Il 20% di Pannella contro le mafie
Davvero può bastare la repressione giudiziaria a
sconfiggere le mafie? Da più parti e da tempo ormai giunge una risposta
negativa e si invoca, così, la cd soluzione culturale comunitaria, una sorta di
rivoluzione dal basso che, travolgendo i retaggi del passato, la plumbea
tradizione di omertà e paura, riuscirà a compiere il miracolo della
palingenesi. Tutto giusto, e però da dove partire? Dalle Scuole
si dice, dal potenziamento del corpo docente nel sud, dalla necessità di
incidere sui ragazzi, sui giovani, su quei figli di ndrangheta o di camorra che – si aggiunge - dovrebbero essere sottratti ai nuclei
familiari, esclusa la potestà genitoriale ed affidati a soggetti terzi, deportati
in luoghi neutri, quindi, al fine di compiere, appunto, la rivoluzione
necessaria.
Non sembrano però, al di là dell’utopia e della
pianificazione ideologica, soluzioni davvero sostenibili, almeno nella forma
demagogica nella quale sono offerte al dibattito pubblico.
Da una parte perché di insegnanti al sud ce ne
sono, e pure troppi, mentre il problema reale è la selezione di personale di
qualità, cosa che, al netto del concorso di questi giorni – finalmente
meritocratico, a cattedra e non abilitante – non è di certo avvenuta con il
sistema di avviamento attraverso le cd graduatorie provinciali e, poi, ad
esaurimento, premianti non il merito – mai valutato da alcuno – ma la
caparbietà di rimanere agganciati per anni ed anni in liste, rinnovate periodicamente,
ed infarcite di fantomatici, quanto onerosi, corsi on line di formazione, pressoché
inutili ma capaci di fornire quel punteggio aggiuntivo utile alla scalata.
Per quanto riguarda, poi, le varie proposte di
allontanamento dei bimbi dal nucleo criminale presunto mafioso, l’effetto
sicuro di una tale impostazione statalista non sarebbe altro che quella di
rinforzare il legame di appartenenza con un’origine obliata a forza e mitizzata
come propria ed identitaria.
A fronte di tale rischio di rinforzo, appunto, si dovrebbe,
invece, approfondire i paradossi di quelle – tante- coscienze scisse.
Una scissione, che gli insegnati – quelli veri
intendo, quelli che non si limitano nelle proprie ore di lezione alla fredda
trasmissione di dati ma che affrontano anche i problemi sociali e spirituali delle
terre di mafia – conoscono bene: è la scissione tra un apparato valoriale,
quello trasmesso loro dalle istituzioni, dalla parrocchia,
dall’associazionismo, che cozza radicalmente con quello offerto dalle famiglie
di provenienza, quello che respirano giornalmente a casa.
E tale scissione, quindi, va coltivata, questo
paradosso approfondito, questa frattura estesa; solo il tarlo di una diversità
possibile, di una vita estranea alle dinamiche del sopruso ed aperta a concetti
quali sacrificio e merito può davvero influire sulle nuove generazioni, può
portarle in contraddizione culturale con i vecchi, può dare forza dirompente ad una ribellione interiore e liberante fatta di
lacerazione, di dolore ma anche di risultati definitivi, altro che deportazione al nord!
In realtà, a parte le illusioni palingenetiche
studiate a tavolino e le rivoluzioni a freddo partorite dalla burocrazia
ministeriale, nelle terre di mafia, anche dentro le scuole, ad opera,
soprattutto, dei portatori di culture altre (i veri insegnati, i veri
educatori, i veri preti, le famiglie sane, le occasioni del mondo libero)
qualcosa di sostanziale è cambiato.
Il flusso
delle generazioni, il contagio virale di una onestà che non giudica ma propone,
offre ed ascolta; la stessa possibilità di libertà, di iniziativa di movimento
e crescita offerta dal capitalismo tecnologico, le tante idee in rete, lo spontaneismo
intraprendente di forti menti globali alle prese con la confusa ma prolifica
disamina delle domande di beni e servizi di un territorio, del proprio
territorio - anche in questo tempo di crisi, o, proprio grazie a questo - hanno
prodotto frutti buoni anche se non sufficienti.
E davvero nessuno ne può più di vessazioni, di
minacce, dell’ingiustizia atroce di una libertà - anche d'impresa – concussa
fino all’inverosimile.
Il coraggio
borghese, bisogna ricordarlo, viene anche da qui, e la reazione sempre più
diffusa al racket del pizzo, alla rapina di ndrangheta è sempre più di
insofferenza, di opposizione ontologica.
Bisogna riconoscere, infatti, che tale feudalesimo
premoderno è ormai risibile – magari in privato, ma è da questo che si
arriva al politico, al pubblico – ed essenzialmente goffo ed incomprensibile nelle
diatribe capziose che i capi sono
chiamati a dirimere, non senza difficoltà e compromessi, per gestire - come una burocrazia di autorizzazioni al commercio
- un territorio che, nonostante l’internazionalizzazione, la delocalizzazione e
la dematerializzazione del profitto legato alle droghe e all’assurdo
proibizionismo che lo genera, non cessa di essere rappresentato come fonte di
sovranità; un territorio vissuto come roba e latifondo, magari estraneo al vero
business, ma ritenuto, da un punto di vista teologico-politico, originario,
mitico, sorgente ctonia di potere.
Ed allora, proprio contro questa metafisica
teologica, contro tale infuriare di poteri indiretti e guerre sacerdotali di
matrice rurale, lo spirito borghese e laico, il turbo capitalismo dei contatti,
degli scambi e delle conoscenze on line che tanta parte hanno nella vita dei
giovani, non hanno un effetto dirompente? Lo hanno eccome!
E, forse, laddove non può aver successo pieno la
repressione penale, ne' la Rivoluzione
Ideologica e Comunitaria da tanto,
troppo tempo idealizzata ed attesa, non potrà spuntarla l'anarchismo individualista? Quell’istintivo
Antistatalismo, l’essere proprio delle nuove generazioni refrattarie
alle burocrazie pletoriche non si
rivolge, oggi, - chissà in quali forme sotterranee, imprevedibili e non
previamente razionalizzabili - anche contro lo Stato dell'antistato? Contro un Potere, ormai sempre più frammentato, scisso? Tutto è pronto, forse,
perché dietro ai veri intraprenditori del Sud – ma non solo del Sud- si strutturi una nuova coscienza borghese, l’eroismo inintenzionale ma davvero produttivo
dell’orgoglio per il proprio lavoro, la
gelosia del successo ottenuto, il vizio della crescita delle aziende, della
selezione dei lavoratori; pronto perfino - e finalmente - ad evadere il fisco del Vampiro mafioso, a violare le norme dei suoi regolamenti generanti povertà ed egualitarismo verso il basso, a scacciare
dalla proprietà, dalla vita, dagli interessi e dalle relazioni, gli emissari
della sua politica non più dominante.
In tal senso, anche a Scuola, personalmente, e con me tanti insegnanti non totalmente
assorbiti dalle miserie burocratiche del calcolo dei punteggi in graduatoria, è
spesso capitato di condividere con i ragazzi (coinvolti in dinamiche familiari
segnate da crimine e carcere) non l’odio per i padri (cosa impossibile da insegnare, almeno in un quadro generale di libertà estraneo a
rivoluzioni culturali stile cinese) ma il loro superamento e tramonto: l’intraprendenza,
il successo, l’impresa fattrice di modernità e progresso, non ha nulla a che
fare con l’eredità dei padri, con
l’appartenenza a corporazioni protette, con la vita facile di chi non ha sudato
il proprio posto al mondo, di chi non sa cosa significhi spiccare il volo.
La borghesia (mi piace usare questo termine nel
senso di Sergio Ricossa, ossia come vocazione dell'uomo a rapportarsi con
l'altro, a crescere e a migliorare attraverso lo scambio) c’entra con
l’intraprendenza dei singoli (soprattutto
di chi non ha niente e ha fame di tutto), con la testarda opposizione al
privilegio e al sopruso, con l’amore per le cose realizzate, con l’edificazione
di iniziative libere di espandersi, capaci di successo, profitto e lavoro. Dopo
i tanti eroi magistrati, poliziotti, preti e giornalisti, di questi eroi borghesi avremmo adesso davvero
bisogno e, forse, di meno stigma sociale prodotto da una repressione statale - per carità giusta ed indispensabile - ma che, a livello culturale e spirituale, è incapace
di ricadere nel profondo di una società
ferita – non solo dal sopruso mafioso - bisognosa, innanzi tutto, di giustizia, di
comprensione delle cause di crisi e di diritto alla conoscenza. Non per nulla,
il politico italiano per eccellenza estraneo al calcolo personale, all’interesse
spicciolo, ed aperto, nel solco del pensiero liberale, all’accoglienza non
ghettizzante - intendo Marco Pannella - alle ultime elezioni politiche a Platì,
nel 2013, in Calabria, in quella stessa
terra in cui, oggi, il Pd, non ha avuto il coraggio di affrontare
coraggiosamente la possibilità anche di una sconfitta alle elezioni comunali (nonostante
i media, il sostegno dei tanti soloni e nonostante la retorica delle liste portate
al vaglio della procura) ottenne il 20% dei consensi; così come buoni risultati
ottenne a San Luca ed Africo. Tutti mafiosi alle prese con il 41 bis che speravano nell’Amnistia
predicata a colpi di sathiagrah da Pannella? Non credo, credo che il leader
radicale fu capito più dai figli che dai padri, da quegli spiriti alle prese con
la rivolta delle coscienze. Ed allora, che senso ebbe, che senso ha ancora,
quel 20% se non quello del tragico appellarsi ad una giustizia altra ed alta di
cui ci ha tanto parlato anche Corrado Alvaro? Una giustizia eroica - e borghese aggiungo io - davvero anti mafia.
Enzo
Musolino
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