venerdì 29 maggio 2020

http://www.strettoweb.com/2020/05/reggio-calabria-anassilaos-conversazione-strade-vive-filosofia/1018434/


LE STRADE VIVE DELLA FILOSOFIA
percorsi morali e politici per l'oggi

- Hannah Arendt e il "mondo" tra passato e futuro;
- Giuseppe Rensi e lo scetticismo della "morale come follia";
- Carlo Rosselli e il socialismo non marxista;
- Dario Antiseri e l'origine cristiana della laicità politica;
- Agnes Heller e la dittatura sui bisogni;
- Carlo Antoni e il liberalismo filosofico;
- Wilhelm Röpke: il vangelo è di sinistra?
- Carl Schmitt e l'Eurocomunismo;
- La Destra che manca nell'era del Sovranismo "rivoluzionario";
 - Socialisti e liberali, insieme. La buona regola del Riformismo.



LA POLITICA NON VIOLENTA COME “OBLIO”
HANNAH ARENDT E LA LIBERTÀ: UN’ASPIRAZIONE “SENZA PASSATO”

La politica per Hannah Arendt – la politica pura, autentica -  sfida, quando emerge come eccezione inattesa e imprevedibile di libertà e pensiero, il piano di immanenza di una ontologia rassegnata alle dinamiche e alla corrente di un “essere” indecifrabile e vissuto come destino.
Si contrappone, in tal senso, agli sviluppi di un politico – termine neutro ma non neutrale - inteso come conflitto perenne, come origine ostile e fine tragica di una contrapposizione – quella amico/nemico – indirizzata ad avere “naturalmente” la prima e l’ultima parola nell’agone pubblico.
La politica, invece, intesa propriamente dalla Arendt come nuovo inizio autonomo, è un progetto che supera il conflitto, è un diritto che lo giuridifica, un pensiero resistente che, interrompendo lo scorrimento ordinario/biologico – la banalità del male -, tenta di fissare, sempre provvisoriamente, i tratti durevoli di una istituzione, di una forma organizzata nella libertà e non (s)fondata sulla violenza, magari sulla violenza sovrana.
Paul Ricoeur, interprete della filosofa tedesca nel celebre saggio Hannah Arendt, riedito dalla Morcelliana nel 2017, così si esprime: «[…] la politica in quanto tale, è, al di qua della sua perversione totalitaria, un progetto di lunga durata. Tanto per Hannah Arendt i fenomeni economico sociali sono segnati dal cambiamento e dalla variabilità, quanto la politica presenta caratteri per così dire transistorici, che permettono, ad esempio, ai lettori moderni di riconoscere – nel senso forte di reidentificare – in concetti come potere, sovranità, violenza, delle costanti dell’impresa di stabilizzazione della vita in comune degli esseri mortali».
La violenza sovrana, che può giungere al suo acme con la perversione totalitaria, dunque, non può essere la fatalità esatta della politica e della politica; per Arendt, infatti, si impone l’esigenza di un ripensamento che è, in ultima istanza, una critica radicale al pensiero politico della modernità occidentale.
 Così, di nuovo, Ricoeur: «La dominazione, per Hannah Arendt, è un’interpretazione falsificata e falsificante del potere, inteso come potere di obbligazione, come potere dell’uomo sull’uomo. La Arendt, quindi, trae il proprio concetto di potere da un’intensa polemica con la quasi totalità del pensiero politico».
Per la filosofa tedesca, quindi, il potere è altra cosa dalla dominazione, si sottrae al legame stringente tra protezione ed obbedienza, declinato come violenza legittima.
Per Arendt il potere riposa necessariamente sul consenso degli attori politici, sulla libertà di cittadini impegnati in un mondo comune, altrimenti, appunto, meglio parlare di coercizione che, come tale, non è una categoria della politica ma strumento di moltiplicazione della forza naturale, essenza neutra e disumana, potere di asservimento dell’unico o del gruppo.
La pensatrice ebrea, quindi, dicevamo, rompe con la quasi totalità della filosofia politica moderna, inaugurata da T. Hobbes nel contesto dell’affermazione dello Stato-Nazione, e con una precisa definizione di Stato, declinata da ultimo da M. Weber, nel suo saggio La politica come professione, edito da Einaudi nel 1976: «Lo Stato […] consiste in un rapporto di dominazione di alcuni uomini su altri uomini, il quale poggia sul mezzo della violenza legittima (vale a dire considerata legittima)».
Infrangendo lo schema della dominazione, del comando e dell’obbedienza, la Arendt riafferma così l’operatività storica eccezionale di apparizioni politiche frammentate, prive dell’aculeo della violenza.
Non solo l’isonomia di Pericle o la civitas romana con la sua auctoritas in senatu, ma anche l’epifania moderna dell’irruzione di un potere popolare (quindi plurale e autonomo) irriducibile al domino e incline alla libertà: la rivoluzione americana, i consigli operai, i primi soviet, l’insurrezione di Budapest, la Primavera di Praga, le esperienze di lotta non violenta per l’affermazione dei diritti, la disobbedienza civile.
Come è chiaro, non si tratta solo, per la filosofa, di collezionare esperienze storiche disparate, differenti e evidentemente contraddittorie, ma di evidenziare una tradizione diversa, una possibilità altra, un progetto politico radicale sempre pensabile e realizzabile, per quanto inatteso statisticamente.
Ricoeur, ancora, così si esprime: «Qui si vede il lavoro del pensiero della Arendt: consiste nell’esplicitare una aspirazione implicita che, in qualche momento storico privilegiato, ha aperto un varco, interrompendo la tradizione della dominazione […] la Arendt suggerisce che noi abbiamo la nozione di regole che sarebbero direttive senza essere coercitive».   
Il pensiero della Arendt, quindi, allo stesso tempo, richiama alla luce come evento e riconosce spiritualmente, senza precise garanzie storiche di ripetitività però, un retaggio differente, la costituzione del potere umano sul consenso tra uguali che rigenera la convivenza pacifica.
Si tratta dell’elaborazione di tracce – di tracce di trascendenza e assenza - e della segnalazione di irregolarità e di epifanie anomale che non possono essere intese, però, come passato, come riconoscimento diretto di una legittimità sicura.
L’affermazione del potere/azione/libertà/consenso contro la falsità extra politica della violenza si rende presente come trascendimento di senso, come uno sconosciuto inaspettato che, nonostante tutto, può essere pensato e che si realizza.
Non è ontologia politica, non è metafisica ideologica: è il movimento del pensiero (e dell’azione) che tutela regole non repressive e che offre un modello, una via d’uscita alla dominazione, senza l’appiglio di un memoriale e con l’aggancio – virtuale - ad una coazione d’ordine che promana da una dimensione metastorica senza ricordo, perché davvero senza passato.
E’, da sempre, speranza nuova, nuovo cominciamento, condizione umana, futuro, spes contra spem.
Ricoeur, così precisa questo approccio: «la costituzione del potere in una pluralità umana – costituzione pregiuridica per eccellenza, quindi precontrattuale, costituzione che fa emergere come evento il consenso a convivere dalla discussione delle opinioni -, questa costituzione ha lo statuto dell’obliato. Ma questo oblio, inerente alla costituzione del consenso che istituisce il potere, non rinvia ad alcun passato vissuto come presente nella trasparenza di una società cosciente di se stessa e della sua generazione plurale. […] un oblio che non è passato. In questo senso, un oblio che non è nostalgia […] il potere è, nel medesimo tempo, la verità più prossima, costitutiva di ogni istante del convivere attuale, e la più dissimulata – e in questo senso sempre obliata».
L’accento, per l’Arendt impegnata nella riflessione politica, è dunque posto sulla fragilità delle cose umane, sull’oblio, sulla debolezza delle soluzioni messe in forma, sulla facilità e banalità dell’opzione violenta, sempre emergente come baratro e male.
Il flusso storico, come quello naturale, possiede delle caratteristiche ontologiche ferree: ciò che è fatto non può essere disfatto mentre il futuro è condizionato da un automatismo statistico, nel quale, ovviamente, ciò che è prevedibile non è di certo la libertà umana, la capacità di resistenza, ma il concretarsi del negativo, della caducità, della morte, tanto nelle forme naturalistiche di una epidemia virale che in quelle politiche del conflitto militare, interpretato come destino ineluttabile.
Contro tutto questo quali difese può ergere l’eccezione miracolosa della politica altra? Quali forme e categorie può assumere la tradizione carsica che contraddice la corrente ctonia per affermare il mondo? Per affermare, quindi, lo spazio pubblico del dibattito e dell’azione degli uguali e liberi, responsabili per il futuro?
La Arendt risponde, in più passi della sua opera - e in questo articolo ci siamo specificatamente concentrati sui saggi apparsi tra il 1954 e il 1961, raccolti con il titolo Tra Passato e futuro”, editi nel 2017 da Garzanti - che sono il potere di promettere e il potere di perdonare le risposte propriamente umane alle regolarità statistiche del flusso e del dominio.
La promessa reciproca, l’accordo, infatti, incatena ciò che è incerto e che sfugge verso il baratro del conflitto, mentre il perdono scioglie ciò che è legato alla dittatura dei fatti, offrendo l’opportunità politica del nuovo inizio su basi nuove: la ripartenza.
Sono categorie, dunque, sia della vita attiva che di quella contemplativa, veri miracoli che preservano il mondo dalla sua rovina “naturale”.
Miracoli che sfuggono all’accettazione nichilista dell’essere e lascar essere, all’irresponsabilità dell’esilio nel rifiuto dell’impegno e della politica, all’accettazione di un essere per la morte che, in ultima analisi, porta a conseguenze paralizzanti ogni nuova azione, ogni nuovo avvio.
Ed è il nuovo inizio, la natalità, a sfidare davvero la capacità di pensiero e di agire, attraverso la provocazione repentina di ciò che viene al mondo osando l’inosabile.
 Così si esprime la Arendt nel saggio Il concetto di storia nell’antichità e oggi:  
«E’ questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato tra noi».

Enzo Musolino


PRIMUM VIVERE DEINDE PHILOSOPHARI

La richiesta di canoni, di codici e codicilli per misurare millimetricamente la prossimità consentita tra gli individui e l’agognata pretesa di specifiche e casistiche esasperate in calce ai divieti, come per normare ogni passo possibile all’esterno delle nostre case (con cagnolino al guinzaglio o meno), a cosa serve davvero?
Forse, tento un’analisi, ci si lamenta retoricamente della genericità delle espressioni e dei termini, si chiede la “misura legale” della tutela e della paura - magari aggravata da una sanzione specifica e innovativa (il 650 c.p., si dice, non basta) -  perché, in ultima analisi, manca la misura del buon senso, la norma della razionalità che basterebbe davvero a governarci.
E su questo campo si misurano, a me pare, due estremismi che, come tali, si tangono nell’eccesso polemico.
Da una parte, i soliti cattivisti a caccia di untori, di nemici semplici e facili da additare come origine e causa dei nostri mali: ed ecco, ad esempio, la ferocia “social” pan-penalistica che vorrebbe l’esercito in strada pronto a fucilare sul posto il ciclista fuori sede o il familiare in assistenza al supermercato.
Dall’altra, gli ineffabili sacerdoti dei sacri testi, gli astratti azzeccagarbugli che vorrebbero piegare la concretezza alla propria ideologia salvifica e rassicurante.
Tra questi ultimi, alcuni filosofi e giuristi – pochi per fortuna -  pronti a battagliare “sulla carta”, nel senso dello j’accuse contro l’aggressione alla Costituzione, con il ditino liberale (?) puntato addosso ad un’Autorità (importa davvero di che segno?) rappresentata sempre pronta alla deriva fascista e autoritaria.
Al ragionamento dei primi e dei secondi manca, a me sembra evidente, il metro della complessità, l’articolazione degli strumenti del possibile e del dovuto, la modulazione degli interventi, una seria e sana cultura dell’equilibrio e del controllo – che non è moderatismo ma approfondimento della radice delle cose -  che sappia far fronte tanto al becero sostanzialismo quanto al disincarnato formalismo.
Per gli uni, la figura ormai “metafisica” del runner è il nemico, per gli altri è il cavaliere della luce e della libertà; per entrambi è il Governo a sbagliare tutto, a fallire il colpo: o troppo o troppo poco, comunque.
E questo perché, evidentemente, la ricetta giusta esiste ed è la propria e apodittica Verità non accolta per insensibilità, ignoranza o peggio.
Entrambi gli approcci, mi sembra, scontino i riflessi cripto rivoluzionari del mito del “Buon Selvaggio”. Secondo questa categoria rousseauiana, infatti, il cittadino è sempre inerme e buono mentre è l’Autorità, in fondo, ad essere sempre molesta e corrotta.
È chiaro, quindi – seguendo tale assunto - che si manifesta evidente, oggi, la volontà perversa di far infettare il Sud, dietro l’incapacità governativa di arginare l’esodo dei fratelli/criminali di ritorno a bordo delle autovetture zeppe di famiglie e di virus; ed è, per altro, il riflesso dispotico dei “potenti” a bypassare Parlamento e le Leggi per cedere all’arbitrio dei Decreti d’urgenza e dei Decreti del Presidente del Consiglio, intesi come provvedimenti fascistissimi.
Ed invece, il buon senso e la conoscenza della vita e della politica ci dovrebbe far riflettere sul fatto che il Popolo buono in sé non esiste come non esiste il Grande Vecchio e i fantomatici Poteri forti che lucrano sulle disgrazie degli italiani.
Il Governo ha sbagliato in questa temperie? Certo!
Come non sbagliarsi nel bel mezzo di una guerra inattesa e senza precedenti e con un quadro politico complessivamente debole?
Ma è pur vero che il Diritto non è stato deposto dall’arbitrio, che la Costituzione regna tutelata dal suo Custode – il Presidente della Repubblica – e che i decreti urgenti fin qui emessi saranno – nei termini ordinari previsti – oggetto di conversione parlamentare.
Si poteva fare di più e con più forza in Italia? Certo!
E con il senno di poi senz’altro, ma gli stessi riflessi psicologici e di sottovalutazione iniziale li abbiamo visti all’opera in tutti i paesi occidentali coinvolti, alle prese con le plurime e diverse informazioni scientifiche (spesso in contrasto tra loro) e con il pressing e l’emotività dei vari attori sociali coinvolti.
Il modello cino-russo, invece, è bene chiarirlo, in questo è semplice ed efficace: perché la Pravda (la Verità), come è noto, è Una e una soltanto e sicuramente ben armata!
Privi di paraocchi ideologici, mi pare si possa affermare, senza isterie e trionfalismi ingenui, che il Paese sta dando buona prova di sé. Certo, tanti limiti e tanti errori nel passato (il Servizio Sanitario spezzettato nel fallimento del regionalismo inefficiente; l’assurdità dei soldi buttati al macero per Reddito di Cittadinanza e quota 100) ma, complessivamente, nell’emergenza, le Istituzioni, tutti insieme - lo Stato Apparato e lo Stato Comunità -  sembrano tenere, non peggio almeno degli altri Paesi civili: e le scene dei malati di Covid stesi a terra morenti nei corridoi ospedalieri li abbiamo visti a Madrid e non a Milano.
C’è chi grida e chi si indigna è ovvio - e probabilmente è fisiologico e giusto - ma c’è anche chi, nel chiuso della propria coscienza, ringrazia Dio di non aver avuto responsabilità di Governo in questa fase per poter - come da mestiere e carattere - criticare aspramente, per fini elettorali, su quanto fatto e non fatto dagli altri.
A quei giuristi e a quei filosofi assisi nella sfera celeste – e intangibile – dell’Accademia eterna professorale e ai Soloni moderni poveri di prudenza e ricchi di saccenteria, che dire?
Che è stata l’Eccezione imprevista e irruente ad aver deposto la Normalità – il fatto bruto e non la Politica – ed è la decisione sull’eccezione a salvare e a ristabilire, dopo aver sospeso oggi la Norma, il Sistema, domani.
Ed ancora, che la “nuda vita” non è un orpello ideologico per fare bio-politica stantia, ma  è la carne dei sofferenti che non merita di essere sfottuta, derisa e svilita sull’altare della vita spirituale libera e non umiliata dall’Autorità infausta, e ciò perché senza la prima, senza la vita, la salute, la sopravvivenza della carne al male, non ci può essere il Culto del bene e del meglio.
Primum vivere deinde philosophari, sentenziò qualcuno tra i latini e, poi, Hobbes … e non a torto!

Enzo Musolino


IL LIBERISMO NON PROBLEMATIZZATO.
 I RISCHI DELLA DIALETTICA SBAGLIATA AL TEMPO DELLA PANDEMIA

L’economista Stefano Zamagni, presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali, in un’intervista resa all’Osservatore Romano il 9 aprile u.s. (https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2020-04/osservatore-romano-zamagni-ecnomia-coronavirus-futuro.html) ci fornisce una buona sintesi della “economia civile”, d’un approccio economico e sociologico davvero interessante – generato all’interno del variegato e proficuo mondo cattolico – che va ad arricchire, a mio parere, le c.d. posizioni terze: quelle riflessioni e quelle prassi che mirano a sciogliere le contraddizioni del capitalismo senza negare valore all’’economia di mercato.
L’operazione, in vero, non è nuova, e ci sono fecondi precedenti che analizzeremo a breve, ma è senz’altro significativo come questa prospettiva possa essere declinata con profitto proprio alle soglie del Mondo che sarà dopo la crisi sociale generata dalla pandemia da Corona-Virus.
È importante, infatti, cercare e tentare vie d’uscita possibili per una necessaria ripartenza che sappia cogliere pragmaticamente un nuovo inizio, interpretato come indispensabile se davvero si vuole che ex malo bonum.
Tante sono le suggestioni di Zamagni: il superamento di un approccio squisitamente centralistico e burocratico delle dinamiche economiche; la promozione della sussidiarietà orizzontale come produzione spontanea e libera di Diritto e di una crescita economica non riduzionista aperta al quadro ideale dello sviluppo integrale della Persona; l’analisi degli errori ideologici del passato che hanno condotto allo status quo ante virus.
Ed ecco, su questo ultimo punto vorrei tentare questa mia analisi critica: sulla compiuta problematizzazione dei meriti e degli errori (concettuali e storici) della fase sociale, economica e politica … di quella liberal-democrazia che siamo stati fino l’altro ieri, i cui fondamenti (anche quelli Comunitari/Europei) sembrerebbero definitivamente scossi dall’emergenza in corso.
Il nemico numero uno per Zamagni è il neo liberismo! Questo l’assunto dell’intervento stampa su indicato. Per Zamagni, il liberismo oggetto di polemica è solo quello di Adam Smith, quello della Mano Invisibile che, indifferente agli sconfitti delle crisi economiche, tende sempre a un equilibrio disincarnato e di matrice evoluzionistica: un equilibrio che distrugge per ricreare senza pietà, lasciando dietro di sé i rottami del processo: i deboli, gli esclusi, i fragili.
Ma è ancora davvero così? Questo è stato il nostro Mondo – la realtà italiana – fino a ieri? I nostri deboli, il nostro Meridione, hanno davvero patito per lo scatenarsi degli istinti della competizione capitalistica? Il problema, ad esempio, sono stati i licenziamenti ad nutum motivati da una meritocrazia esasperata, pronta a sacrificare chi appare sorpassato o, invece, il vero problema, oggi come ieri, rimane la mancanza di posti di lavoro, di imprenditori veri e di crescita? Il deficit di una sana economia in competizione, soffocata dalla gestione di un Potere politico sovra dimensionato e rispondente a logiche interne, faziose, sganciate dal bene comune?
Ed ancora, Il pensiero liberale, al di là delle semplificazioni ideologiche e di un pregiudizio clericale passatista, è davvero ancora quello ottocentesco della Mano Invisibile, del laissez faire laissez passer?
Zamagni nelle sue articolate risposte nel corso dell’intervista, sembra in molti passi invero contraddire – e per fortuna -  il suo stesso assioma, e ciò perché giustamente individua altri e forse più pericolosi “nemici” dello sviluppo italiano: la burocrazia improduttiva, innanzitutto, quella Casta irresponsabile che rigenera se stessa ad ogni crisi, ad ogni cambio di potere; e Zamagni comprende bene, inoltre, come le posizioni di rendita economica siano un altro cancro del Paese.
            Quella rendita che è ostacolo alla mobilitazione delle risorse e degli ingegni e che, nell’ingiustizia ereditata, impedisce la mobilità sociale.
Il tutto aggravato dal fatto che, iniquamente, chi produce valore viene maggiormente vessato in tasse, mentre la classe che detiene patrimoni infecondi trova sempre pronti quegli alfieri della Conservazione che si impegnano per opporsi a qualsiasi operazione – questa sì davvero liberare – tesa a tassare nella misura giusta, per il bene di tutti, successioni e donazioni, le regalie prive di lavoro e sacrificio che imballano il moto sociale.
Zamagni, però, a mio parere, non coglie fino in fondo gli esiti del ragionamento antiburocratico ed invece di spingere – insieme a tutti i sinceri liberali – sul pedale della meritocrazia e della competizione proficua che genera liberazione nell’affrancazione delle risorse e nell’applicazione del principio – davvero redistributivo – della Libertà Eguale e della parificazione dei punti di partenza, torna con forza a delineare come nemico il liberismo economico e, quindi, quella globalizzazione dei mercati che, di certo, con la burocrazia del Leviatano c’entra davvero poco, facendo così il gioco -  senz’altro senza volerlo -  di un rinnovato statalismo ideologico.
Uno statalismo ideologico (anche nell’attuale declinazione sovranista/populista) che ha come obiettivo polemico il liberalismo e il liberismo e la cui affermazione d’agenda politica nella c.d. fase due dell’emergenza  potrebbe riprodurre – senza anticorpi liberali, dunque - quegli errori disastrosi che, soprattutto a partire dagli anni ‘80 del Secolo Breve e fino all’inizio della stagione della UE, hanno condotto - nell’affermazione  del primato della partitocrazia sulla Società - non tanto a crescita e benessere duraturo ma alla rendita, appunto, e alla burocratizzazione interessata dei flussi redistributivi che paghiamo ancora oggi, nelle forme dei potentati locali presenti al Sud, di un regionalismo spendaccione e inefficiente (anche al Nord) e, in fine, con la farraginosità delle risposte finora offerte per affrontare l’emergenza Corona Virus, espressione di un deficit di fiducia che (s)lega lo Stato ai suoi cittadini.
Zamagni, ancora, sembra poi unire, nella critica, tanto il liberismo di Adam Smith quanto l’Austerity europea; aggiungendo paradosso a paradosso. Cosa c’entra, infatti, il presunto “tana libera tutti” dell’egoismo individuale, di una antropologia utilitaristica nemica di qualsiasi tipo di interventismo pubblico, con l’attenzione europea ai conti e al debito sovrano dei suoi membri, con il principio giuridico del pareggio dei bilanci statali, con il Mercato Comune iper tutelato e protetto?
Se, come pure è legittimo, si critica il principio “costituzionale” delle necessarie coperture finanziarie a fronte della nuova spesa pubblica, se si mira, con buon diritto, a ribaltare un’impostazione normativa che pretende di fare i conti con la rimodulazione nazionale della spesa storica – per conformarla al presente – prima di continuare ad indebitarsi sui mercati finanziari, è giusto pure comprendere che non ci si troverà accanto, come alleati in questa battaglia, i fautori liberali del principio di sussidiarietà  e dello spontaneismo sociale; questi ultimi, infatti, hanno tutto da guadagnarci, in termini di sicurezza e operatività della libera intraprendenza, dalla tutela di conti pubblici e dalla salubrità dello Stato/Apparato.
Chi pure in buona fede si sta impegnando nel recitare il de profundis a “questa Europa”, non si ritroverà accanto, quindi, i cultori della società civile pronta a far da sé nel contesto di una maura  Welfare Society che miri – nella libertà e nella responsabilità delle Istituzioni – a superare l’impostazione strettamente hobbesiana e, quindi, sovrana, di uno Stato burocratico e accentratore ma, invece, si accompagnerà all’allegra comitiva delle più varie “cicale”, impegnate in quello “sbilanciamoci”, in quello “stampiam moneta” che vorrebbe il settore pubblico sempre più coinvolto nell’ingigantire il Leviatano, il Dio mortale, la Piccola Patria, per incrementare le rendite degli apparati di potere pronti a gestire in maniera clientelare il flusso di denaro e di prebende da distribuire.
Il tutto, ovviamente, a prescindere dalla salubrità dell’economia reale, dimenticando la regola aurea del far di tutto per incrementarla la “torta” del benessere, senza limitarsi a moltiplicare le fette di un impasto privo di lievito.
Ritornando al liberismo e alla maschera ridotta che ce ne offre Zamagni, appare opportuno, invece, ribadire che – proprio a partire da quelle terze vie pragmatiche, concrete e non ideologiche chiamate nelle crisi a svelare limiti di ogni ideologismo - il pensiero liberale nella sua storia Novecentesca, di certo sollecitato dalla dialettica con le forze più innovative del Socialismo democratico e riformista, ha saputo per almeno due volte affrontare le contraddizioni dell’approccio originario del “lassaiz faire”, per giungere ad un liberismo innovativo e davvero progressivo.
Fu William Beveridge, nel contesto del “nuovo liberalismo” inglese, chiamato a dare risposte all’urgenza sociale prodotta dal Secondo conflitto mondiale, a presentare – nel 1942 – quel celebre rapporto che diede il via alla strutturazione seguente (anche grazie all’apporto dei laburisti) del Welfare State, dello Stato Sociale che, ancora oggi, rappresenta la sintesi augurabile di libertà e sicurezza, attraverso la generalizzazione della National Insurance e della creazione e implementazione del National Health Service.
E solo qualche anno prima, con riflessi e influssi che si sarebbero per fortuna poi ripercossi sulla stagione feconda del miracolo tedesco e italiano post bellico, furono gli Ordoliberisti della Scuola di Friburgo, economisti cristiani come Wilhelm Röpke e Walter Eucken, a innovare il metodo liberale, a salvare e tutelare la Società Aperta contro i nemici di destra e di sinistra (contro conservatori e rivoluzionari alle prese con le proprie teorie salvifiche e/o palingenetiche), ad evitare di buttare via il “bambino della modernità” con “l’acqua sporca” delle sue evidenti scorie, realizzando – proficuamente – un approccio giuridico, fondato sull’Ordo appunto, che scacciò nel passato l’illusione dell’equilibrio automatico del Mercato e ogni illusione anarcoide di matrice utilitaristica, affermando la necessità di coniugare lo “Stato forte con l’Economia sana”, l’intervento normativo di garanzia e tutela con la libertà del moto sociale.
Entrambe le Scuole – nuovo liberalismo e ordoliberismo - sono state come è noto efficaci, vantaggiose e produttive e, con orgoglio, il mondo liberale e quello cristiano democratico possono ben dire, attraverso il welfare state e l’economia sociale di mercato, di avere strutturato – anche grazie allo sviluppo del progetto di Europa Unita – il benessere continentale.
Tutto questo per dire, in conclusione, che ben vengano gli approcci complessi tesi a sviscerare, nella proposta fattiva, i limiti del sistema economico-sociale che con tutti i suoi limiti e le mille contraddizioni è giunto alle soglie della crisi epocale prodotta dal virus pandemico, e ben venga la critica al neo-liberismo della finanziarizzazione astratta e delle grandi concentrazioni economiche di pianificazione privatistica (che nulla ha a che fare, per altro, con le riflessioni fallibiliste e fondate sulle conoscenze diffuse e disperse del massimo esponente della “scuola austriaca”, Friedrich von Hayek), ma occorre pure impegnarsi per problematizzare fino in fondo i concetti espressi, non tagliando i ponti ma riscoprendo le innumerevoli strade ancora non compiutamente percorse, frutto della tradizione fecondissima del liberalismo democratico europeo.
Una Tradizione che ha saputo far guadagnare spazi all’economia e alla Società dei liberi, sottraendoli alle necessità fameliche dei partiti estremistici e eversivi, pronti a piegare lo Stato e le istituzioni alle esigenze faziose di questa o quella minoranza.
Il liberismo, almeno in Europa, è stato anche questo, ed è giusto ricordarlo con rispetto.

Enzo Musolino

martedì 19 maggio 2020


GLI APPELLI E I MANIFESTI DELLA SINISTRA
ALLA PROVA DEL COVID-19

Si susseguono gli appelli, con invito alla sottoscrizione, nell’estrema Sinistra.
I più importanti sono quelli di Potere al Popolo (https://poterealpopolo.org/no-attacco-diritto-di-sciopero/) e quello de Il Manifesto (https://ilmanifesto.it/appello-basta-con-gli-agguati/).
È giusto sia così! Gli intellettuali, ma non solo loro, attraverso queste prese di posizione collettiva esprimono, spesso, feconde riflessioni capaci di interrogare il Paese, soprattutto in temperie straordinarie come quella in corso.
Un’ eccezione (non dichiarata da alcuno ma subita come evento) che “provoca” libertà e giustizia nell’articolazione delle risposte d’Autorità.
Come discriminare, però, tra i diversi appelli?
Mi sembra, sul punto, di poter indicare una profonda differenza che si scorge, ad esempio, proprio tra i due “manifesti” su indicati: per me lo spartiacque è l’ideologismo, il tentativo, cioè, di piegare la realtà alle proprie posizioni, senza alcuna aderenza all’attualità.
Con questo metro si può ben distinguere sull’efficacia o meno, sulla bontà o meno, di un invito alla sottoscrizione e all’impegno comune nel dibattito pubblico che, come tale, ha senso solo se funziona da sismografo di ciò che si muove nel profondo delle dinamiche di potere, magari denunciandone i gravi pericoli.
Altrimenti, l’invito e l’appello divengono, come la denuncia di maniera, solo sterile occasione di visibilità per gruppuscoli che si muovono solitamente ai margini del consesso civile.
Mi domando, si può sottoscrivere oggi un invito, una segnalazione collettiva, contro un Governo, quello italiano, tacciato di negare in maniera autoritaria il dissenso sindacale e di combattere il diritto di sciopero, concusso dalla normativa Anti Covid? Così vorrebbe Potere al Popolo, ad esempio.
Questa sottoscrizione, questa adesione, significherebbe aderire al comune sentire del Paese e ai suoi bisogni effettivi di libertà e di lavoro? A me pare francamente di no.
Il diritto di sciopero, infatti, tutelato dall’art. 40 della Costituzione, non è stato mai limitato dalla normativa emergenziale.
Come è noto, scioperare significa astenersi dal lavoro senza ricorrere agli istituti contrattuali normalmente giustificativi dell’assenza, per rivendicazioni - anche politiche - che comporteranno, con l’allontanamento dal posto di lavoro, la decurtazione stipendiale per la rottura temporanea del sinallagma contrattuale.
Questo significa scioperare, lotta e sacrificio che i sindacati potrebbero ben azionare in molti settori anche oggi, magari, ovviamente, senza manifestazioni oceaniche come prosieguo, senza assembramenti.
Ciò non significa, però, senza efficacia e lo hanno dimostrato, da ultimo, anche gli imprenditori del settore turistico che, nei giorni scorsi, a Roma e non solo, con forme “distanziate” di protesta, hanno comunque raggiunto un importante risonanza mediatica.
Perché, di converso, non abbiamo visto finora i sindacati e i lavoratori in Piazza, a tutela, ad esempio, della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro?
Perché l’appello di Potere al Popolo si limita a difendere l’indizione di uno Sciopero Generale di una sola sigla sindacale minoritaria, vittima, a loro dire, dell’aggressione sanzionatoria della Commissione di Garanzia?
Nel merito, e fuor di ideologia, va ricordato, infatti, che i luoghi di lavoro, le aziende italiane ad oggi aperte e riaperte e tutti coloro che da 18 Maggio opereranno dopo il lungo stop, lo potranno fare - in sicurezza e nella piena applicazione di regole efficaci contro il contagio - sulla base non di linee guida governative, non in virtù di una Legge partorita dalla Maggioranza parlamentare, né tantomeno grazie ad un famigerato DPCM del pericoloso totalitario avv. Giuseppe Conte, ma in virtù, propriamente, di un Accordo Collettivo stipulato dalle Parti Sociali (http://www.flcgil.it/contratti/documenti/accordi-e-contratti-quadro-settori-privati/accordo-governo-organizzazioni-datoriali-e-sindacali-sulla-sicurezza-al-lavoro-per-emergenza-coronavirus-del-24-aprile-2020.flc), dalle Organizzazioni Rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori, nel contesto quindi di una dinamica sociale autenticamente dialettica e produttiva che non ha avuto bisogno dello sciopero.
Il Governo, infatti, che ha promosso l’accordo, si è impegnato solo a dare massima applicazione a quanto deciso dagli attori sociali.
E, per questo, gli Ispettori del Lavoro, la funzione pubblica di vigilanza sul diritto del lavoro, per la prima volta nella storia d’Italia, entrerà nelle aziende – con buona pace di Salvini che come uno sciacallo ha lanciato la fake news dell’intervento ostile alle aziende - con un mandato specifico di informazione qualificata, diretta ad agevolare l’applicazione, appunto, non di una legge ma di un accordo sindacale.
Il mutamento di prospettiva – ingenerato dall’emergenza economica provocata dalla pandemia – è un concreto esempio di socializzazione della responsabilità, di attenzione alle dinamiche d’impresa e di storicizzazione dei compiti istituzionali di vigilanza.
Non significa questo, infatti, privilegiare l’accompagnamento dell’impresa e del lavoro in questa difficile fase rispetto alla riattivazione sic et sempliciter dell’apparato sanzionatorio generale, come se nulla fosse?
Si tratta, sostanzialmente, a mio parere, di un vero mutamento della gerarchia delle fonti nel diritto sanzionatorio del lavoro, realizzata – giustamente – attraverso una riforma emergenziale della vigilanza, diretta all’applicazione di un Protocollo sindacale, privo delle rigidità proprie della norma statale e finalizzato ad agevolare una vera ripartenza del lavoro -   valore fondante la Repubblica - senza gravare le imprese, in tale delicata fase, di controlli di carattere generale e, per ciò, “normali”  che non avrebbero davvero senso nell’eccezione in atto.
L’approccio, in tal senso, mi sembra davvero avere le caratteristiche liberali proprie di un diritto mite, figlio delle difficoltà straordinarie del presente. Altro che Stato etico e totalitario, nemico degli scioperanti!
E a studiare bene le carte, inoltre, si scopre che l’estrema sinistra sindacale e partitica che denuncia tali derive in appelli e manifesti (ovviamente connessa agli opposti/tangenti delle accuse sguaiate della Destra leghista, paladina interessata delle libertà violate) si batte ottusamente contro i limiti di buon senso articolati dalla Commissione di Garanzia per l’applicazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, posti non contro i lavoratori e i loro interessi ma per far fronte a quelle sigle minoritarie, non rappresentative e irresponsabili che – come è accaduto – sono state in grado di indire uno Sciopero Generale, senza rispetto dei termini di preavviso, senza garanzia delle prestazioni indispensabili, nel bel mezzo della crisi Covid, con il rischio di bloccare le attività indispensabili di servizio alla Collettività e in piena violazione delle norme generali che, giustamente, obbligano di sospendere gli scioperi in caso di avvenimenti eccezionali di particolare gravità o di calamità naturali.
In questo contesto, emerge, di contro, la diversa natura dell’appello de Il Manifesto che ha colto, a mio parere, la radice retriva e sostanzialmente neo conservatrice degli attacchi strumentali e delle fake news prodotte contro il Governo, scansando la risibile denuncia di “decisionismo autoritario” prodotta proprio da quelle Destre che, nelle stesse ore, si complimentavano con l’alleato Orban per la chiusura sine die del parlamento magiaro.
Il Manifesto, così, ha stigmatizzato quei politici in cerca di visibilità che, dietro il paravento delle libertà di movimento ridotte, senza alcuna considerazione della tante “Bergamo” d’Italia fiaccate dalle morti solitarie dei deboli e degli inermi, si sono esercitati – astrattamente – nel culto di una precedente “normalità” che si è rivelata, invece, essere parte del problema.
Molte delle difficoltà che l’Italia ha dovuto affrontare allo scoppio di questa vera e propria “guerra”, sono dipese, infatti, dallo stato di decadenza del nostro sistema sanitario, fiaccato dai troppi interventi di ridimensionamento – soprattutto dei servizi di medicina territoriale – e dall’esplicazione di una regionalizzazione scoordinata nell’offerta di Salute che ha ingenerato profonde sperequazioni territoriali.
Lo spartiacque, dunque, è l’ideologismo, e lungi dall’apologia di un Governo del quale, invece, sono stati evidenziati giustamente i tanti limiti (la mancata chiarezza comunicativa e l’incertezza normativa in primis) l’appello de Il Manifesto ha dimostrato, a mio parere, che anche a partire dalla radicalità dell’approccio politico si possa cogliere, se si abbandona il senso comune per il buon senso, l’operatività imponente della concretezza e dell’inatteso, l’urgenza di una prassi che, tutto sommato, non ha portato disonore  all’Italia e che, oggi, finalmente, consente ai lavoratori italiani – nell’accordo sindacale raggiunto senza scioperi - di entrare in luoghi di lavoro salubri, sotto l’osservanza attenta dei corpi ispettivi di Stato.
Enzo Musolino

lunedì 4 maggio 2020


IL DIRITTO DEI CIVILI
L’EVENTO E LA PERSONA NEL “COVID 19”

Il fatto si è imposto con una forza che ha chiesto subito risposte, si è mostrato come una coazione alla tutela, alla protezione, alla salvaguardia. Solo così, nel fenomeno, è divenuto nuovo ordine provvisorio.
I giuristi, giustamente, si stanno interrogando su questo accadimento, soprattutto su cosa abbia oggi forza di deporre la legalità, di inficiare la libertà; sul senso antico e moderno di autorità e di potere.
Sono in gioco, è ovvio, le forme dello stato di diritto e la sostanza dell’eccezione.
Si capisce che quest’ultima è più interessante del caso normale, più viva nel dilatare fino allo spasimo la necessità stessa della risposta urgente, la capacità di resistenza e di resa.
Il diritto costituzionale, la dottrina dello stato, il contributo dei giuspubblicisti (ma non solo di questi vedremo), sono importantissimi nel momento in cui mitigano, nella scienza, non l’anomalia - che è purtroppo nei fatti - ma la pericolosa fuga ideologica, lo scatenamento del potere sovrano, anche di quello popolare.
Per questo è sempre opportuno ascoltare voci di buon senso che distinguono e precisano, che giuridificano l’eccezione per spuntarne gli aculei, mostrando attenzione e rispetto tanto per le libertà oggi concusse, quanto per la salubrità e tenuta del sistema scosso dall’evento.
Perché l’uomo non è sempre buono in sé e perché l’autorità non è sempre corrotta.
Vorrei, oggi, tentare un approccio più comune, sociale. Allargare il problema giuridico della pandemia a tutto l’ordinamento civile, mettere all’opera quelle regole e quella autonomia che sono propri della relazione tra pari, che disciplinano insieme – nella libertà e nella responsabilità - l’autonomia dello stare insieme, al di là delle dinamiche del potere statuale.
Ciò può servire, credo, a porre l’accento su tutti noi, sulla comunità, sulle risposte davvero risolutive che, come tali, non possono cadere dall’alto in maniera salvifica (o demoniaca), per opera della procedure più o meno corrette del dio mortale.
Il diritto che si snoda tra noi, in tal senso, è essenzialmente il diritto delle persone, della loro capacità giuridica e di agire, del negozio e del contratto, dell’accordo quindi che impronta di sé il mondo, ed è anche, come tale - come responsabilità per il presente e per il futuro - il diritto della tutela delle posizioni deboli, il diritto dei fragili, della cura dei vicini per non perire.
Se partiamo da qui, quindi, vedremo all’opera una poliarchia diffusa d’intervento spontaneo e proprio, indipendente dallo Stato, nel quale anche il concetto di fonte del diritto si scioglie in un’articolazione feconda di fatti e materie, di decisioni e consuetudini che fanno il mondo, proteggono i singoli, ci impegnano per gli altri.
Il diritto – che non è solo, quindi, potere e proprietà - è ricchezza di istituzioni e articolazioni che accompagna e integra la produzione dei pubblici poteri ed è giusto, quindi, interpellarlo in toto nel corso dell’anomia in atto, a seguito del disordine generato dal fatto bruto.
Persona, dicevamo, e tutela della fragilità. E in effetti se questo è il nostro mondo comune, la minaccia esterna e la risposta endogena non possono che essere congiunte al rischio, all’alea, all’ incombenza dell’azione, all’abisso dell’omissione.
Questo è l’inizio, questa la base.
In sintesi, si tratta della vita biologica innestata a libertà, si tratta dell’uomo totale, non ridotto a partigiano d’un’idea sovrana, escludente.
Si tratta di sanare la libertà più grande: quella di non perire, di non spegnere il mondo, perché non esiste il mondo senza il respiro.
È ovvio che, così ragionando, giungiamo ai doveri. Al dovere dei singoli, al dovere d’intervento e tutela, ed allora molto muta nell’orientamento.
Perché la dinamica contrattuale protezione/obbedienza salta non solo e non tanto sull’altare dei miei diritti innati ma, prioritariamente, sulla catastrofe del primo dovere di ogni seria costruzione politica umana: salvare la vita ai cittadini, ergersi – nello stare insieme - come argine all’annichilimento irrecuperabile della società, alla morte.
E lo stare insieme si sostanzia – civilmente – in questo necessario riparo imprescindibile, si realizza nella dedizione per l’altro, nella responsabilità per la prevenzione e per il risarcimento del danno ingenerato dal fatto ingiusto.
La tutela liberale non è, quindi, anarchismo asociale disincarnato che si muove per bandiere ideologiche, non è il romanticismo politico del nessun impedimento al moto, è essenzialmente libertà dell’altro, difesa dell’altro dall’imprudenza, anche dall’imprudenza del mio contagio.
E se non fossimo intervenuti tempestivamente? Se non avesse prevalso responsabilità? Chi risponderebbe oggi per le morti in più?
Ha senso, dunque, far pre-agire l’interrogazione ideologica e polemica sui limiti del Potere (disconoscendo per altro il ruolo di Custode della Costituzione proprio del Presidente della repubblica) rispetto al riconoscimento di un potere esteso “anti covid”, palesemente diffuso nell’organizzazione comune della risposta di contenimento e limitazione?
È tutto dipeso da noi, quindi! E’ stato tutto nelle nostre mani: nella nostra capacità di intervenire per i fragili, attraverso la concretizzazione di un distanziamento fisico che è stato, per tanto, iper sociale, familiare, affettivo, umano.
Non per nulla il libro primo del nostro codice civile è dedicato alle persone e alla famiglia, è dedicato, quindi - nella pienezza di doveri fecondi di tutela - alla vita e al futuro.
Ed è il soggetto debole, quindi, l’autentico protagonista del diritto: minore di età, interdetto, inabilitato, amministrato, incapace, lavoratore contrattualmente debole, vessato.
Figure concretissime di un vivere civile aggredito dalla pandemia inattesa; protagonisti e vittime di un rischio, di un azzardo di senso, dell’incertezza di una risposta che non è stata mai garantita da alcunché.
 Perché la vera conoscenza scientifica è tale solo se è falsificabile, quando si schiude alla prova dei fatti e dell’esperimento, senza certezze ideologiche.
Se la persona e il danno incombente diventano il centro del nostro ragionamento pandemico si aprono più ampi e proficui ambiti di riflessione e si svela un’articolazione sociale di diritti e di impegno per la liberà e la vita che non coincidono totalmente con le dinamiche pubblicistiche, con il dibattito politico della polemica partitica e istituzionale.
Ritornare al centro del contesto civile, fare i conti con l’indipendenza di una vita sociale consapevole dei propri doveri di protezione, significa che non c’è solo la nostra vita da salvare, non solo la nostra libertà da tutelare dal governo.
C’è anche la fragilità che merita subitanea tutela, c’è la decisione pre-normativa dell’uomo libero che, di certo, se è davvero tale, acquisisce senz’altro il carattere generale dell’imperatività morale.
Enzo Musolino