giovedì 30 ottobre 2008

Sciopero!

oggi la scuola italiana è in sciopero, si ferma per protestare .. si fermano non solo i ragazzi ma, finalmente, anche i professori, gli amministrativi i collaboratori.

da molte parti ci si chiede il perchè; lo stesso governo 'furbescamente' si interroga sui motivi della protesta di tutta la scuola e dell'università, posto che il contenuto del decreto Gelmini ha ad oggetto 'solo' la scuola elementare, l'accorpamento di 'piccoli' istituti di montagna, la fusione di 'antiche' classi di concorso, l'annuncio di tagli triennali.

il problema vero, la ragione della protesta, infatti, non trova fonte tanto nel contenuto del decreto - anche se detestabile se si pensa ad esempio al passo indietro del 'maestro unico', in un mondo così complesso che richiederebbe una pluralità di approcci e di carismi .. anche alle elementari - ma nei metodi dell'intervento normativo e nella sua 'causa prima'.

proprio di questo mi sento oggi, da scioperante convinto, di parlarvi.

l'economia è in criri, la finanza paga i suoi automatismi disumani, le famiglie sono sempre più alle prese con i problemi quotidiani .... e a chi si fa pagare questa crisi di sistema?

non agli oligarchi, non ai baroni di tutte le corporazioni, non agli speculatori ma, al contrario, si colpisce una istituzione, la scuola, che di certo non ha bisogno di tagli, posto che da almento 10 anni ogni finanziaria propone 'cure dimagranti' alle quali, però, non corrisponde una 'riforma per il futuro' che affronti i reali problemi di una comunità pubblica che ancora oggi, attraverso gli esempi dei suoi uomini migliori, si pone come argine al consumismo, allo smarrimento delle coscienze, alle istanze spesso distruttive di tanti giovani 'senza famiglie alle spalle'.

per superare la crisi del '29 l'america del new deal, nel tentativo di influenzare positivamente le coscienze offese di tanti cittadini alle prese con il dissolvimento dei i propri risparmi e del futuro, si impegnò in investimenti pubblici 'in deficit' apparentemente poco produttivi che, al contrario, generarono nuove speranze e nuovi consumi.

dico questo per chiarire che gli investimenti nella scuola non potranno mai essere economicisticamente produttivi, nel senso di una produttività immediata e quantitativa, perchè gli investimenti nelle 'agenzie spirituali', nel corpo docente, nelle strutture, assomigliano tanto agli investimenti diseconomici del new deal, allorquando migliaia di operai disoccupati vennero occupati in scavi e nella movimentazione terra senza sapere bene quali sarebbero potuti essere i ritorni di tali iniziative apparentemente assurde.

lo si fece per incoraggiare i padri di famiglia, per non abbandonare le famiglie, per dimostrare che le istituzioni, anche in un periodo di crisi economica, sono in grado di rinnovare la società affidandosi alla operosità dei propri cittadini.
ecco, l'investimento nella scuola pubblica, la spesa pubblica in istruzione, è un investimento che smuove la società, che si appella soprattutto alle capacità delle famiglie più povere e che aiuta a non sentirsi soli.

io immagino una scuola dove le riforme siano epurate dalla parola 'tagli' .. immagino una scuola dove gli insegnanti, liberi dagli incubi del precariato a vita, siano più liberi di occuparsi della cura spirituale dei ragazzi anche attraverso l'esempio di una scelta professionale riconosciuta ed apprezzata dalla società e non svilita da stipendi da fame e dalla mancanza di certezze per il futuro.

come si fa, infatti, ad affrontare il nichilismo post moderno dei ragazzi cresciuti a pane e disinteresse, come si fa a propugnare scelte di sacrificio e di legalità, come si fa a combattere le lusinghe dell'antistato quando l'esempio di autorevolezza, di successo e valore sociale che si dovrebbe incarnare è, invece, vittima di un sistema che mette ai margini professori e maestri, che svilisce lauree e specializzazioni sull'altare del risparmio economico e delle esigenze di cassa ...

ecco per cosa scioperano i professori e gli altri operatori della scuola oggi: per le ragioni di un mondo, il mondo della cultura e della cura della prole che ha geneticamente vista lunga e sogni incommensurabili ... come quelli dei nostri ragazzi.

martedì 28 ottobre 2008

solo, fermo, il cuore

cambia la vita .. una telefonata ed accetto ..

valigia, fatica, viaggio: è un veloce passaggio

poi il sonno, i saluti, il nuovo giorno

ed ora di nuovo tra i tempi, tra i luoghi

mi provo per un amore più grande di me

è tutto un vortice di mescola e segni

solo, fermo, il cuore

roccia che pulsa nascosto

attende il regno immerso nell'oro

la mandorla schiusa del trionfo

giovedì 23 ottobre 2008

una poesia d'amore e di dolore di Fabio Palumbo

Se tutto ciò che amavo

è cenere sparsa al vento

se l’urlo che sento dentro

ha il suono di un tonfo sordo

adesso che non credo più alla luna

in fondo al pozzo della mia prigione

se mi sta succedendo tutto questo

vorrei soltanto mettermi per strada

e camminare senza direzione

ma il vicolo cieco del cuore

è pieno di graffiti col tuo nome

mercoledì 22 ottobre 2008

domenica 19 ottobre 2008

"Sulla Rivoluzione" di Hannah Arendt, i concetti fondamentali

con l’esperienza delle rivoluzioni americana e francese, il significato originario di “rivoluzione” viene abbandonato e si riforma il lessico politico. La rivoluzione non è più l’espressione di un moto rotatorio ciclico (come quello degli astri) che restaura le istituzioni politiche conformandole all’originaria purezza, ma diviene movimento irresistibile connotato da novità e violenza.

la rivoluzione americana fu il frutto più coerente dell’illuminismo filosofico in quanto la rivoluzione americana si basava sul valore della libertà d’agire degli uomini. La rivoluzione francese, invece, fu sconvolta dall’evidenza della povertà che dilaniava la Francia e fu scossa da eventi incontrollabili (la furia del popolo in primis) che spazzarono via gli stessi protagonisti. La rivoluzione americana, in sintesi, fu il frutto della libertà mentre la rivoluzione francese fu il frutto di una forza anonima ed irresistibile impossibile da imbrigliare una volta scatenata, e da questa esperienza si aprì la strada nell’800 al culto della Storia e soprattutto della necessità storica.


la rivoluzione francese, con la sua forza travolgente ed ingovernabile attraverso gli strumenti politici del costituzionalismo, influenzò la filosofia di Hegel ed in ultima analisi la definizione della nuova categoria di “necessità storica”; la filosofia divenne filosofia della storia e l’individuo non fu più, come nell’illuminismo, l’attore storico ma divenne il semplice spettatore di vicende molto più grandi di lui. In questo modo, con il passaggio dall’illuminismo della rivoluzione americana allo storicismo della rivoluzione francese, la NECESSITA’ STORICA e non più la LIBERTA’ POLITICA divenne la categoria principale del pensiero politico rivoluzionario, almeno fino alla rivoluzione d’Ottobre (la ririvoluzione bolscevica russa).

i rivoluzionari francesi, inizialmente impegnati nel definire la costituzione politica del nuovo Stato (così come avvenne in America), furono travolti dalla questione sociale, cioè dalla povertà atavica che affamava il popolo di Francia tiranneggiato per secoli dai suoi nobili (in America ciò non avvenne perché la povertà non era povertà di massa come in Europa e il popolo americano era un popolo di piccoli proprietari liberi dalla povertà che agognavano libertà politica) e, così, l’istanza giustizialistica s’impossesso della rivoluzione francese il cui compito divenne quello di dare pane ai poveri ma soprattutto quello di fare giustizia dei tiranni e di scovare i traditori. La necessità di procedere alla formazione di uno stato costituzionale, di una repubblica governata da leggi certe e condivise, cedette il passo alla necessità di venire incontro alle istanze sociali e di vendetta del popolo; si dimenticò il concetto politico del consenso e della rappresentanza politica per accogliere la categoria della Volontà Generale del popolo che in quanto tale, cioè in quanto popolo povero e sfuttato, diveniva portatore di valori superiori e depositario della Verità. In questo quadro le istituzioni politiche, cioè le costruzioni metafisiche ed astratte dove i conflitti politici trovano soluzione nella mediazione come nell’AGORA’ greca, vengono considerate astrazioni fittizie dove si nasconde la corruzione e l’interesse particolare del singolo. L’egoismo individuale venne considerato come il virus malvagio che distrugge la società. Il mondo prepolitico, presociale, naturale, (secondo l’insegnamento di ROUSSEAU) apparve ai francesi come un eden perduto dove dominava la bontà e la virtù mentre il mondo civile, imbrigliato nelle istituzioni politiche, apparve il regno della corruzione e del vizio. I padri costituenti americani, invece, furono consapevoli del fatto che solo in un quadro sociale governato dalla legge, ossia dall’istituzione politica condivisa, è possibile lo sviluppo della virtù pubblica e della libertà. Da quanto detto sembra che gli americani adottino l’insegnamento di Hobbes sulla necessità di devolvere i diritti naturali al Leviatano per vederseli restituire sottoforma di diritti civili garantiti e tutelabili.

la rivoluzione francese, presa dall’ingente problema della questione sociale, si disinteresso gradatamente delle forme di governo (e della realizzazione della libertà politica) per affrontare il problema della povertà ma non con gli strumenti della tecnica ma con gli strumenti politici della violenza e della vendetta e così dimenticarono il vero scopo di ogni rivoluzione di successo: “L’instaurazione della libertà” e, così, piano piano persero la rivoluzione.


la forma di governo instaurata ad Atene fu in definitiva una ISONOMIA, cioè un sistema di non-governo (nel senso di confusione voluta ed auspicata tra governanti e governati) dove non esisteva differenza tra governanti e governati. Le tre principali forme di governo: monarchia, oligarchia e democrazia sono conosciute dagli ateniesi che ne individuano le possibili degenerazioni. L’ISONOMIA si fonda sull’ appartenenza ad una cittadinanza, ad una cosa pubblica. La libertà e l’uguaglianza non sono caratteri naturali dell’uomo (che nello stato di natura non è né libero né uguale) ma sono il frutto civile dell’appartenenza ad una comunità politica, ad una costruzione artificiale fondata sulle leggi: la POLIS; quindi i greci conoscevano bene l’importanza delle istituzioni politiche e dello spazio politico (L’AGORA’) come elementi necessari per la fondazione della libertà e della giustizia.

la questione sociale secondo la ARENDT va affrontata con gli strumenti asettici della tecnica e non attraverso metodi politici ed ideologici come invece hanno tentato di fare prima i rivoluzionari francesi e poi i rivoluzionari marxisti. L’ARENDT apprezza il primo Lenin che spiega le finalità della rivoluzione d’Ottobre con la frase “elettrificazione più soviet”, cioè Lenin vuole dire che il problema sociale verrà risolto con uno strumento tecnico cioè l’elettrificazione (il progresso tecnico asettico) mentre la libertà verrà instaurata con lo strumento politico di una nuova organizzazione sociale della partecipazione e del consenso : il soviet (i soviet amore erano delle comunità di lavoratori autoorganizzate senza capi e costituirono nella prima fase della rivoluzione russa il nucleo del potere rivoluzionario autenticamente democratico e partecipativo). In tal modo il primo Lenin sconfessa Marx e separa l’economia dalla politica, l’instaurazione della libertà dalla questione sociale. Peraltro anche il rivoluzionario americano Jefferson parla di soviet, o meglio di TOWN SCHIPS, ossia di repubbliche elementari, di consigli partecipativi.

la teoria politica ottocentesca e novecentesca è stata asservita al rivoluzionarismo francese e concepì tutte le rivoluzioni come movimento di popolo per liberarsi dalla fame (questione sociale) ma l’esperienza insegna che questo incipit rivoluzionario se non convogliato da un’attenta istituzionalizzazione e costituzionalizzazione del potere porta al fallimento e alla dittatura. Se non si è in grado di costruire gli argini politici dove convogliare le diverse istanze politiche si rischia di degenerare nel terrore e nell’anarchia. L’incipit della rivoluzione non deve essere sociale ma politico, la rivoluzione deve mirare alla instaurazione della libertà politica individuale e sociale attraverso la proposizione di nuove forme di governo della Polis. Così avvenne in America.


Robespierre fu travolto dalla questione sociale, dalla Pietà per una moltitudine indefinita che soffriva la fame e che scaldava il cuore avido di sentimenti dei rivoluzionari. La “pietà di massa” impedì ai rivoluzionari di guardare alle persone come individui e si perse il concetto di specificità individuale per perdersi nell’amore o nell’odio di massa. Di fronte alla povertà di tutto un popolo ogni istituzione parve senza valore ed ingiusta. La virtù pubblica trovò la sua fonte non nella libertà politica ma nella sofferenza e nella povertà. Solo il povero è buono, solo il povero è giusto. Proprio perché la virtù dei rivoluzionari è fondata sul valore della povertà e sull’ingiustizia atavica dei pochi sui molti, non si poteva porre limite all’agire pur crudele del popolo mosso dalla volontà generale. Con la rivoluzione francese, la questione sociale ed economica entrò di prepotenza nella agenda politica statuale ma non trovò sfogo e liberazione nei processi formali delle deliberazioni politiche e degli scontri dialettici; i rivoluzionari invece di proporre una via tecnica ed economica per affrontare il problema senza affondare il valore della imparzialità e pacificità delle istituzioni politiche, spalancarono, abbattendole, le porte del politico al problema sociale e ne fu sommersa la casa comune, e solo la violenza sembrò la strada giusta per dare un po’ di sfogo al popolo. I padri fondatori americani, invece, lontani dall’evidenza della povertà più becera che popolava il vecchio continente, rimasero uomini di “principi e di azioni” e non furono presi alla gola dal magone crudele della Pietà. La ragione, in loro, si mantenne forte e scettica, non persero il buon senso e non si lasciarono andare all’utopia che l’Uomo da peccatore fosse diventato un angelo.

nella Francia rivoluzionaria la Pietà, ossia la virtù pubblica fondata sui sentimenti del cuore, porta Robespierre alla consapevolezza della “apparenza di ogni mediazione politica” al timore per l’ipocrisia; gli ipocriti divennero nemici della rivoluzione e il sospetto divenne la regola.


il terrore andava alla ricerca di traditori e di ipocriti, in quanto gli stessi “rivoluzionari del cuore” paventavano di scovare l’ipocrisia dentro se stessi. I potenti rivoluzionari, abituati alla retorica dell’incorruttibilità per aizzare le masse, intuivano la propria ipocrisia ed erano pronti a sospettarla dietro la maschera di chiunque altro. Diverso è il caso della rivoluzione d’Ottobre dove i processi contro gli ipocriti ai traditori si fecero più ideologici e meno sentimentali.

I rivoluzionari francesi succubi della pietà e della compassione che scaturiva dall’irrompere della questione sociale fondarono su questa la Virtù rivoluzionaria e non sulla fondazione della libertà attraverso le forme politiche e le leggi. Per Robespierre non c’è limite alla virtù rivoluzionaria, non ci sono diritti o leggi che possono arginare la Volontà del Popolo. Ai rivoluzionari francesi sembrò da pazzi applicare le stesse leggi a coloro che dormivano nei palazzi e a coloro che dormivano sotto i ponti, le forme legali apparvero prive di senso, esse hanno senso solo nel benessere della società.


in breve possiamo dire che secondo la ARENDT la rivoluzione francese fallì quando si passò dalla ricerca della migliore forma di governo possibile per instaurare la libertà politica alla consapevolezza della bontà intrinseca e generale di un’intera classe sociale: i poveri, i maledetti….. si abbandonò la REPUBBLICA per il POPULISMO.

la vera differenza tra i rivoluzionari americani ed i francesi è che i primi volevano fondare la libertà sulle istituzioni e sulle leggi mentre i secondi volevano liberare il popolo dal bisogno. I primi non permisero a nessuno di violare i diritti civili, i secondi, spinti dalla pietà e dalla vendetta, sancirono il principio secondo il quale tutto è permesso se è nel senso della rivoluzione.


i rivoluzionari americani conservarono ed applicarono il principio liberale della dialettica interna al popolo che non veniva considerato un’unità indistinta mosso dalla fantomatica Volontà Generale. Il popolo era solo una pluralità di voci e di interessi che doveva trovare argine e regole per proliferare all’interno di un sistema costituzionale. In Francia questo tipo di consapevolezza non poteva radicarsi, in quanto il popolo francese aveva in effetti una sola voce… era la voce bestiale che gridava:--- PANE!.... PANE…!.

“i diritti dell’uomo” della rivoluzione francese sono diritti prepolitici, diritti naturali che preesistono a qualsiasi costruzione statuale… appartengono all’uomo in quanto tale… appartengono alla natura umana e su questa sono fondate non sulla cittadinanza, ossia sull’appartenenza alla Polis. I “bill of rights” americani, invece, presuppongono l’esistenza dello stato che attraverso la sua funzione regolatrice e di controllo fonda i diritti civili degli individui e li tutela. L’uomo è libero in quanto è cittadino di uno stato libero. Per i francesi i diritti naturali fondano lo stato e ne costituiscono il fine, per gli americani i diritti naturali in quanto tali non hanno valore in quanto necessitano dell’istituzione politica che li riconosca, li trasformi in diritti civili e li tuteli erga omnes…….. è l’eterno scontro tra Rousseau e Hobbes.


Il prodotto più importante della rivoluzione americana fu la costituzione intesa quale “costitutio libertatis”. Nella costituzione americana viene sancito un diritto: quello alla ricerca della felicità. Sin da subito questo diritto venne inteso come diritto alla felicità individuale, come diritto alla soddisfazione delle passioni personali, ma secondo la Arendt la volontà vera dei costituenti americani era di stigmatizzare il diritto alla ricerca della “felicità pubblica” intesa nel senso della passione civile degli individui alla partecipazione al governo della Cosa Pubblica. La felicità pubblica è la felicità di dire la propria e di contribuire con le parole e le azioni al progresso della repubblica nell’ambito di leggi ed istituzioni condivise. Lo scopo della rivoluzione americana fu senz’altro quello di creare istituzioni e leggi in grado di difendere gli interessi individuali dal potere pubblico (ciò nell’ottica del liberalismo classico di Locke) ma soprattutto lo scopo dimenticato e forse tradito della rivoluzione americana era quello di favorire, disciplinare, diffondere la partecipazione di tutti alla gestione della Cosa Pubblica proprio nell’ottica della Felicità Pubblica. L’individuo nel post-rivoluzione americano ha avuto la meglio sul cittadino.

lo scopo delle ribellioni (pensiamo alla schiavitù) è la liberazione; lo scopo delle rivoluzioni è, invece, l’instaurazione della libertà pubblica; da quando questo scopo si è dimenticato (e lo si è dimenticato a partire dalla rivoluzione francese) le rivoluzioni hanno cominciato a fallire. La ribellione è la lotta naturale di chi è schiavo delle spine del comando e delle necessità fisiche… solo quando l’uomo si libera da queste catene (attraverso la ribellione e il progresso tecnico, scientifico e sociale) potrà regolare con il diritto l’ingresso suo e degli altri nella vita pubblica e nelle nuove istituzioni rivoluzionarie.


i rivoluzionari francesi credettero di aver concluso il loro compito con il Terrore e con la dichiarazione dei diritti dell’uomo. In questa dichiarazione i francesi dicono che i diritti naturali dell’uomo precedono qualsiasi costruzione statuale e che i diritti naturali fondano lo stato e che i diritti naturali sono l’argine contro il potere statuale da chiunque detenuto. Questo è vero e buono ma non è conclusivo; infatti scopo di una rivoluzione non è solo distruggere gli apparati di potere, non è sostituire un potere arbitrario e crudele con l’impotenza, non è svilire le istituzioni civili sottoponendole al giudizio impietoso dei diritti naturali, compito delle rivoluzioni è fondare un nuovo potere, è la costitutio libertatisi cioè la creazione di nuove istituzioni, di nuovi poteri che fondino una nuova cittadinanza, una nuova AGORA’ pubblica dove i diversi interessi e le diverse volontà trovino una sintesi dialettica e all’interno della quale i diritti naturali possano trovare protezione civile.

Il Dolore

ora non potrà che finire così:

'tra le tristi cose della vita ....

senza più un sogno, un eterno sospiro'.

tra i giorni ho cercato sempre lo iato dei tempi.

nel silenzio, nel trambusto, tra i battiti del cuore

spero ancora una volta in una voce...

pur anche senza pace.

sabato 18 ottobre 2008

un Cristo giallo


Aspetto il suo Giudizio, di Giovanni Testori

scende a Provès la pace ...
.... no, che sei tu a scendere,
pace unica e vera,
nella sera che affonda
dalle dolcissime cime
i larici, i pini, i prati
ed i creati figli del tuo amore,
tu, nostra luce,
Cristo,
e nostro cuore.
s'apre il costato
dall'orizzonte giù
fin al precipite grembo della valle
e tutti ci comprende
trinitario figlio
dei laser della colpa trapassato
Contaci le ossa, redentore,
anche le ossa baciaci,
una per una,
e l'anime spose e amanti.
infedeli essendo,
fedeli nella trepida miseria
della nostra indegnità ti siamo
e ti cerchiamo
e ti preghiamo
I bordi sanguinanti
che nessun punto
nè crosta alcuna
riuscirà a richiudere mai
a ricomporre
la demenza del non sapere
se non nell'essere da te voluto,
amato, confessato, perdonato,
saputo, vinto, sposato,
posseduto.
nella negazione di te
dentro la cisterna,
in siepe oscura,
postribolo d'incontri ciechi d'animali,
cinghiale del Padre
m'hai raggiunto
e azzannato.
nei baci di carne che m'hai dato
viziato come ero a carne solo disperata
la Carne vera e ferma ho ritrovato.
non lasciarmi solo,
anima sono,
non più maschio
o maschio nella tua dolce
smemorante delazione.
m'hai deferito al Padre,
in catene d'amore
a Lui mi hai consegnato.
aspetto il suo giudizio
mentre, scheletro già nudo,
di saliva immonda ti riempio,
mordo le tue gengive,
indegno cane
t'offro la mia cenere
T'amo

Il ruolo politico, teologico ed estetico dei greci di Calabria durante la disputa sulla venerazione delle Sacre Icone che coinvolse l’Impero Bizantino

Nel periodo che va dal V all’XI secolo d.C., la Calabria fece parte dell’ Impero Romano d’Oriente come “Tema dell’Impero,” ossia come una Provincia governata da un capo militare, lo Stratego, e, sotto l’influenza di Costantinopoli, la Calabria riscoprì le proprie origini culturali greche divenendo, nell’Occidente ormai dominato dai barbari, uno dei pochi avamposti della civiltà greco-romana ormai in disfatta dove, grazie al diffondersi della lingua ellenica, gli intellettuali del tempo, i monaci, potevano ancora disquisire di problemi teologici e trinitari alla luce delle categorie neoplatoniche ed aristoteliche.
In questo lungo lasso di tempo, alcuni avvenimenti causarono una massiccia emigrazione di monaci cristiani di rito greco verso la Calabria bizantina.
A partire dal VII secolo, infatti, il sorgere della potenza arabo-musulmana mise in fuga molti anacoreti dimoranti nei deserti della Siria, della Palestina, dell’Egitto e della Libia, fuggiti dalle loro terre con il proprio patrimonio culturale per scampare alle persecuzioni e alle conversioni coatte alla religione di Maometto.
Nel secolo successivo, un altro esodo massiccio vide giungere sulle coste calabre numerosi asceti bizantini che, a causa della persecuzione iconoclasta avviata dall’imperatore Leone l’Isaurico, arrivarono nella nostra Terra portandosi appresso le Sacre Icone, alla ricerca di un’Autorità più moderata ed attenta alle esigenze del popolo veneratore delle Sacre Immagini. Infine, dal IX secolo emigrarono in Calabria i monaci siciliani, lasciando alle loro spalle l’occupazione araba.
la Calabria terra di rifugio, dunque, per i curatori spirituali del patrimonio di conoscenze di quell’ “Oriente bizantino” che fu sede delle insegne imperiali del potere Roma ma anche delle tradizioni filosofiche che generarono la cultura occidentale e Patria del primo cristianesimo e di riti, tradizioni ed approcci teologici al mistero trinitario che pervasero secolo dopo secolo la Calabria, innovandone la cultura e la lingua nel senso profondo di un ritorno dovuto alle origini greche della Civiltà della punta dello stivale.
Nella parte interna della Regione, lontano dai grossi insediamenti umani, gli asceti orientali crearono eremi, laure e cenobi, arrecando peraltro notevole beneficio economico alla gente del luogo. Le radici greche della Calabria furono libere di produrre cultura e benessere fino a quando tra il 1047, anno in cui Roberto il Guiscardo si stanziò in Val di Crati, e il 1057, anno in cui Reggio - sede del Tema bizantino - venne conquistata da Ruggero, i normanni soggiogarono la Calabria introducendovi la triste novità del sistema feudale e avviando la rilatinizzazione forzata dei costumi e delle strutture ecclesiastiche, per cementare, così, il rapporto con il Papato di Roma che, ormai in mano all’influenza franco-germanica e a seguito della separazione tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente (avvenuta nel 1054), divenne sempre più ostile ai riti e alle tradizioni liturgiche orientali.
La rilatinizzazione culturale della Regione ricevette un forte impulso nel 1091 allorché Papa Urbano II fece giungere in Calabria il celebre S. Brunone di Colonia che, nelle Serre, fondò la Certosa, di rito franco-latino, di S. Stefano del Bosco. A questa nuova fondazione, Ruggero il Normanno fece dono dei beni del monastero greco-ortodosso sul fiume d’Assi, comprendente il casale di Bivongi, terra storica del monachesimo bizantino.
Il fermento culturale e teologico sostenuto in Calabria dai monaci bizantini, nei secoli che precedettero l’arrivo dei normanni, contribuì non solo al diffondersi dei monasteri ma anche al radicarsi di atteggiamenti filosofici ed estetici spesso in contrasto con le decisioni imperiali di Bisanzio, segno di un’autonomia di pensiero e di studi conquistata dai calabresi e che si manifestò pienamente proprio in occasione delle persecuzioni iconoclaste e che vide la Calabria divenire uno dei porti più sicuri per i monaci in fuga con le preziose Sacre Icone.
L’iconoclastia (dal greco eikonoklasmos, distruzione delle immagini) fu un’ eresia cristiana che, con alterne fortune, coinvolse il mondo bizantino tra il 725 e l’842 d.C.
Essa prese spunto indubbiamente dall’influenza esercitata nell’ Impero dagli ebrei, dai musulmani e dalle sette orientali presenti nel suo territorio che condannavano qualsiasi rappresentazione della divinità in forma umana. Oltre a questo, la divinizzazione e la venerazione delle Icone, che si era fortemente sviluppata prima tra i monaci e poi, soprattutto, tra i ceti più poveri ed umili della popolazione, sembrò, principalmente ai dignitari ecclesiastici timorosi, come in ogni epoca, delle passioni popolari, entrare in conflitto con la tradizione biblica, ostile ad ogni forma di idolatria, e con l’insegnamento dei padri della Chiesa.
Esistevano difatti dei casi limite, al confine con l’eresia e il paganesimo, in cui veniva esaltato il significato divino dell’Icona attraverso riti estremi, come quello di bere, durante la sacra Eucaristia, parti del divin dipinto, credendo in sue proprietà taumaturgiche e medicinali. Alcune Icone venivano a tal fine perfino spacciate come dipinte mediante l’intervento divino.
Tutte queste perplessità e critiche al culto delle Immagini vennero raccolte dall’Imperatore Leone III (717-741), fondatore della dinastia isaurica, che lanciò una campagna moralizzatrice della Chiesa, pubblicando nel 726 un Editto con il quale dichiarò il culto delle Immagini Sacre alla stregua di quello degli idoli pagani e ne ordinò la distruzione nelle chiese. All’Editto seguirono disordini in tutto l’impero che coinvolsero larghi strati della popolazione e i monaci che erano i reali custodi e spesso i creatori delle Sacre Icone. Questi ultimi, come sappiamo, cominciarono ad emigrare in Calabria portando con loro le Sacre Immagini.
A favore delle Icone scese in campo il Papa di Roma Gregorio II (715-731), il quale era convinto dell’efficacia educativa delle Immagini, soprattutto in un epoca in cui l’analfabetismo era endemico nella popolazione di tutto il mondo conosciuto, e, così, si impegnò in una fitta, quanto inutile, corrispondenza epistolare con Leone che in modo intransigente rimase sulle proprie posizioni iconoclaste e passò alla contro offensiva.
Per rappresaglia contro il Papa che difendeva così strenuamente gli iconoduli (i difensori delle immagini), Leone III strappò la Calabria alla giurisdizione ecclesiastica romana, sottoponendola direttamente a quella di Costantinopoli, anche per mantenere meglio sotto controllo una popolazione, quella calabrese, che sì parlava il greco e applicava le tradizioni liturgiche orientali ma che, contro le decisioni imperiali, era in maggioranza iconodula.
La furia iconoclasta dell’Imperatore, con il passare del tempo, si sviluppò perfino in un rifiuto dell’intercessione dei santi, alla ricerca di un cristianesimo forse originario e più spirituale ma che disconosceva, elitariamente, secoli di devozione popolare, non comprendendo che l’afflato religioso si trasmette generazione dopo generazione non per le elucubrazioni dottrinarie di colti teologi di Palazzo ma attraverso il sentimento della gente comune.
La polemica dottrinaria e quella politica non cessò né con la morte del Papa Gregorio II - poiché il successore San Gregorio III (731-741) continuò la battaglia a difesa delle immagini con uguale vigore - né con la morte dell’imperatore Leone III, perché il figlio Costantino V Copronimo (741-775) fu un persecutore di immagini anche più accanito del padre. Nel 754 Costantino convocò un Concilio chiarificatore a Costantinopoli, al quale tuttavia si rifiutarono di partecipare il Papa di Roma e i patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, e che ovviamente si concluse con la conferma della condanna delle Immagini Sacre e diede luogo ad una nuova persecuzione nei confronti dei monaci e a nuove ondate migratorie verso la Calabria.
L’iconoclastia scese di tono, nelle persecuzioni e nelle violenze, durante il regno del figlio di Costantino V, Leone IV (775-780), grazie soprattutto all’opera dell’imperatrice Irene, segretamente favorevole alla venerazione delle immagini. Nella qualità di reggente del figlio minorenne Costantino VI (780-797), Irene fece riaprire i monasteri e riammettere le Immagini Sacre nelle chiese. Irene, inoltre, convocò, nel 787, il secondo Concilio di Nicea dove fu dichiarata l’adesione alla dottrina della venerazione delle Immagini, esposta in una lettera inviata - all’imperatrice - da Papa Adriano I (772-795), nella quale si chiariva che le Immagini venivano venerate (proskynesis) non con la stessa adorazione (latria) dovuta a Dio e che l’onore a loro dovuto era comunque trasposto verso il Santo ossequiato.
27 anni dopo Nicea, la campagna iconoclasta riprese, con nuovo vigore, sotto l’imperatore Leone V l’Armeno (813-820), il quale fece rimuovere nuovamente le immagini sacre dalle chiese e dagli edifici pubblici, poiché si era convinto che le sfortune contingenti dell’Impero erano da attribuire ad un giudizio negativo di Dio sulla venerazione delle immagini.
Fu esiliato anche san Teodoro Studita, ideatore del concetto dell’equivalenza tra iconoclastia e monofisismo (eresia che ammette in Cristo la sola natura divina), poiché – a parere del filosofo – ambedue le dottrine negavano, a loro modo, la natura umana di Cristo che, in quanto solo Dio e non uomo, di certo non poteva essere raffigurato nelle Icone.
Leone V fu assassinato in una congiura di palazzo nell’820, ma i successori, Michele II il balbuziente (820-829) e Teofilo (829-842), perseguitarono anch’essi accanitamente i monaci ormai identificati come idolatri, costringendoli a nuove fughe in Calabria.
Ancora una volta fu un’imperatrice a mettere fine alle persecuzioni, la moglie di Teofilo, Teodora, che, come Irene, fu la reggente per il figlio minorenne - Michele III detto l’Ubriaco (842-867) – e che, come Irene, reinstallò le immagini e liberò i monaci imprigionati, uno dei quali, Metodio, divenne patriarca di Costantinopoli.
Fu convocato, infine, nell’842 un concilio a Costantinopoli, che rinnovò le decisioni di Nicea e portò alla scomunica definitiva dell’iconoclastia.
I monaci orientali giunti in Calabria a seguito delle persecuzioni iconoclaste crearono, in quei secoli difficili, importantissimi centri di spiritualità, svolgendo un ruolo fondamentale nello sviluppo delle Comunità e diffondendo nuovi modelli artistici ed architettonici. Ne sono testimonianza, fra gli altri, il Battistero di Santa Severina (KR), la Cattolica di Stilo (RC), San Marco a Rossano ed, in particolare, Il monastero di San Giovanni Theristis (XI sec.) che si trova nelle campagne del comune di Bivongi (RC), in una vallata sovrastata dalle pareti del monte Consolino, denominata vallata bizantina dello Stilaro. È una zona nella quale tutto parla di monachesimo e di mondo bizantino. Il monastero fu costruito sulle tracce d’un preesistente luogo di culto facente parte degli insediamenti ascetici dei monaci giunti in fuga dall’Oriente e posti sulle pendici del Consolino e delle colline circostanti. Tali insediamenti erano abitati da molti monaci ed erano così provvisti di Saperi, religiosità, misticismo ed arte, da far definire questa zona la “Terrasanta del monachesimo greco-ortodosso in Calabria”.
A seguito dell’evento iconoclastico particolarmente affollata fu anche la montagna del Sellaro, nel comune di Cerchiara (CS), per la caratteristica ricettività delle sue grotte che, in greco, erano dette “tòn armòn” e poi, per assonanza, furono tradotte nell’attuale termine “Delle Armi”. Così nacque, sul Sellaro, il grande ascetario di Sant’Andrea. Questo ascetario delle Armi comprendeva circa 40 monasteri e la sua competenza ecclesiastica si estese su un vasto territorio, situato nella parte orientale del Pollino, che andava dal Sellaro fino a Petra Roseti. Negli stessi luoghi, a quota m. 1050 slm, nel 1440, sorse l’attuale Santuario di Santa Maria delle Armi.
La disputa iconoclastica, come abbiamo detto, riguardò sia la teologia che l’estetica e il suo svolgimento, e la definitiva conclusione con la vittoria degli iconoduli, contribuì allo sviluppo del pensiero estetico medievale come di quello teologico.
I teologi bizantini pre-iconoclasti avevano ristretto il campo d’azione della pittura ai soli temi religiosi, i soli ritenuti legittimi, portando alla scomparsa in tutto l’Impero della pittura profana, così che Cristo e i Santi divennero l’unico oggetto di raffigurazione nei dipinti. L’Icona (eikòn) o Immagine Sacra non rappresentava però i corpi dei Santi venerati ma le anime; Il corpo era solo il simbolo dell’anima. Questo obiettivo estetico venne raggiunto smaterializzando il corpo dipinto, allungandolo, appiattendolo, immobilizzandolo, giungendo quasi a renderlo astratto.
Gli occhi fissi e trascendenti del Santo erano il centro focale del dipinto e, In generale, le intere immagini corporee dipinte dai bizantini non rappresentavano la forma umana ma, attraverso di essa, l’Idea, il prototipo eterno della umanità e della santità.
Attraverso l’ammirazione delle Icone e, soprattutto, attraverso la preghiera dinanzi ad esse, lo spettatore-fruitore dirigeva il suo Spirito verso il mondo immutabile delle Idee ed elevava la sua mente alla contemplazione di Dio. Per ciò si parla a proposito della estetica bizantina pre-iconoclastica di “materialismo mistico” e, così, si può capire perché le Icone furono oggetto di tanta venerazione; esse furono il mezzo spirituale dei bizantini per accedere al Sublime.
La furia iconoclastica, così ostile alla tradizione estetica bizantina (figlia legittima dell’incontro tra arte greca e pensiero cristiano), traeva di converso origine da una dottrina teologica che respingeva la cultura pittorica dei greci, considerata troppo materiale e corporea, per accogliere quella astratta e spiritualistica del mondo orientale; ricordiamo, infatti, che il territorio dell’Impero Bizantino si estendeva ben all’interno dell’Asia. Molti degli imperatori iconoclasti provenivano dalla parte orientale dell’Impero e desideravano un avvicinamento tra i cristiani e i numerosi gruppi che, a Costantinopoli, non approvavano il culto delle immagini, come i maomettani, gli ebrei e i manichei gnostici.
Anche sulla base di questa ultima considerazione possiamo ben capire il perché l’iconoclastia non trovò ingresso nel pensiero teologico e nel sentire popolare dei greci di Calabria che, in opposizione alle nuove teorie della dinastia regnante asiatica, accolsero i monaci in fuga anche perché fedeli alla tradizione teologica ed estetica tradita.
Di contro il ragionamento dei teologi iconoclastici era semplice: la divinità non può essere rappresentata pittoricamente, nessuna immagine può rappresentare la natura della divinità. La rappresentazione pittorica di Dio (perigraphè) non solo è improponibile ma anche inopportuna. Tentarla significa non riconoscere la distinzione tra il divino ed il terreno e giungere all’idolatria.
l’attività degli imperatori iconoclasti, paradossalmente, proprio per questa opposizione irriducibile alla raffigurazione pittorica del divino, ebbe un effetto positivo sull’arte profana - che come abbiamo ricordato era quasi del tutto scomparsa nel mondo bizantino pre-iconoclasta - in quanto sollecitò lo sviluppo di un fare artistico realista e naturalista prima sconosciuto. Costantino V, ad esempio, sostituì nelle chiese di Costantinopoli le scene della vita di Cristo con rappresentazioni di alberi uccelli ed animali.
tutto insomma, tranne che i Santi Ritratti di Dio.

Mare Blu


Elementi di confronto tra Søren Kierkegaard e Blaise Pascal.

Nella nostra Società della morte non si può parlare, morte è diventata una parola ostracizzata, tabù che di solito si evita scivolando in parafrasi del tipo “è venuto a mancare” “ci ha lasciati” “la dipartita del caro…”.[1]
Søren Kierkegaard scorge nel pensiero della morte la condizione che è in grado di risvegliare l’uomo dal suo torpore spirituale quotidiano: non è tanto la morte in sé stessa a suscitare una seria consapevolezza della nostra vita e del tempo che ci è stato in essa affidato quanto piuttosto il pensiero della morte che diventa angoscia e che funge come spinta di tutta la nostra esistenza. È forse opportuno vedere in questa morte che dà la vita il segno del paradosso, segno che non deve essere visto in negativo, non deve solo essere il simbolo di una contrapposizione ma deve assolutamente recare in sé il germe della speranza; il paradosso non va cioè considerato come posizione inconciliabile, in una accezione che per secoli è stata sentita come negativa, ma piuttosto come compendio dell’esistenza stessa.
Occorre qui una precisazione. Per quel che riguarda la lunga tradizione del paradosso basti pensare a Socrate. Per il filosofo greco a fondamento della virtù vi era la conoscenza essendo assolutamente evidente che gli uomini non possono – se lo conoscono – non aderire al Bene. Ma a Socrate tocca così l’onore di definire che cosa è l’intellettualismo: la illimitata fiducia nella ragione che implica parimenti l’annullamento della volontà umana. Ecco che, nel solco della etica greca, passando per Platone, Aristotele etc., viene disconosciuto il concetto del peccato che altro non è che la libera scelta fatta dall’uomo tra Bene e Male. Il rilievo di tale argomentazione è ben messo in evidenza dal Giovanni Reale che scrive : “…l’etica greca […] se comparata all’etica connessa con il messaggio cristiano, risulta, nel suo complesso, intellettualistica. E non solo Socrate, con l’unilaterale sua scoperta, ma nemmeno i filosofi successivi sapranno rendere conto fino in fondo di quella drammatica esperienza umana che è il , ossia il ; essi tenderanno sempre, sia pure in diversa misura, a ridurre il peccato ed il male morale a un errore della ragione o comunque a spiegarlo prevalentemente in tal senso. […] Kierkegaard, nell’opera La malattia mortale si domanda “…Se il peccato è ignorare che cosa è giusto, e fare quindi quello che non lo è, allora il peccato non esiste […] Qual è allora la determinazione che manca a Socrate per definire il peccato? Eccola: la volontà, l’ostinazione. […] Ciò che manca a Socrate è una determinazione dialettica circa il passaggio dal comprendere al fare. È in questo passaggio che comincia il Cristianesimo; e procedendo per questa via arriva a dimostrare che il peccato sta nella volontà….L’uomo non fa il bene solo perché non è stato in grado di comprenderlo oppure perché non ha voluto essere in grado di comprenderlo?”
[2]
Il peccato, dunque, esiste ed anzi esso in quanto frutto di libertà entra in gioco nel determinare lo stesso senso dell’esistenza umana. Dinanzi a Dio, nell’esistenza fatta di scelte e di aut-aut, l’uomo ci sta da peccatore. Mentre sceglie l’individuo si forma ma egli ha coscienza della libertà solo nell’angoscia del peccato. “L’esistenza, nella sua contraddittorietà, acquista tutto il suo senso sul piano religioso a partire dalla condizione esistenziale dell’angoscia quale presupposto, conseguenza ed essenza del peccato”[3].
È solo di fronte alla morte che si fa esperienza di Dio, che si vive sia l’eternità che l’istante, che si ha facoltà di operare la scelta, di aderire al divino, di far si che il singolo, l’individuo possa veramente e concretamente fare irruzione nel tempo dove il finito comprende l’infinito: evento, questo, che la ragione non potrà mai comprendere.

Anche nella vita (se pur breve) di un altro filosofo si abbracciano e si respirano analoghe problematiche: Blaise Pascal (1623 – 1662) incentra la sua ricerca filosofica su una concezione della visione umana che vede nell’Uomo, essere pensante che riflette la sua propria condizione, un soggetto allo stesso modo degno di amore e di disprezzo, un nodo di contraddizioni che è inerme ed impotente nella sua infinita piccolezza ma con la sua vicenda umana per quanto tragica, flebile e minuscola di fronte al Tempo, alla eternità, ha la capacità di risollevarsi dal suo stato di miseria.
Pascal si pone al di fuori del suo tempo, così come anche si può dire per Kierkegaard, in quanto vive ed opera in un secolo dove vince il razionalismo (basti pensare che il Discorso sul metodo di Cartesio è pubblicato nel 1637) eppure la domanda fondamentale che si pone Pascal è – appunto - l’interrogativo sul senso della vita tanto che lo porterà a scrivere “Tutto quello che so è che debbo morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare”
[4].
Sta proprio in questo la contraddizione e la problematicità del paradosso umano, nella sua infinita piccolezza l’Uomo possiede una infinita grandezza: di fronte al tempo che ci inghiotte, attimo dopo attimo in una fornace perenne, l’Uomo ha l’opportunità – inestimabile – di risollevarsi in virtù della dignità del suo spirito.
Di religione giansenista, geniale matematico, scienziato ed inventore, Blaise Pascal - vissuto una generazione dopo Cartesio, la cui filosofia aveva una radice meccanicista - si dedicò non alla dimostrazione della esistenza di Dio (come motore immobile), sulla quale molti filosofi si sono accaniti, ma piuttosto alla ricerca di Dio inteso come complemento (e completamento) della vita umana, come passione a cui tendere in quello sforzo del singolo che dall’immanente vuole giungere al trascendente.
Dunque non è tanto la “dimostrazione” della esistenza di Dio ma piuttosto il “pensiero di Dio” ad interessare la speculazione pascaliana.
Alla morte di Pascal fu possibile scoprire uno scritto che egli portava cucito addosso e che è il Memorial dove Pascal stesso chiarisce quale sia il suo Dio: “il Dio d’Abramo, d’Isacco, di Giacobbe non dei filosofi o degli scienziati”.
Analogamente a Søren Kierkegaard non è possibile capire il percorso filosofico del pensatore francese senza tenere conto delle vicissitudini personali.
La vita di Blaise Pascal, che morì all’età di 39 anni, certamente non meno tormentata ed intrisa di sofferenza al pari di quella di Soren Kierkegaard, ha portato il filosofo francese ad una generale riflessione sulla condizione umana che è essenzialmente una condizione di assoluta solitudine e di angoscia. Angoscia questa che, per essere delimitata, almeno apparentemente, ha bisogno del “divertessement” ossia del divertimento inteso, questo, nel senso etimologico del termine cioè allontanare, dal latino devertere. Pascal però mette in guardia da questa facile soluzione, l’uomo infatti per allontanare da sé questa idea di solitudine, di finitezza deve fare piuttosto leva su quella “scintilla di Dio” che è in ognuno di noi, deve avere il coraggio di “scommettere”.
Si potrebbe azzardare che l’Uomo in generale non è però in grado di andare oltre il divertessement, di compiere quel salto “mortale” che lo conduce a Dio, rimane a quello stadio che S. Kierkegaard ha definito dell’Uomo Estetico.
Pascal è antesignano dell’esistenzialismo, cioè di quella corrente filosofica che si incentra sull’esistenza percepita come non indagabile dalla ragione. Affermerà Pascal: “L’ultimo progresso della ragione è di riconoscere che c’è una infinità di cose che la sorpassano; essa non è che debole cosa, se non giunge fino a conoscere questo. Ma, se le cose naturali la sorpassano, che dire di quelle soprannaturali?”.
[5]
Il Cristo della fede e quello dei filosofi sono inconciliabili poiché essendo la fede un dono è richiesta una scelta non di tipo razionale bensì esistenziale.
Pascal allarga la ragione cartesiana ed il suo razionalismo quando si riferisce a quel particolare tipo di conoscenza umana che è lo spirito di finezza. Per Pascal accanto alla razionalità geometrica
[6], che presuppone la piena visibilità degli oggetti intellettuali ai quali si riferisce e l’applicazione di argomentazioni analitiche, opera una razionalità sintetica che rivolge la sua attenzione non agli oggetti astratti della matematica ma ai principi e fenomeni che sono di uso comune e sa coglierli nella loro complessità interpellando gli strumenti “della visione di insieme”, dell’intuizione e del sentimento partecipativo. Nei Pensieri leggiamo a proposito dei “Principi delle cose di finezza”: “Bisogna cogliere la cosa di primo acchito e d’un solo sguardo, non per progresso di ragionamento, almeno sino ad un certo punto”[7]. L’indagine umana, dunque, non comprende solo i temi del sapere meccanicistico dell’epoca ma si estende fino ad inglobare i temi più nettamente esistenziali spesso considerati marginali. Tale estensione comporta l’abbandono delle pretese di fornire un modello onnicomprensivo e unitario del sapere; il sistema cartesiano, come quello hegeliano, non può essere una sorta di vademecum per categorie razionali in grado di rispondere a tutte le domande esistenziali dell’Uomo attraverso i tempi. La ragione pascaliana, dunque, si configura più varia ed elastica di quella Cartesiana, sempre consapevole dei limiti che caratterizzano le proprie argomentazioni. “E’ il cuore che sente Dio, e non la ragione. Ed ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla ragione”.[8]
L’uomo pascaliano, consapevole dei propri limiti intellettuali e dell’enorme varietà dell’esperienza umana e del mondo, vive i sentimenti dello “sbigottimento” e del “tremore” e della “silenziosa contemplazione”.
Questa consapevolezza dei limiti del conoscere porta Pascal a compiere una revisione della gnoseologia cartesiana e della sicurezza con cui il razionalismo cartesiano elevava i dati razionali a fondamento della conoscenza filosofica – scientifica.
Pascal è convinto che sensi e ragione si ingannino reciprocamente coesistendo dal punto di vista gnoseologico istanze contraddittorie rivolte ora alla totale fiducia dei propri atti cognitivi ora alla ridicola messa in discussione dei medesimi. Mentre la razionalità forte di Cartesio era convinta di cogliere certezze inconfutabili, la ragione debole di Pascal percepisce frammenti di verità sempre messi in discussione.
Così come Pascal si oppone al sistema cartesiano Kierkegaard si oppone al “sistema filosofico del suo tempo”: quello di Hegel; scriverà nel suo Diario “io stupido hegeliano”. Il motivo è lo stesso per entrambi i filosofi esistenzialisti: difendere l’intimità dell’uomo minacciata dal razionalismo e dalla astrazione. Il pensiero sistematico disconosce l’esistenza e le difficoltà della esistenza prescindendo dal concreto e facendo ciò elimina ogni contraddizione affogando la libertà individuale nella necessità storica, negando l’aut – aut interiore per l’et-et del divenire universale, precludendo la via all’etica intesa quale piena scelta, piena soggettività e piena passione. “Alla sistemazione totale si oppongono le Briciole Filosofiche”
[9], alla Storia Universale si oppone la Storia Esistenziale.
Abbiamo così cercato di delineare un primo asse di paragone tra Kierkegaard e Pascal.
Entrambi ebbero una vita intrisa di sofferenza che in qualche modo costituì l’input di una riflessione filosofica che voleva dare conto del destino spirituale degli Uomini e del motivo dell’esistere della religiosità umana, al di là - si ripete ad abundantiam – del ragionamento e delle prove della esistenza di Dio. Singolare analogia sta anche nel fatto che la produzione scritta di questi due filosofi sia stata resa per lo più nella forma frammentaria e aperta degli aforismi, non un’opera sistematica, come se si volesse sottolineare l’impossibilità di fornire un vademecum “di carattere esistenziale” da tirare fuori dalla tasca a risolvere dubbi e perplessità dell’animo umano quando viene sera.
Dopo – per entrambi – un periodo in cui cercarono risposte nella mondanità, status nel quale si annicchia la maggior parte degli uomini, oltrepassarono l’uno la soglia del divertessement, l’altro salì l’ulteriore scalino della consapevolezza che dallo stadio estetico lo condusse a quello etico ed infine a quello religioso.
Questi due pensatori in coerenza con la loro visione che pone l’accento sull’individuo furono entrambi in contrasto con la Chiesa Ufficiale del proprio tempo, tanto che Pascal scriverà le lettere conosciute come “Provinciali” e Kierkegaard attaccherà la gerarchia ecclesiastica con uno scritto dal titolo “Era il vescovo Mynster un testimonio della verità?”. Scriverà infatti Kiekegaard “La migliore definizione della cristianità è quella di Pascal: “Un’associazione di uomini i quali per via di alcuni sacramenti si dispensano dal dovere di amare Dio”
[10]. Essi trovarono in Dio le risposte alle laceranti domande che avevano dentro: la dimensione del religioso per la prima volta non rispondeva ad una mera esigenza interna del sistema infatti non era né il primo atto né la formula di chiusura e neanche la facile scorciatoia (Deus ex machina).
Kierkegaard indica tre momenti essenziali della scelta: lo stadio estetico, lo stadio etico, lo stadio religioso. Nel primo stadio l’uomo essenzialmente è attirato da ogni cosa che lo porta al godimento, inteso sia come piacere fisico che come piacere intellettuale, per mantenere alto questo apparente stadio di felicità è però costretto a cambiare spesso oggetto del desiderio dunque anziché essere un uomo libero di fare ciò che più gli aggrada è in realtà solo schiavo di sé stesso e dello sforzo di allontanare la noia dalla propria vita (in Kierkegaard questo stadio è rappresentato dalla figura del Don Giovanni). Pascal sentenzia: “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza hanno preso partito, per rendersi felici, di non pensarvi”.
[11] Nello stadio etico (raffigurato da Agamennone[12]) invece l’uomo deve operare una scelta in quanto è posto di fronte al Bene ed al Male e deve aderire all’uno o all’altro, a differenza del precedente stadio può porsi però come soggetto e compiere un atto di volontà e in sostanza di libertà. Facendo ciò prima che operare una scelta tra bene e male sceglie di essere se stesso[13]. L’ultimo stadio, detto religioso, vede l’uomo in rapporto personale con Dio, ossia con l’Assoluto. Qui la libertà è ad un livello più alto: figura emblematica di questo porsi in rapporto personale, singolare, autentico è Abramo. Abramo infatti, al di là dell’etica che lo vedrebbe solo come assassino del figlio, è il vero campione della fede che opera la sua scelta obbedendo a Dio, mettendosi in rapporto diretto con esso, credendo con tutto il cuore all’assurdo.
Anche in Pascal si possono ritrovare tre ordini di giudizio: quello dei falsi dotti i quali non comprendono né approvano il popolo nella sua continua ricerca di divertimento; quello dei dotti che comprendono tale ricerca poiché ne intuiscono la ragione profonda (ossia la fuga dal pensiero della morte) e quello infine dei credenti i quali sono i soli ad avere una comprensione piena e autentica del problema e dunque cercano un rapporto con Dio. Nel pensiero 12/160 Pascal scrive ancora: “Non vi sono che tre categorie di persone: quelle che servono Dio, avendolo trovato; quelle che si adoperano a cercarlo, non avendolo trovato; quelle che vivono senza cercarlo né averlo trovato. Le prime sono ragionevoli e felici; le ultime sono folli e infelici; quelle di mezzo sono infelici e ragionevoli”
[14]. Importante è qui sottolineare che il passaggio da uno stadio all’altro non avviene mai come una necessità ma come libera scelta individuale.
Per Kierkegaard la fede dunque è un atto della volontà e non della ragione: avere fede significa scegliere di credere a ciò che oggettivamente è incerto. Credere comporta allora un rischio, un salto, una decisione. La fede, come aveva già compreso Pascal, è una scommessa.
[15] Ecco dunque che la categoria dell’esistenza (del singolo) viene contrapposta a quella hegeliana di essenza; in aiuto viene anche l’etimologia della parola existo che letteralmente vuol dire vengo fuori …dal concetto, …dall’essere inquadrato in modo universale in una categoria (es. cosa è l’Uomo).
Analizziamo ora, anche se in modo sintetico, alcuni aspetti relativi a Dio ed alla religiosità come vengono affrontati dai due filosofi: il concetto di peccato, il nascondimento di Dio, le prove dell’esistenza di Dio.
Riprendendo il concetto di peccato, tenendo presente quanto già sopra evidenziato e della differenza con l’etica greca che lo attribuiva ad un errore dell’intelletto, Giorgio Penzo in un paragrafo intitolato “L’esistenziale della contemporaneità e la realtà del peccato” ci introduce al concetto di peccato in Kierkegaard. Per questi, spiega Penzo, “…il peccato deve essere interpretato sotto l’angolo visivo esistenziale e non già sotto l’aspetto morale, come per lo più si constata nel pensiero tradizionale. […] Non può esistere infatti un peccato dell’uomo in generale ma solo il peccato dell’uomo singolo. Di conseguenza non ha senso parlare di una realtà concettuale del peccato. […] Egli (Kierkegaard) fa presente che se si vuole spiegare la realtà del peccato originale con le categorie dell’intelletto conoscente si deve pensare che la peccaminosità precede il peccato […]il problema di Adamo non è altro che lo stesso problema del primo uomo che pecca. […] se si dice che il primo peccato di Adamo è la causa del fenomeno etico della peccaminosità si deve ammettere che ciascun uomo dopo Adamo presuppone la peccaminosità come conseguenza […] in altre parole Adamo è l’unico uomo che rimane fuori della storia del genere umano […] ciò implica considerare il peccato sotto l’angolo visivo della specie”.
[16] Scrive Isabella Adinolfi “per Pascal, l’uomo è stato creato ad immagine di Dio e in ciò consiste la sua grandezza, ma con il peccato, la sua natura è divenuta simile agli animali e per ciò è misero”.[17]
Il peccato non appartiene, dunque, alla sostanza dell’uomo altrimenti verrebbe meno la libertà dell’uomo: la scelta ha luogo dunque nella dimensione dell’attimo. Il passato per Kierkegaard è quindi solo l’accaduto ma non il necessario (come per Hegel), se si ragionasse diversamente anche dal futuro (che diventerà passato) scomparirebbe la possibilità della libertà. La possibilità della libertà è la possibilità della scelta, dell’ aut – aut, dell’etica. È questo il senso profondo della storia: la possibile scelta individuale esistenziale. Il senso alberga nel futuro possibile che, se diviene scelta dell’oggi (scelta di fede) trasforma il passato richiamando nell’oggi l’eterno ancorato alla storicità di un fatto: l’incarnazione di Cristo. In questo modo, con la scelta di fede, la persona vive appieno il paradosso dell’unione tra il tempo umano e l’eterno salvifico; paradosso, dunque, e non sintesi. Tempo ed eterno, infatti, rimangono radicalmente e qualitativamente diversi ma convivono nella follia paradossale di una scelta intima “il paradosso è l’eternizzazione della realtà storica ed è la storicizzazione dell’eternità”.[18]
Dirà Pascal a proposito del tempo “Non stiamo mai nei limiti del tempo presente. Anticipiamo l’avvenire come se fosse troppo lento ad arrivare, quasi per affrettare il suo corso; oppure rievochiamo il passato per fermarlo; quasi troppo precipitoso; siamo così imprudenti da scorazzare in tempi che non ci appartengono e da non pensare all’unico tempo che ci appartiene; siamo così fatui da sognare i tempi che non esistono più e da fuggire senza riflettervi, il solo che sussiste. Perché, di solito, il presente ci tormenta […] [19].
Il rapporto tra tempo ed eterno viene risolto in base a riferimenti esistenziali ed ecco allora come è possibile che “Gesù come figura esistenziale insieme è presente nel tempo e fuori dal tempo. Si tratta di un evento che non è solo storico poiché si ripete in ogni cristiano. È storico ed insieme esistenziale. Questo continuo intreccio ha luogo nella realtà dell’attimo
[20]. Di qui la distinzione di Kierkegaard tra cristiani «ammiratori» e cristiani «imitatori». I cristiani ammiratori sono seguaci di una dottrina, i cristiani imitatori sono invece seguaci di un modello di vita. Il poter essere un cristiano imitatore indica il poter considerare la propria esistenza appunto come contemporanea a quella di Cristo.”[21] L’imitatio Dei fa di un cristiano il vero credente e non solo il seguace di una dottrina, l’imitazio Dei unisce il presente all’eternità, la priorità del tempo sullo spazio (hic et nunc). Una concezione analoga si ritrova anche nell’ebraismo: è il soggetto a dover colmare, nel suo proprio presente, l’intervallo esistenziale tra dogma e vissuto.
Per quel che riguarda, infine, la presenza di Dio annota Pascal “Vedendo troppo per negare e troppo poco per essere certo, mi trovo in uno stato compassionevole, in cui ho cento volte desiderato che la Natura, se un Dio la sostiene, ce la indicasse senza equivoco; e che, se i segni che essa ne dà sono ingannevoli, li sopprimesse del tutto; che dicesse tutto o niente, affinché vedessi qual partito devo seguire”.
[22] Kierkegaard si interroga anche sul silenzio di Dio nel mondo, sul suo restare annebbiato ma “il Dio Kierkegaardiano è il Deus absconditus, e questo suo starsene celato è il segno della nostra e non della sua imperfezione”.[23] Il punto su cui maggiormente differiscono questi pensatori sono i miracoli e le profezie compiuti da Gesù Cristo: per il francese essi sono le prove di Dio (prove non in senso filosofico-razionale ma storico) per Kierkegaard essi invece sono solo una spia luminosa che segnala la presenza del paradosso, egli, contrariamente a Pascal, nega alla storia ogni forza probante in materia di apologetica cristiana. Conseguentemente nessuna filosofia potrà mai rendere ragione di Dio, eppur se qualcuno – nelle ore del crepuscolo – si dedichi ad essa sappia, ammonisce Pascal che “prendersi gioco della filosofia, questo è filosofare veramente”.[24]
Abbiamo così visto come ai due filosofi, indipendentemente dal sapere se Dio esista veramente oppure no, interessi scorgere quale risvolto abbia per l’esistenza individuale di ognuno la possibilità della Fede, dell’incontro con Dio, in quanto Dio è l’unica via di uscita dall’angoscia[25]: la paura della morte si può vincere solo con la fede, all’uomo è dunque data come unica salvezza la ricerca di Dio ma Dio è anch’Esso alla ricerca dell’uomo?







BIBLIOGRAFIA

o Soren Kierkegaard Briciole filosofiche – Queriniana, Brescia 2001
o Soren Kierkegaard La Malattia per la Morte - Donzelli, Roma 1999
o Soren Kierkegaard Timore e Tremore – Bur, Firenze, 2001
o Soren Kierkegaard Diario
o Giorgio Penzo Kierkegaard. La verità eterna che nasce nel tempo - Ed. Messaggero, Padova 2000
o Aurelio Rizzacasa, Kierkegaard. Storia ed esistenza, Studium Roma 1984
o Isabella Adinolfi Il cerchio spezzato. Linee di antropologia in Pascal e Kierkegaard – Città Nuova Editrice, Roma 2000
o Giovanni Reale Socrate. Alla scoperta della esperienza umana – Bur Saggi, Milano 2001
o C. Ciancio – G. Ferretti – A. Pastore – U.Perone Filosofia: i testi, la storia – Voll. II e III – Editrice SEI, Torino 1991







Søren Kierkegaard ha fatto invece di quel suo “vivere per la morte” il senso supremo della esistenza e non a caso si legge nel suo diario, mentre è rivolto con l’animo a Regina Olsen “ti ho lasciata qui per averti per sempre”. Ecco allora che l’assoluta fede in Dio consente di fare quel salto che dalla rassegnazione passa alla fede, fede nella quale tutto è possibile, dove un amore non vissuto può diventare un amore eterno. “Bussate e vi sarà aperto “ “chiedete e vi sarà dato” “La fede sposta le montagne”
Il cristianesimo parla sempre di eternità ma la cristianità vive solo nel presente.
Quando si ha paura si teme qualcosa, quando si ha angoscia si teme il nulla.
Il concetto di angoscia è mutuato da Lutero.
[1] Sembra forse strano iniziare una tesina parlando di morte fisica ma in realtà sono convinta che il cercare il fondamento dell’uomo e ritrovarlo in Dio, mediante una scelta urgente, sia che si tratti del “salto” kierkegaardiano che della “scommessa” pascaliana, nasca appunto dal saperci esseri finiti e come tali temporali e per questo anelanti sia all’infinitezza che all’eternità. Non a caso, del resto, nel libro della Adinolfi si ritrova in copertina il fotogramma del film di Ingmar Bergman “Il Settimo sigillo” quello in cui il cavaliere giocando a scacchi con la morte esclama: “Perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi ? […]perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché, nonostante tutto continua ad essere per me uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? […] io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi. Voglio la certezza, voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli”.
[2] G. Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Milano 2001, pag. 245 e segg. Si noti che nella dedica iniziale del libro Giovanni Reale pone questi due frammenti: “Fuori dalla cristianità non c’è che Socrate. Tu, o natura nobile e semplice, tu eri veramente un riformatore” (Kierkegaard, Diario) e “Socrate – lo confesso - mi è talmente vicino, che devo quasi sempre combattere contro di lui” (Nietzsche, estate 1895).
[3] Aureliio Rizzacasa, Kiekegaard. Storia ed esistenza, Roma 1984, pag. 40
[4] Blaise Pascal, Pensieri.
[5] Blaise Pascal, Pensieri [267].
[6] Cfr. Blaise Pascal, Pensieri [1].
[7] Blaise Pascal, Pensieri.
[8] Blaise Pascal, Pensieri [278].
[9] Aurelio Rizzacasa, Kiekegaard. Storia ed esistenza, Roma 1984, pag. 31 nota 29: “L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, Sanzoni, Firenze 1971, pag. 89”.

[10] Blaise Pascal, Pensieri [556]
[11] Blaise Pascal, Pensieri [168]
[12] Agamennone al pari di Abramo compie la scelta di uccidere la propria figlia Ifigenia ma differentemente dalla figura biblica il suo è un atto dovuto in quanto il sacrificio è necessario agli dei affinché la flotta possa ripartire: è dunque un atto preteso dalla collettività (il coro accompagna il sacrificio) non frutto di libera e intima scelta di aderire al divino.
[13]
[14] Cfr. Isabella Adinolfi Il cerchio spezzato. Linee di Antropologia in Pascal e Kiekegaard, pag. 72.
[15] Cfr. ibidem, pag. 49.
[16] Cfr. Giorgio Penzo Kierkegaard. La verità che nasce nel tempo, pagg.101-110.
[17] Isabella Adinolfi Il cerchio spezzato. Linee di Antropologia in Pascal e Kiekegaard, pag. 51.
[18] Soren Kiekegaard Briciole di Filosofia, in Briciole di Filosofia e postilla non scientifica.
[19] Blaise Pascal, Pensieri [172]
[20] Giorgio Penzo, Kierkegaard. La verità eterna che nasce nel tempo, pag. 88
[21] ibidem, pag. 91
[22] Blaise Pascal, Pensieri [449].
[23] Isabella Adinolfi Il cerchio spezzato. Linee di antropologia in Kierkegaard e Pascal, pag. 69 nota 62: “Remo Cantoni, La coscienza inquieta, cit. pag. 273”.
[24] Blaise Pascal, Pensieri [4].
[25] Gli esistenzialisti atei del Novecento rimprovereranno a Kierkegaard di aver tradito l’esistenzialismo ricorrendo a Dio come punto di arrivo, come porto sicuro in cui approdare e dunque di porre “riparo” al nulla, tipico della ricerca esistenzialista.

lo Spirito è assurdo .. e ci lega

quando pure l'ultima speranza

sarà caduta 'in piedi'

innanzi a te, vero reale che moritifichi


quando anche il pianto sarà gelato

dentro un cuore di pietra fossile


quando l'amore non avrà che ricordi

sui quali crescere triste e futuro


allora avrò la prova definitiva

che lo Spirito è assurdo .. e ci lega.


potessi, lo sradicherei dalle carni

lo renderei trascendente


ma ha i tuoi occhi e i miei passi

e bacia un legno crocifisso.


è come un tarlo che scava a fondo

fino a rompere le ossa già rotte


fino ad una polvere più fine

che contagia l'uomo

mercoledì 1 ottobre 2008

Enzo Musolino nasce a Reggio Calabria nel 1975. Laureatosi presso l’Ateneo di Messina in Giurisprudenza diventa avvocato e si trasferisce per lavoro a Venezia. Collaboratore giornalistico, docente specializzato, studioso di storia e pensiero delle religioni, dal novembre 2009 è dottorando di ricerca in 'metodologia della filosofia' presso l'Università di messina.