso della conoscenza e della comprensione) di parti che vanno comunque nella stessa direzione: quella del riconoscimento liberale e democratico - ma anche cristiano e sociale – del fatto che il privato non è del tutto politico ma è senz’altro di interesse pubblico il suo libero esplicarsi nelle scelte di coscienza, perché non di solo pane vive l’uomo (Matteo 4, 4 e Luca 4, 4).