mercoledì 11 marzo 2020


LO SCISMA E L’ORTODOSSIA: RENZI CONTRO RENZI

 

 

Lo scisma del “Giglio magico” è, in fondo, l’eresia di Renzi contro l’ortodossia renziana della vocazione maggioritaria e del Partito complesso, plurale e liberale.

Più che l’accusa di tradimento, quindi, vale, a mio parere, quella di contraddizione interna, nei limiti di una operazione – tutta di Palazzo – non degna della rottamazione guascona e nuovista del riformista radicale Renzi ma della negromanzia del vecchio che ritorna.

 E ciò perché Renzi, con l'ennesimo partitino di Centro, con Italia Viva, non supera il PD ma supera, oltrepassa se stesso, rinnega l’evocazione del Partito della Nazione, sconfessa la strategia del Centrosinistra unito, contribuendo a produrre una competizione identitaria al suo interno, una competizione di natura squisitamente “proporzionale” che contraddice non Nicola Zingaretti ma Aldo Moro e Nino Andreatta!

Per ciò, è chiaro che molti cattolici liberali e democratici, i laburisti e i riformisti, abbiano compreso bene i limiti strategici dell'iniziativa, pur ammirando la sublime tattica!

Tra le due cose - strategia e tattica - come è noto, la differenza è molta, come la distanza tra le categorie de Il Politico (che Renzi padroneggia ad arte articolando la dialettica amico /nemico) e le categorie della Politica e, tra queste ultime, soprattutto quelle di Bene Comune, di Condivisione, di Dialogo, di Comunità.

Da quale parte debbano stare i liberali, ovverosia se dalla parte della contrapposizione ideologica o da quella della cooperazione politica, su questa cosa dirimente che palesa la distanza tra sostenitori della  Società Aperta e promotori della Società Chiusa/perfetta, credo abbiano detto cose definitive tutti gli autori del cattolicesimo liberale ottocentesco, da Antonio Rosmini ad Alessandro  Manzoni, ma anche i neo liberali come Friedrich von Hayek, gli ordo liberali della Scuola di Friburgo e lo stesso Karl Popper, tutti pensatori impegnati, in fondo, nel rigettare la denigrazione del prossimo impegnato nell'articolazione concreta della complessità politica, trasformandolo prima in competitor, poi in avversario e, infine, in nemico.

Che senso ha, infatti, ora, come fanno molti tifosi renziani, dipingere il Pd, un partito del 20% e oltre, come una ridotta di massimalisti? Non commettono lo stesso errore (di segno contrario) realizzato dai "sinistri" scissionisti Bersani e D’Alema che lo rappresentavano come un’accozzaglia di traditori destrorsi, schiavi del Capitale?

In realtà il PD è stato governato in modo plurale da ex PCI, Cattolici, Laici, Socialisti e Liberali, magari insieme e senza ordine interno, in maniera anarchica, ma, comunque, nell'ambito di un metodo liberale e aperto alla Società, sancito da uno Statuto che ha fatto del Partito Democratico - nel suo lungo processo di genesi all'interno delle esperienze di Centrosinistra e dell'Ulivo - il partito più "scalabile" d'Italia, quello meno arroccato sulle posizioni ideologiche tradizionali.

Come negare, infatti, che dalla riforma del mercato del lavoro di Tiziano Treu, alle lenzuolate di Pier Luigi Bersani, alle privatizzazioni, al Jobs Act di Matteo Renzi, si sia dato corpo, pur tra mille contraddizioni, ad un'unica evoluzione riformista e moderna; e ciò ben al di là delle sterili divisioni leaderistiche.

Bene, allora, detto questo, oggi, che senso ha separarsi senza una cesura ideale complessiva?

Renzi e Zingaretti non la pensano in egual modo su europeismo, atlantismo, attenzione ai conti pubblici, laicità, libertà religiosa, immigrazione, accoglienza? Non appare chiaro, dunque, che (come quasi sempre) gli scissionisti rompano solo per motivi personalistici ed equilibri di Potere? E tutto ciò dovrebbe entusiasmare i militanti?  

E questa sarebbe una rivoluzione culturale e di popolo? Dove sono le ragioni simboliche e reali operanti, ad esempio, delle tragiche scissioni del 1921 a Livorno ? O del 1991 alla Bolognina?

Il Partito Democratico è, proprio per tutto questo, un progetto complesso che non può perdere pezzi senza trascinare nella crisi di consenso tutte le sue componenti, anche quelle dell’abbandono furbo.

La vocazione maggioritaria, infatti, significa questo: più dell’identità statica e sicura, più della sicurezza di “casa” o “Ditta”, ha valore e senso la capacità di incarnare la Società Aperta e un futuro plurale !

Hanno sbagliato, allora, Bersani e D'Alema ad andarsene, e prima ancora Rutelli, ed oggi sbagliano Renzi e Calenda.

 La gente dei circoli, i militanti impegnati nei territori con le mille luci accese delle riunioni settimanali, gli elettori policromi di un Progetto che, sin dalla nascita, si è proposto come unitario e alternativo alle Destre illiberali, non credo possano premiare chi piega e torce questo approdo storico per meri interessi di clan.

Dentro i laburisti inglesi, ad esempio, sussiste una storia complessa, anche di componenti trotskyste e Tony Blair, di certo, non ha abbandonato il campo con l'avvento di Jeremy Corbyn, continuando la battaglia –  dentro il Partito – contro la paura protezionistica e statalista verso "l'operaio polacco", contro, quindi, quella miope Brexit di Sinistra che sta contribuendo al declino del Regno Unito.

E negli States se prevalesse la posizione di Bernie Sanders, di certo i Clinton non cesserebbero di essere Democratici e Liberal. I Partiti – le grandi Associazioni ideali che concorrono a determinare la politica democratica – si debbono conquistare dall’interno, con gli strumenti e i tempi giusti, con la forza e la pazienza che meritano le Buone Idee.

 Questa è stata, in Italia, la saggezza "democristiana" che ha saputo rappresentare il pluralismo sociale delle classi e la molteplicità degli approcci popolari in maniera unitaria, proprio nel tempo del “proporzionale puro”, senza mai cedere all’illusione dell’orgoglioso identitarismo da operetta, senza credere alla rivendicata purezza delle proprie Verità esclusive.

Ed ancora oggi, ai tanti elettori non demagogici non interessa la purezza "post comunista" di D'Alema ne', tanto meno, una possibile affermata autenticità "centrista" di Renzi; la complessità degli anni propri della Neo Destra sovranista e (s)fascista merita, infatti, un Partito aggregato  di Centrosinistra  che funga da argine chiaro contro tutte le tentazioni illiberali, che sappia convogliare le istanze più innovative (per quanto confuse e problematiche) all’interno di un percorso autenticamente Costituzionale.

E questo argine, ieri con Renzi ed oggi con i nuovi innesti prefigurati dal Sindaco di Milano Giuseppe Sala, è il PD!

La rinnovata gestione “umanitaria” dell'emergenza migratoria lo dimostra, Il DNA schiettamente europeista dei suoi ministri pure e cosa aggiungerebbe a tutto, quindi, il partitino personalistico di Renzi?

E chi impedirebbe, poi, nuove scissioni dell'atomo? Anche i renziani, infatti, sono "diversi" tra loro: ci sono radicali  "pro choice"  su aborto e fine vita come Roberto Giachetti e tanti scout cattolici "pro life", ci sono economisti liberali come Luigi Marattin e neo keynesiani per le politiche in deficit, come lo stesso Renzi. Perché costoro dovrebbero lavorare insieme per una sintesi laica e di buon senso? Perché non fare chiarezza e dividersi, di nuovo, anche loro? Perché non coltivare la propria identità tra amici, sodali, yesman? E ciò fino allo sdoppiamento della personalità del Singolo concentrato tutto su se stesso!

E,  forse, questo approdo non è solo la fine triste ma l'origine stessa di questa storia.

 

Alcuni, ancora, cercano tranquillità farfugliando di “separazione consensuale” e dell’intelligenza pacata dello “stratega” Goffredo Bettini ma, a dire il vero, come in un esorcismo, le donne e gli uomini di Centrosinistra dovrebbero in un sussulto urlare: Dio non voglia ! Quale separazione "consensuale" ci può essere, infatti, tra gruppi e movimenti che si contendono lo stesso elettorato? Renzi, è bene ricordarlo, non è uno sfigato moderato berluscones nell’era del Papeete, ma è stato l’uomo di Sinistra dell'adesione al PSE, delle Unioni Civili, dello Ius culturae, dell'umanitarismo dell'accoglienza, il liberal democratico di un riformismo deciso di stampo laburista.

Renzi, ancora, è figlio di quel cattolicesimo sociale e democratico che, di certo, ha poco da spartire con l'elitarismo avulso dalla concretezza di certo Centrodestra dei salotti buoni.

Gli stessi strateghi dicono, quindi: il nuovo soggetto "a destra del PD" contenderà il consenso dei moderati, degli elettori di buon senso. E questo, in qualche modo, per una percentuale ristretta di transfughi delusi dal Cavaliere, potrà senz’altro avvenire, ma non sfuggirà ai più attenti che questo tipo di elettori già votano il PD! Sono loro, e moltissimi cattolici tra loro, il nocciolo duro di un consenso illuminato che ha imparato a guardare ai Democratici come all'alternativa misurata contro i populismi.

Gli altri, gli adepti della “Rivoluzione Conservatrice” ieri ammaliati da Berlusconi e, oggi, dal Capitano, hanno già abbandonato gli ormeggi e veleggiano convinti verso la Lega –  la Destra-centro – verso il mondo cristianista alle prese con le paure apocalittiche e un misticismo da "sede vacante" che fa tanto Medioevo in salsa americana.

Che cosa hanno a che fare con tutto questo gli Scout, l'Azione Cattolica, la Fuci? Che cosa direbbe di nuovo a questo mondo di "Resistenti anti demagogici" la gilda fiorentina rispetto alla narrazione plurale e maggioritaria del Partito Democratico?

Ed Altri ancora affermano: con il proporzionale ci vuole la frammentazione! E la DC? – tocca ripeterci – e La DC che più volte contese la maggioranza assoluta? Perché' la Balena Bianca (con tutto il suo corredo di paradossi e di complessi interessi rappresentati) resse benissimo con il proporzionale puro? Ed ancora, perché, poi, dovremmo arrenderci al ritorno del proporzionale? E forse sono coloro che lo invocano come giustificazione deresponsabilizzante a volerlo fortemente come soluzione ai propri problemi di posizionamento e di Potere.

Che in ballo, in ultima analisi, ci sia Renzi contro Renzi, lo dimostra ulteriormente il fatto che, nelle tante tempeste attraversate nel recente passato, l’ex premier ha saputo, fino ad ora, tenere empre la barra dritta sul Partito, ed anche la conversione ad U con i Grillini , in un certo modo, ha corrisposto all’esigenza, rappresentata, per altro, da Romano Prodi, di rilanciare un PD coeso impegnato nella battaglia storica contro Salvini. E, quindi, val la pena domandarsi, come mai, poi, si è giunti alla scissione, perché tale contraddizione?

In realtà, la Politica del cerchio o del "giglio” magico rischia davvero di obnubilare le intuizioni di tutti i leader alle prese con la droga del consenso fidelizzato e cieco che spinge all’isolamento altero ed eretico.

 E non solo perché "extra ecclesiam nulla salus" ma, soprattutto, perché la politica del consenso identitario misurato su cifre più o meno esigue, per quanto affiliatissime, di seguaci acefali non è proprio la strategia d'elezione, ad esempio, per un leader che ha toccato il 40% dei consensi, per chi ha rinverdito per una stagione esaltante, lo ribadiamo, il mito del Partito della Nazione.

Ed ora? Cosa rimane di tutto questo? Il dispetto a Zingaretti e a Bersani? Lo sberleffo a Prodi e Veltroni? Lo smarrimento di tantissimi riformisti e liberali che non lo seguiranno?

La tattica, le categorie dialettiche e le associazioni/dissociazioni strumentali sono importanti  ma la Politica popolare e democratica è qualcosa in più: sono gli Spiriti che soffiano sopra le singole stagioni, che trascendono il valore dei singoli, che congiungono nel presente dell'elaborazione scevra da ogni utopismo politico (pericoloso ed eversivo) Salvemini, Sturzo, De Gasperi, Berlinguer, Moro ma anche Pannella e Bonino e tanti altri socialisti, liberali e tutti gli anti fascisti del dialogo e della condivisione.

Ed invece di tutto questo, si chiede ai militanti che vivificano i Circoli dell’unico Partito davvero organizzato da Nord a Sud, di appassionarsi per le vicende esistenziali di questo o di quella, di gioire per l'ennesima scissione a Sinistra.

Mi sa che nel dipingere malamente il Popolo come massa idiota di schiavi proni non ci si applichi solo Salvini! La realtà, comunque, beneficamente, ci sorprenderà tutti, con la forza carsica delle buone ragioni che decanteranno l’ennesima fascinazione per le cause perse.

 

 

ENZO MUSOLINO

AGNES HELLER E LA NUDITA’ LIBERALE
 
 
Agnes Heller, ungherese, allieva del filosofo György Lukács e, come lui, marxista del dissenso antisovietico, seppe far propria, nel corso della sua lunga vita (12 Maggio1929 – 19 Luglio 2019), patendo sulla propria pelle gli attacchi del Potere nelle sue più diverse manifestazioni, la tragica e feconda fluidità contemporanea: il passaggio a quella post–modernità che la filosofa ungherese, teorica de “La bellezza della persona buona” – che è anche il titolo di una raccolta di quattro saggi edita in Italia, nel 2009, da Diabasis – definisce come ciò che sorge dal tramonto delle grandi narrazioni, dalla crisi di quelle filosofie della storia delineanti un fine chiaro e necessario, la volontà di edificare il paradiso in terra della fine dei conflitti.
Per la Heller, invece, identità, qualità ereditate, origine, bisogni di casta, ordine universale riconosciuto, non sono valori/totem da difendere e, di contro,  contingenza, sbilanciamento, disordine, quantificazione, anonimato, indeterminatezza del destino individuale, sono individuate come categorie esistenziali della modernità e della post modernità.
Cosa costituisce, dunque, in tale contesto fluido e d’incertezza, il proprio epocale di ciò che chiamiamo Europa, Occidente?
A me pare che la Heller risponda a questo quesito con la rappresentazione liberatoria della nudità.
Il riconoscimento della universalità dei diritti, richiede che uomini e donne nascano spiritualmente nudi nel senso dell’assenza di un fine predestinato, di un futuro segnato dalla provenienza e dall’origine. È una nudità caratterizzata solo da riconosciuti bisogni naturali che, in quanto compiuta indefinitezza, si configura come assoluta possibilità.
È una forma di eguaglianza fondata sul rigetto di specifiche eredità di bisogni affermati sin dalla culla che è, quindi, rigetto dell’attribuzione di qualità – ecco di nuovo la critica alla “qualità” – predeterminate e immodificabili.
I bisogni qualitativi premoderni – che non sono, quindi, bisogni intimi e radicali di trasformazione di un “reale” di soggezione e dominazione – sono il punto di partenza riconosciuto e indiscusso di rapporti differenziati che strutturano la società nella fissità di un ordine che assicura sicurezza solo alle classi dominanti attraverso una allocazione delle risorse decisa ab initio.
Nel contesto liberale della modernità occidentale, invece, l’asimmetria sociale, la differenza qualitativa, costituisce non l’origine ma l’esito dello sviluppo esistenziale che è libero una volta assicurata l’eguaglianza nella nudità naturale senza privilegi, che diviene nudità e anonimato di fronte alla Legge.
È, in sintesi, il significato del principio di uguale opportunità, di libertà eguale, che delegittima ogni diversità valutativa fondata su pretese ereditate.
In tale contesto, l’allocazione dei bisogni in termini meramente quantitativi (e non qualitativi), la mercificazione/monetizzazione delle aspettative di base, svincolata dalle identità particolari, costituisce uno degli elementi “liberanti” della società democratica e di mercato, in quanto questa consente – anche in un’ottica di superamento e riforma dello status quo nell’ambito della affermazione della mobilità sociale – l’elaborazione del c.d. standard di vita, quale metro di comparazione tra gli individui che, evidentemente, è applicabile solo in una società nella quale ogni differenza è diventata solo quantitativa.
In età premoderna, invece, ci dice la Heller, nessun metro di paragone è utilizzabile tra le persone in presenza di diversità ontologiche che condizionano il destino degli strati sociali, fino a rendere impossibile il solo teorizzare un concetto quale standard di vita che significa, in breve, uno stile di vita globale indifferenziato e scalabile.
La delegittimazione delle diversificazioni speciali per nascita operata dalla società borghese, il superamento delle vicende del particolarismo giuridico, fu vista da subito con scarso favore dai cultori dell’identità e della “qualità” ed anzi –  precisa la filosofa ungherese  – la stessa tradizione romantica non è altro che una ininterrotta linea di accuse rivolta contro la completa indifferenza della società borghese per le distinzioni qualitative.
L’egualitarismo nella rappresentazione dei bisogni anonimi e la mercificazione/monetizzazione quale criterio dell’allocazione, furono biasimate come misconoscimento di raffinatezza e di bellezza.
Da un punto di vista squisitamente ideologico potremmo così riassumere: da sinistra, con il marxismo, la funzione appiattente e livellante del mercato fu condannata come feticismo e alienazione mentre da destra, con Friedrich Nietzsche, il correlato politico del mercato uniformante, ossia le democrazia di massa, fu denunciata come causa di annichilimento dell’affermazione aristocratica dell’Io voglio.
A fronte di tutto ciò la Heller, invece, sembra dirci: mercato e democrazia sono sì fattori appiattenti di un anonimato privo di attributi riconoscibili e, proprio per questo, sono fonti di emancipazione e possibilità.
Dalla storia spaventosa delle società di tipo sovietico, ci dice la filosofa, si apprende come pur accettando la critica al percorso di accelerazione verso la moltiplicazione e la mercificazione dei desideri, tipica della società borghese, l’abolizione del mercato non inverte la tendenza alla quantificazione dei bisogni ma produce solo la drastica riduzione dei prodotti disponibili, cui segue la diminuzione di tutti gli altri beni.
Nella società sovietica ritornò con forza la differenziazione per caste e il bisogno socio politico di potere, di riconoscimento pubblico all’interno dell’organigramma del Partito, divenne il bisogno qualitativo principale perché dalla posizione gerarchica che si ricopre nell’universo politico monolitico dipende la soddisfazione quantitativa di tutti i bisogni di sopravvivenza e il potere di determinare  – per gli altri – l’allocazione dei mezzi per soddisfarli.
È questo il quadro illiberale paradigmatico, e sempre in agguato come possibilità, che efficacemente la Heller definisce dittatura sui bisogni.
Per la filosofa, quindi, la realizzata evoluzione indeterminata e aperta della modernità europea fondata sulla contingenza fluida che spinge la mobilità sociale, consente quella misurazione dello standard di vita che legittima anche l’intervento perequativo dello Stato come avviene, appunto, nei sistemi di welfare state.
Nelle società post moderne figlie di questo sviluppo, quindi, si deve accettare come un beneficio – senza farsi trascinare dal neo romanticismo politico dei demagoghi affascinati da identità e differenze – il fatto che la soddisfazione dei bisogni appaia solo in forme quantitative, distinte in base al grado “più” o “meno”: più o meno denaro, più o meno risorse!
La distribuzione quantitativa operata attraverso il mercato meritocratico, infatti, ma anche la redistribuzione realizzata dallo Stato nel tentativo di mitigare le differenze esitate dal libero moto sociale, cozza con qualsiasi tentativo di legittimare, attraverso un rinnovato particolarismo giuridico, questo o quel gruppo o strato sociale, sconfessando lo standard uniformante per creare caste di uguali più uguali degli altri, così come rappresentato efficacemente da George Orwell nella Fattoria degli animali.
Va accettato, per ciò, anche in materia di redistribuzione, l’argomento liberale secondo il quale la monetizzazione genera libertà: l’allocazione di denaro tra i gruppi, infatti, rispetta le decisioni sui bisogni, intuiti come legittimi, operata dai singoli individui.
Di contro, la riconversione dei bisogni realizzata arbitrariamente dall’Autorità distopica e attuata, ad esempio, attraverso controlli e censure moralistiche sulle abitudini di vita e di spesa dei destinatari dell’assistenza pubblica, comporta anch’essa la supponenza che la persona non sia in grado di valutare ciò che è meglio per lei, sia incapace di allocare il guadagno nel suo personale linguaggio e sistema di bisogni.
E tale supponenza illiberale è tipica degli argomenti, come accennavamo sopra, sia di destra che di sinistra. Da destra si asserisce che la mancanza di consapevolezza dipende dall’emotività e dall’ignoranza del singolo (a fronte dell’Istituzione che svolge una funzione paternalistica di imposizione), da sinistra, allo stesso modo in fondo, utilizzando un artificio ideologico solo più complesso, si afferma la feticizzazione e lo squilibrio della coscienza individuale manipolata dal Mercato, per poi proporre la solita e univoca soluzione trasversale: la svalutazione delle scelte individuali, sostituite dalla programmazione di un diverso Padrone.
Se si accettasse – come è in effetti avvenuto nei paesi del socialismo reale – tale sofisma, sarebbe facilissimo condannare le scelte socio/politiche bollate come inautentiche e etero dirette, criminalizzando il valore dell’autonomia del singolo che, in fondo, è il principio dell’Occidente libero.
E l’autonomia del singolo – ce lo spiega bene la Heller – non ha nulla a che fare con la stabilità granitica di un ordine imposto d’autorità, con la soddisfazione astratta e collettiva di bisogni riferiti, ad esempio, alla classe proletaria o alla razza. La caratteristica liberante della modernità è la fluidità “possibile” della contingenza tragica:  la società moderna è una società insoddisfatta che, per fortuna, si sviluppa tramite questa insoddisfazione nella libertà individuale all’interno del moto collettivo garantito dallo stato di diritto, generando “stabilità” nella espansione rapida dei bisogni e dei mezzi che li soddisfano, anche in maniera trasversale rispetto ai differenti livelli di reddito.
Una volta riconosciuta tale stabile precarietà, Heller precisa come le utopie che mirano a stravolgere tale assetto sociale per fondare una società perfetta, libera dai conflitti, dalle scissioni della personalità, e dalla quantificazione anonima dei bisogni, siano pericolose anche nella loro figurazione contemporanea di fantasmi rinverditi dal populismo demagogico corrente.
Sono pericolose, quindi, perché la concezione di un processo messianico e necessario, di un superamento continuo di fasi erronee verso il Meglio, può giungere facilmente a perdere tutto, a smarrire anche quel poco che storicamente si è raggiunto.
Se, di certo, un problema grave, che non bisogna disconoscere, è quello della tendenza capitalistica alla iper sollecitazione di bisogni condizionati dalla correlata produzione di beni fruibili, la soluzione non può essere quella di buttare il “bambino” del benessere occidentale con “l’acqua sporca” delle sue degenerazioni, ma quella, attraverso la consapevolezza del processo che ci ha condotto fino a questa fase, di ripensare, proteggere, implementare, tutelare, proiettare, quei bisogni radicali e spirituali che non possono essere soddisfatti quantitativamente, che richiedono necessariamente limiti, che tendono a trascendere il reale in un ordine più giusto.
Tali bisogni – individuali e di Comunità –  per essere davvero salvifici però, non debbono mirare a sovvertire il Sistema all’interno di una nuova grande narrazione palingenetica, di una nuova causa persa rivoluzionaria, perché, come abbiamo visto, non basta negare la quantificazione dei bisogni a favore di una rinnovata qualificazione settaria e discriminante per categorie di potere, per produrre davvero una società libera.
Solo controbilanciando – con la critica non distruttiva – le categorie dello standard di vita comune, solo attraverso scelte sì alternative ma prive di inutili retoriche salvifiche, si può sperare di proteggere il pendolo della modernità dalle sue oscillazioni estreme.
 
ENZO MUSOLINO
 

SOCIALISTI E LIBERALI, INSIEME.
LA BUONA REGOLA DEL RIFORMISMO
 
Il prof. Emanuele Felice, Ordinario di Politica economica all’Università di Chieti-Pescara, responsabile del dipartimento Economia nella Segreteria nazionale del Partito Democratico e Giuseppe Provenzano, Ministro per il Sud e la Coesione nazionale, hanno pubblicato sull’ultimo numero della rivista Il Mulino (n. 6/2019), un saggio – Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi -  che contribuisce finalmente ad arricchire il dibattito culturale interno al mondo riformista impegnato nella battaglia intellettuale e di “agenda politica” contro le nuove destre sovraniste.
L’analisi svolta è storica e ideologica allo stesso tempo, tesa concretamente a porre all’ordine del giorno il tema dell’emancipazione umana all’interno dello sviluppo capitalistico.
L’affermazione occidentale della democrazia liberale, per Felice e Provenzano, il progresso capitalistico e sociale del Dopoguerra europeo, sono stati l’esito tanto della libera dialettica sindacale e d’azienda (tutelata dal quadro normativo statale) quanto dell’azione politica di quelle forze – liberali, socialiste e democratiche – che seppero coinvolgere nell’organizzazione complessa del Paese, attraverso i diversi ruoli rivestiti nel Governo e all’Opposizione, gli interessi e i valori dei lavoratori e di chi storicamente non aveva mai avuto voce all’interno delle Istituzioni.
Dialettica contrattuale e “regole nuove”, dunque, orientate all’applicazione del dettato costituzionale che, progressivamente, conquista dopo conquista, e con non poche contraddizioni, hanno comunque realizzato, anche in Italia, dopo le fatiche della ricostruzione post bellica, quella mobilità sociale dal basso verso l’alto che davvero ha rappresentato, finché ha funzionato, l’esito meritocratico di quella libertà uguale che è l’essenza dello Stato sociale.
Oggi, ovviamente, molto è mutato – per fortuna non il nostro assetto costituzionale – e le vicende geo-politiche presentateci dagli autori ci mostrano il percorso parallelo delle c.d. economie emergenti che, bruscamente, si allontanano, se mai l’avessero davvero intercettato, dal quadro assiologico liberale, dal suo sviluppo democratico, per scivolare decisamente verso l’autoritarismo identitario. Ed ecco, infatti, il fiorire globale delle democrature cesaropapiste, dei neo sultanati, dei regimi populistici sempre più connessi ad una “libertà” economica, intesa solo come arricchimento di autocrati e oligarchi.
Tale crisi è ovviamente crisi anche in casa nostra, in Europa, anche se in forme ovviamente meno dirompenti, e si presenta – nel quadro multipolare internazionale dominato dai riflessi di chiusura propri del nazionalismo – come fine della spinta propulsiva del liberalismo.
 Per Felice e Provenzano, è proprio l’interruzione della mobilità sociale, dovuta ad restringimento strumentale dei diritti e delle risorse a disposizione della working class, con il correlato aumento delle diseguaglianze cristallizzate, ad aver ridotto, nella coscienza collettiva, la fiducia nella portata riformistica del liberalismo.
E’ la realizzazione di politiche ottuse, nemiche della cornice giuridica che tutela i mercati (anche dalle spinte intestine monopolistiche) e contrarie ad una decisa integrazione politica europea, ad aver progressivamente veicolato una visione “ristretta” e involuta della democrazia.
Ovviamente, come è esperienza di tutti, prima vittima di tale involuzione è stata proprio la “classe media occidentale” che ha patito un’ erosione economica e di potere, non tutelata dall’intervento pubblico, che l’ha paradossalmente contrapposta alla classe media globale emergente mentre la rendita degli speculatori (non solo privati ma anche di Partito, di Stato, vedi Cina) cresceva - e continua a crescere - senza assumere, nella coscienza dei più, il ruolo di avversario epocale della democrazia compiuta.
Ecco, quindi, perché è venuta meno la fiducia dei cittadini verso la globalizzazione dei mercati!
Ecco le ragioni – secondo socialisti e liberali -  dell’affermarsi delle neo destre, autarchiche, cultrici della destrutturazione dei corpi intermedi, fautrici di un individualismo asociale, plebiscitariamente legato alla leadership demagogica.
Il problema, quindi, non è solo economico ma anche e soprattutto politico. Parlare, infatti, come fanno Felice e Provenzano, di cesura tra capitalismo e democrazia, anche alle nostre latitudini, significa riconoscere la frattura in atto tra arricchimento dell’élite e diritti sociali, civili, umani.
Significa smentire i presupposti della Società Aperta (libertà, concorrenza, merito) per agevolare l’affermazione sregolata di minoranze dispotiche che spacciano come proficuo – come al solito – lo scambio nefasto tra protezione/securitaria e obbedienza irresponsabile.
A questa deriva, la prospettiva autenticamente riformista, secondo gli autori, non può che rinverdire e attualizzare, nella proposta politica ed economica, l’originale incontro tra le culture liberale, democratica, socialista ed è per questo che è opportuno approfondire alcuni passaggi storico/ideali davvero significativi.
Sono il lavoro e la partecipazione a legare liberali e socialisti. Il lavoro e il merito (secondo John Locke) contrapposto alla rendita: il lavoro incarnato – va detto con orgoglio – nella proprietà non trasmessa ereditariamente ma conquistata con il valore e il sacrificio e, ancora, la partecipazione delle masse alla vita del Paese che sostanzia quella “ricerca della felicità”, quella felicità pubblica cui Thomas Jefferson si ispirò per la redazione nel 1776 della Dichiarazione di indipendenza americana e che costituisce il portato più autentico dell’unica Rivoluzione fondata sulla libertà davvero riuscita, secondo Hannah Arendt.
È chiaro, quindi, come lavoro e partecipazione delle masse, merito e libertà eguale - quali valori propriamente liberali - abbiano consentito, nel Novecento, quell’incontro “Occidentale” delle diverse aspirazioni progressiste che dischiusero definitivamente le acquisizioni borghesi all’arricchimento socialista.
Fu, in tal senso, Il “nuovo liberalismo” inglese di William Beveridge (1879-1963), e non di certo la cultura conservatrice, a porre le basi ideologiche del welfare state, a riflettere di protezione sociale, di assistenza nazionale, di conquiste sociali, non solo guardando  dialetticamente e proficuamente alle aspirazioni gradualiste del Movimento Operaio internazionale ma anche alla tradizione liberale, appunto, alla lezione di  John Stuart Mill (1806 – 1873), alla tutela del  lavoro e della competizione, finalizzata alla realizzazione della Persona libera dai vincoli tradizionali, dalle tare ataviche, anche grazie all’affermazione sempre più compiuta dell’unità del soggetto giuridico, della nudità liberale di fronte alla legge, della tassazione progressiva sull’eredità, intesa come rendita avulsa da sacrificio e lavoro. Altro che oligarchie mercatiste, quindi!
Felice e Provenzano, dunque, mi sembrano chiari nel rifarsi con attenzione teoretica ad un patrimonio che è comune e proprio (ecco il fecondo paradosso) di più tradizioni.
Liberalismo sociale e social democrazia, quindi, si sono fusi nel welfare state, come esito proprio dell’Occidente, patria della libertà e della giustizia; fusione che, in Italia, ha trovato la sua enunciazione più alta -  quale ideologia necessaria, direbbe Aldo Moro - nell’antifascismo anti-autoritario della Costituzione repubblicana, nella negazione radicale dello Stato etico.
Gli ultimi slanci di questo incontro fecondo, di certo, sono presenti ancora oggi: la battaglia per l’affermazione dei diritti sociali di seconda generazione (ambientali, delle minoranze, dell’autodeterminazione bio-etica) è figlia, in tal senso, dello sviluppo sociale e della ricchezza collettiva insita nel capitalismo democratico, ne costituiscono il portato più avanzato che conferma, in ciò, la natura progressista, aperta al futuro del sincero approccio liberale. Altro che conservazione, quindi!
E sul punto, e spiace che gli autori non lo abbiano sottolineato, va anche ricordato l’influsso liberante e davvero democratico dell’epistemologia fallibilista di Karl Popper e Friedrich August von Hayek, di quella apertura all’altro e alle sue fonti di conoscenza, alla cooperazione umana libera nella dispersione dei saperi, allo spontaneo moto sociale (che non è né mano invisibile, né manomorta) produttivo di diritti e ordine, che – nella libertà, appunto – sconfessa l’autoritarismo insito nella proposta della casta degli illuminati e dei pianificatori: i soliti despoti, depositari di una pseudo conoscenza chiusa e  refrattaria, dediti alla conservazione dello status quo.
Quando si parla, anche criticamente, di liberismo economico, infatti, bisognerebbe distinguere – e i due autori, purtroppo, non lo fanno abbastanza – tra gli indubbi effetti privativi, riduzionisti e ghettizzanti del capitalismo finanziario e tecnocratico, sganciato dall’economia reale e cieco sugli effetti sociali devastanti dell’atteggiamento predatorio, e quel liberismo declinabile davvero, ancora oggi, come riscatto, come Ordoliberismo delle regole che, a partire dalla Scuola di Friburgo, dalle riflessioni di Walter Eucken e di Wilhelm Röpke e grazie a politici come Ludwig Erhard, ha condotto all’affermazione, non solo in Germania, di un liberalismo giuridico, di uno Stato forte e di un’economia sana nei suoi ambiti liberi che ha trovato estrinsecazione nella economia sociale di mercato, articolazione feconda del sistema europeo e, al pari del welfare state, conquista vera e duratura per i lavoratori e per le imprese.
Lo scontro epocale in atto che richiede una decisa presa di posizione (la cui articolazione e scelta va articolata nel buonsenso anche delle opzioni revocabili)  non è, quindi, a mio parere,  quello tra ricette liberali e ricette keynesiane ma tra un’economia delle regole e dell’intervento perequativo (assunto autenticamente anche liberale, come Felice e Provenzano sottolineano più volte nel loro saggio) e una deregolamentazione, prima di tutto politica e, poi, di mercato, che mira a sostituire la preminenza della partecipazione delle masse e dei lavoratori all’organizzazione dello Stato, delle imprese e dell’economia, con un capitalismo consumistico, instabile, diseguale, che nulla ha a che fare con il culto della concretezza, del risparmio, con il primato del Diritto  e con un interventismo saggio - regolatore e arbitro dei processi economici - che è fonte di pace sociale e che emerge dalla soddisfazione reciproca degli interessi e dalla possibilità di miglioramento sociale e crescita economica.
A parte questi chiarimenti nell’ambito di un’omissione comunque importante, è opportuno sottolineare che per Felice e Provenzano, alle prese con la fondazione italiana di un Nuovo socialismo dall’interno del metodo liberale, l’esigenza di governare il capitalismo non assume mai le forme di un cedimento nostalgico a passate velleità rivoluzionarie e utopistiche della Sinistra novecentesca, ma – al contrario – costituisce la affermata necessità di anteporre le regole giuridiche allo scontro degli interessi in gioco; significa, davvero, salvaguardare le conquiste dell’economia di mercato, svelandone le prospettive di miglioramento allorquando si realizza – come è avvenuto storicamente in Europa – la vantaggiosa relazione biunivoca  tra capitalismo e democrazia.
Una relazione coordinata che, grazie all’affermazione dei diritti umani, delle garanzie egualitarie, della libertà d’impresa nell’ambito dell’operatività della mobilità sociale, conduce al benessere collettivo, senza impropri riduzionismi ideologici e di classe.
In tale ambito, il riconoscimento della funzione dialettica, come effetto indiretto di sviluppo democratico, della Rivoluzione d’Ottobre, l’analisi delle diverse fasi della Globalizzazione con la specifica attenzione al riaffacciarsi anche in Europa delle diseguaglianze, la sfida delle Destre alle prese con la semplificazione manichea della politica e dell’economia, sono esposti nel saggio in esame come emergenze e urgenze sì importanti ma non eccezionali. Nessun cedimento, quindi, a me pare, ad opzioni emergenziali, a scelte legislative straordinarie ma il giusto riconoscimento di sfide che l’Occidente ha già assunto in passato – e per lo più vinto – tanto contro il mondo comunista, tanto contro gli aculei padronali del laissez-faire.
È autoconsolatorio (o banditesco) affermare, infatti, che il Mercato, da solo, senza Politica e senza Stato, possa risolvere tutti i problemi nascenti dalle nostre società complesse.
E se è vero che a questo riconoscimento non può essere opposta l’ideologia altrettanto settaria dello statalismo burocratico, chiuso sugli interessi dei tanti boiardi, è senz’altro necessario un “ripensamento dello Stato”, un suo nuovo coinvolgimento sull’arena della globalizzazione dei mercati, l’affermazione di una forma nuova di Sovranità.
 La sovranità degli interessi di coloro – lavoratoti, imprese, ceto medio, esclusi – che rischiano di essere espulsi dalle dinamiche anonime di estrema finanziarizzazione dell’economia (anche di quella pubblica si intende, e qui si potrebbe aprire la questione, non trattata dagli autori, del peso insostenibile di un Debito pubblico irresponsabile che rappresenta, propriamente, il cedimento dello Stato alla finanza), di un capitalismo non democratico che, evidentemente, premia i giganti e penalizza la misura umana.
Vige e dovrà sempre più vigere tra i riformisti, a mio parere, il celebre brocardo di Jean-Baptiste Henri Lacordaire (1802 -1861), il religioso e massimo esponente del cattolicesimo-liberale ottocentesco, secondo il quale: Tra il forte e il debole è la libertà che opprime, è la legge che affranca”.
Contro l’effimero formalismo del “libero” patto leonino, infatti, il Centrosinistra riformista europeo e Occidentale deve recuperare una dimensione squisitamente giuridica del proprio approccio ai problemi dell’economia, del lavoro, della Società.
Contro la sterile ricetta ideologica di deregolamentazione arbitraria dei mercati, va opposto il coraggio di proposte dirette alla convergenza delle politiche e dei livelli di imposizione tributaria, con una vera e propria politica fiscale comune da abbinare a quella monetaria.
Ciò significherebbe, è ovvio, battersi sempre di più per più Europa, per un’integrazione europea sempre più sociale, in grado di sostanziare una vera e propria agenda di sviluppo, da opporre al cicaleggio irresponsabile dei nazionalisti, orfani del mito romantico delle Piccole patrie.
Se ha senso oggi parlare di retaggio delle tradizioni liberali e laburiste d’Occidente, ciò significa che il compito dei riformisti è vivificare il nesso paradossale e fecondo insito nell’espressione capitalismo democratico, lavorando per far comprendere – grazie anche a saggi potenti come questo di Felice e Provenzano – che la democrazia, quella del pluralismo sociale e della forza sindacale – rafforza l’economia se si attua, se si realizza, se stipula - nell’ambito della cornice giuridica costituzionale – quel Contratto tra produttori e lavoratori che disciplina sicurezza, tutele e produttività nei luoghi di lavoro.
Ed ancora, sempre nel contesto del nesso tra capitalismo e democrazia, va compreso che la crescita economica, la tutela dell’intrapresa, il benessere e la ricchezza se diffusa nella Grande Società, aiuta le conquiste democratiche, contribuisce la consapevolezza tra i lavoratori, respinge – grazie all’affievolirsi delle diseguaglianze -  le spinte populistiche e demagogiche che si nutrono di crisi e di paure.
E fuori da una dimensione squisitamente economica, socialismo e liberalismo, saranno in futuro davvero tali se sapranno contrapporre alle destre nazionaliste, il complesso dei principi, delle relazioni e dei rapporti politici di cui – meritoriamente – Felice e Provenzano hanno trattato in questo saggio: uguaglianza nella libertà, centralità del lavoro, emancipazione degli esclusi, dimensione relazionale e ambientale.
Sembra poco? Forse … ma è senz’altro possibile, e tanto basta!
 
Enzo Musolino