giovedì 17 agosto 2017


IN DIFESA DEL “COMPAGNO ZETA” 

Due sono stati gli interventi che mi hanno colpito nel corso della scorsa assemblea nazionale del partito democratico, e sono stati gli interventi di chi - davvero fuori dagli schemi - non ha indossato una precisa casacca, non si è intruppato semplicemente per Renzi o per gli scissionisti ma  ha tenuto a rappresentare, a fronte della contrapposta retorica, profili complessi di realtà e concretezza che è sempre necessario comunicare e diffondere.

Il primo è stato quello del ministro del lavoro Poletti, il quale dopo una serie pressoché ininterrotta di retorica lalurista vecchio stile, tutta incentrata sul mito di un “lavoro” da difendere con le unghie e con i denti dai finanziari, dai capitalisti, da un mercato – sempre da riformare – dipinto come la causa dei mali generatisi dalla lunga crisi, dopo la richiesta veemente di molti di un PD rivolto sempre e comunque, senza se e senza ma, dalla parte del lavoro, appunto, ha tenuto a precisare un dato di concretezza dal quale, fuor di retorica, è difficile trascendere: il lavoro lo crea l’impresa; il lavoro buono, quello non clientelare, frutto del merito e della concorrenza, il più duraturo perché legato a produttività e profitto lo crea l’impresa buona, l’impresa che sa stare sul mercato, che, magari, sa anche usare con intelligenza gli strumenti finanziari, senza, per questo, vendersi al diavolo della finanza sanguisuga ed assassina. In aggiunta, scandalo demitizzante a parte, ha chiarito brevemente la storia dei voucher in Italia, un’invenzione, comunque da riformare e non da demolire per l’indubbio effetto di contrasto al lavoro nero, che non è stato il frutto del jobs act renziano – che, da ultimo, ha precisato, invero, modalità di comunicazione della effettiva prestazione rendendo obbligatoria l’email preventiva all’ispettorato territoriale del lavoro – ma di una serie di governi precedenti – da Berlusconi a Letta, passando per Monti – che progressivamente hanno ampliato la platea dei potenziali beneficiari senza che emergesse l’emergenza oggi pompata da una CGIL in cerca di una rinnovata strada 2.0 per il sindacalismo politico. Il jobs act ha concluso Poletti è quello che ha, con l’abolizione dell’art. 18, puntato sul contratto subordinato prevalente, che ha abolito formule contrattuali precarizzanti  co.co.pro. e associati in partecipazione con apporto lavorativo, che ha ridotto grandemente l’oscena formula delle false partita Iva. Ma tutto ciò, ovviamente, appartiene alla realtà e ai fatti e di certo non possiede quell’appeal retorico e romantico tale da strappare commozione ed afflato in una riunione così tragica di partito (purtroppo !).

L’altro intervento è stato quello di Giovanni Taurasi, giovane militante e delegato, che quali al termine dei lavori si è prodotto in una vera antropologia del “compagno Zeta”, cioè dell’anonimo militante di un circolo tipo del Pd renziano, sempre il primo ad arrivare in sede, sempre speranzoso  nella massiccia presenza altrui, sempre attento agli interventi dei più loquaci ed in silenzio quasi assolto dalla propria postazione all’ultima fila. Ma nache il compagno zeta che si illumina e ride il giorno delle primarie, il giorno della partecipazione di un popolo che riscopre passione civile e la bellezza della partecipazione e dell’impegno, il giorno della festa democratica (sempre che non venga guastata dalla prosaica presenza dei cinesi assoldati o da candidature di rottura sostenute da quelle truppe cammellate che sviliscono il libero voto di opinione dei tanti compagni zeta). In ogni caso il compagno zeta, nel pd, esiste, e questo è l’importante, questo è stato il segno ed il sogno regalatoci da Giovanni Taurasi: la rappresentazione della forza ostinata e davvero inattuale di chi, innamorato della politica e delle sue regole liberali e costituzionali, a fronte della violazione palese dell’elemento base del principio dell’alternanza democratica – chi vince ha il dovere di governare una comunità e chi perde ha il dovere di fare una minoranza responsabile fino alla prossima occasione – non si interroga pensoso e riflessivo  tanto sul perché di una scissione – a 25 anni dal crollo del Muro - francamente indifendibile neanche cantando Bandera Rossa (il potere è quasi sempre la risposta giusta a questa domanda) ma sul come siamo tutti arrivati a legittimare e a ingrandire tutto questo, tenendo milioni di iscritti – alle prese, nei circoli, con i problemi reali del Paese – ostaggio di uno psicodramma personale (quello di Emiliano) montato ad arte da pupari rimasti alla finestra.

 

Enzo Musolino

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