ILCUSTODE DELLA COSTITUZIONE
Se
la Costituzione è - come intuì Carl Schmitt - la decisione politica
fondamentale del soggetto del potere costituente (Dottrina della Costituzione, 1929), allora, in ultima analisi, Costituzione
è il nome della forma politica contemporanea,
tanto nel suo aspetto normativo, quanto
nel senso spirituale di ragione e destino di una Comunità. In tal modo intesa,
quindi, essa non è riconducibile esclusivamente al dato letterale – non è solo,
documento - ma è “volontà esistenziale”
(ancora Schmitt, Il Custode della
Costituzione, 1931), e , pertanto, Politica di un determinato potere che si
propaga nel suo mutare storico-concreto.
Se
c’è una lezione decisiva che ci ha lasciato il Secolo Breve, è quella relativa all’evidenza che un liberalismo
vuoto, neutralizzato e formalista,
non sa fronteggiare il fenomeno eversivo, sia quello radicale e cripto teologistico del totalitarismo, sia
quello anti sistema ed antagonista della partitocrazia settaria. Lo Stato di
Diritto, ridotto ad amministrazione e
burocrazia, oblia la forza costituente
dell’origine, si depoliticizza
e consegna le proprie istituzioni a quelle forze
totali che hanno scopi ed ideologie (anche religiose) escludenti rispetto
alla cornice liberal democratica, e
che tendono a rappresentarsi iper conflittuali in quanto veritativi e portatori di una palingenesi salvifica rispetto all’esistente
quadro politico. In piccolo, la deriva esclusivista del tipo del partito o movimento ‘diverso’ e refrattario alla
contaminazione, lo abbiamo visto all’opera all’indomani delle elezioni
politiche italiane del 2013, allorquando la ditta
bersaniana - l’usato sicuro e
tradizionale - subì come uno scossone irrimediabile il rifiuto dei pentastellati di condividere la
responsabilità di governo del Paese, preferendo orgogliosamente il solipsismo
al compromesso.
Ora,
il sistema liberale classico concepisce partiti
liberi e non totali; ossia partiti di
opinione che non sono così estranei tra loro da impedire, in Parlamento,
attraverso il confronto razionale, un accordo sovra partitico nell’interesse
generale, dell’istituzione democratica e del suo pluralismo. Il fatto che anche
la nostra Prima Repubblica abbia
vissuto (almeno fino al compromesso
storico ed al consociativismo) il confronto tra forze inconciliabili ed il
rischio del prevalere di un partito anti sistema ed alternativo all’Occidente,
ci rassicura solo del fatto che i
grillini, almeno in tale ambito, non rappresentano una novità così fresca e
ci dice tristemente che la ‘differenza’ italiana persiste oggi come allora,
come persiste il gap liberale
rispetto a Paesi più maturi, pragmatici e meno dediti all’utopismo elettorale e
propagandistico. Del resto, in un clima generalizzato di continua resa dei
conti epocale, è ovvio che, alla lunga, la risposta risolutiva e pacificante
che un tal sistema può offrire sia quella (odiosa
come il problema che mirerebbe a risolvere) consociativa e dell’accordo
sotto traccia ed extra istituzionale.
I
movimenti populistici e radicali, quindi, con il netto rifiuto dell’assunzione
di responsabilità condivisa, con la retorica della purezza e della totalità del proprio potere che si
assume rappresentativo di una fantomatica Collettività
ferita dalla incapacità e dalla corruzione altrui, mantengono - in tale
crisi e tensione irriducibile e rivoluzionaria (e le rivoluzioni non sono sempre subito giacobine e sanguinose) -
la propria energia politica al di
fuori delle istituzioni democratiche, contribuendo al depotenziamento e alla
neutralizzazione delle stesse; le quali vengono offerte al pubblico ludibrio
come inemendabili se non al prezzo “necessario” di una auspicata e prossima
acquisizione in solitaria, e, quindi,
monocorde, del potere politico. Ma in tal modo – e parliamo ancora e per
fortuna di fanta politica del tipo Veni, Vidi, Web, opera letteraria del
mentore Casaleggio – una volta raggiunto il potere, lo Stato, inevitabilmente,
tenderebbe a confondersi con il partito, con il movimento, rendendo esplicito
il superamento del sistema liberale, grazie all’esercizio
totale di un premio super legale
al possesso del potere in capo ad una forza (o ad un leader aggressivo,
pensiamo a Trump) che, ad esempio,
vincoli gli eletti, magari
contrattualmente e sotto sanzioni, ad un legame che non è più
rappresentativo ma padronale, scaturente direttamente dall’ideologia fondativa
legittimante. In un tale possibile
contesto distopico, la teoria liberale delle uguali chances da riconoscere a tutti i partiti in competizione per
il potere democratico, ha senso solo in una situazione di unità ed omogeneità
valoriale e spirituale del sistema che si rifà, appunto, ad una Costituzione condivisa. L’ordine
politico, infatti, anche quello liberal democratico, non si fonda solo sulla legalità formale ma anche sull’origine
concreta del proprio potere costituente
che ha imposto – in un dato momento storico - un’Idea ed una scelta
esistenziale (nel nostro caso quella
repubblicana, democratica e liberale)
su di un'altra, sconfitta. Potremmo parlare più chiaramente di una legittimità politica costituzionale che
necessariamente implica l’esclusione dall’agone politico di quelle forze –
terroristiche, eversive ed antagoniste – che sfrutterebbero la presa legale del potere per mutare
radicalmente lo Stato di Diritto, magari svilendo e mutando il principio di rappresentanza
e di libertà degli eletti a fronte di un più utile e demagogicamente
comprensibile mandato vincolante, sanzionabile
e sempre revocabile dai sacerdoti dell’ortodossia, o magari – come ci ha rappresentato Houellebecq nel suo
Sottomissione, 2015 – introducendo, attraverso la retorica dei diritti umani
e dell’integrazione multiculturale, una Sharia
soft e la poligamia. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione legale che, paradossalmente,
anche attraverso la retorica della difesa
della Costituzione più bella del mondo a fronte degli interventi emendativi
degli “altri”, rappresentati come corrotti ed interessati, giunge
sostanzialmente ad una radicale mutazione ontologica del livello costituente
liberale, sostituito da un plebiscitarismo fondato su categorie morali e
teologico politiche (il mito dell’alterità, appunto) extra giuridiche e,
quindi, non laiche.
Una
possibile risposta all’incubo su evocato potrebbe essere
quella di impegnarsi per ripoliticizzare le istituzioni
libere – altro che neutralizzazione del Politico !! – attraverso
l’affermazione delle regole liberali e garantiste rispetto a tutti i livelli di
potere, non solo partitici ma anche burocratici, corporativi, autoritari ed
irresponsabili democraticamente.
Si
tratterebbe di lavorare politicamente per una neutralizzazione attiva che tuteli la neutralità delle istituzioni
dai nemici della libertà. Tra gli esempi storici citabili, il più importante è
senz’altro quello tedesco. L’art 21, capoverso 2, della Legge Fondamentale,
infatti, nega l’accesso al potere a forze antisistema che hanno obiettivi ed
atteggiamenti tesi ad alterare l’ordine democratico liberale. Grazie a tale
formula, la Repubblica Federale fu capace di difendersi dal revanscismo
nazionalista e nazista e dal rivoluzionarismo sovietico; tutte forze che, nelle
forme ostative delle maggioranze parlamentari negative, avevano decretato la
fine dell’esperienza democratica del primo dopoguerra, costringendo
l’attivazione continua dello stato di
eccezione previsto dall’art. 48 della Costituzione di Weimar.
Tutto
ciò può sembrare al momento esagerato? Magari liberale ma non democraticistico?
Ebbene, nei ricorsi storici che stiamo vivendo e che rigettano l’Occidente ai
primi anni dello scorso secolo, cosa
si può ideologicamente opporre innanzi alla minaccia distopica del neo califfato arabo, alla democratura
del neo sultanato turco, all’accentramento
autoritario del neo cesaro papismo russo,
al neo plebiscitarismo demagogico
occidentale, se non il richiamo
originario al concreto dispiegarsi di un nucleo valoriale liberale, pluralistico
ed autenticamente popolare (perché di buon senso) che possa essere
rappresentato come autentico Custode della Costituzione ?
ENZO MUSOLINO
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