venerdì 13 giugno 2014

Agli inizi del secolo scorso, Piero Gobetti, il filosofo della ‘Rivoluzione Liberale’ (rivista edita dal 1922 al 1925), nell’attuare l’analisi lucida dell’ossimoro insito nella posizione politica – purtroppo minoritaria - di chi intendeva imboccare una ‘nuova via’ di sintesi tra socialismo e liberalismo, individuava una possibile convergenza ideale tra il fronte movimentista del sindacalismo operaio e le forze più dinamiche e moderne dell’intraprendenza privata nell’ambito di un chiaro quadro liberale di riferimento, inteso come cornice legale inderogabile all’interno della quale si sarebbero mosse liberamente le dinamiche sociali di scontro. Orbene, a distanza di quasi un secolo le sensibili differenti posizioni espresse da Landini (FIOM) e Camusso (CGIL) su Renzi ed il suo governo modernista e “blairiano” lasciano perplessi solo chi non riconosca operante – sul punto – non tanto la classica distinzione “destra-sinistra” ma quella più concreta “conservatori –riformatori”.
A fronte di una posizione totalmente critica espressa da Camusso nei confronti delle politiche di Renzi, Premier accusato di sterile giovanilismo e di autoritarismo antidemocratico e nemico della concertazione sindacale, Landini – che già da tempo si è espresso negativamente nei confronti della prassi concertativa chiamata al compromesso pacificante più che al coraggio della Riforma - si è detto ‘colpito’ favorevolmente dall’aumento degli 80 euro mensili per i lavoratori dipendenti, confessando che mai nella sua attività sindacale avrebbe sperato di intascare, d’un colpo, un risultato economico così importante: quasi una mensilità annua aggiuntiva in media.
Dietro a queste diverse posizioni espresse nei confronti di un governo impegnato in politiche liberali, anti burocratiche e anti corporative, si riconosce una convergenza di interessi tra gli attori sociali più energici e produttivi. Sia l’imprenditoria schiettamente inserita nel mercato ed avulsa da aiuti di Stato e altre prebende pubbliche, sia “l’aristocrazia operaia” mossa dall’impulso di democratizzare il più possibile la rappresentanza sindacale riportandola sul terreno proprio delle lotte contrattuali e sottraendola dall’attrazione politica e parastatale, necessitano, infatti, di uno Stato da rivoltare come un calzino, di una rivoluzione liberale, appunto, che liberi il lavoro e l’impresa, favorendo l’assunzione del rischio, la responsabilità ed arricchendone gli apporti produttivi magari in un’ottica di compartecipazione alla gestione. Un “cambiamento di verso” che elimini il più possibile l’influenza politica sulle élites imprenditoriali e sindacali e che – per quanto riguarda l’ambito pubblico-statuale - porti a fissare chiare e semplici ‘leggi minime’ nell’ambito della cui certa applicazione il libero scontro degli interessi possa portare a più proficui risultati, sia nel senso della maggiore produttività del lavoro che dell’aumento contrattuale del salario. Solo in tale ottica si comprende il piano governativo, inserito nella Legge Delega in materia di lavoro  - osteggiato dalla CGIL che ha il timore di perdere potere di influenza ed iscritti – di fissare “per legge” la paga minima oraria dei lavoratori dipendenti, sanzionandone la violazione con il carcere, sia la proposta di Landini – anch’essa contrastata dai vertici della maggiore sigla sindacale del Paese – che sfida il governo a promuovere un disegno di legge sulla rappresentanza sindacale  – magari fondato su primarie – che dia finalmente attuazione all’art. 39 della Costituzione che sancisce per i sindacati un ordinamento interno a base democratica.