giovedì 31 agosto 2017

L’ESTREMISMO UMANITARIO ED IL LIBERALISMO DELLE REGOLE


È notizia delle ultime ore: molte Ong hanno chiesto un incontro al Viminale per discutere seriamente di sottoscrizione del famoso codice di comportamento che prevede, tra l’altro, il divieto di entrata in acque libiche, il divieto di trasbordo dei migranti presso altre imbarcazione e la presenza a bordo – su richiesta delle autorità - della polizia giudiziaria italiana.
Evidentemente pragmatismo e concretezza prevalgono quando le regole sono di buon senso e chiare e vengono difese con l’autorità che si addice ad uno Stato sovrano che si relaziona con organismi privati legittimi, necessari, lodevoli negli scopi e nelle azioni ma, in ogni caso, incidenti sui nostri mari, sul nostro territorio, sul destino delle popolazioni accoglienti e su quello dei disperati  oggetto di mercato e tratta.
Al di là delle dotte disquisizioni giuridiche tra internazionalisti, esperti di diritto della navigazione di diritto umanitario e penalisti, lo scontro in atto tra i fautori di una immigrazione controllata e gli artefici di una terzietà ideologica che, come tale, disconosce confini e respinge intromissioni alla propria attività di “salvataggio” in mare, è lo scontro politico tra l’anarchismo romantico di un estremismo che tende ad avere a che fare con “gente” spogliata di ogni diritto contrattuale e lavoristico e trattata come materiale spersonalizzato da tutelare senza forme ma sostanzialmente e quello che possiamo bene definire un liberalismo delle regole che, finalmente, ha deciso di non deporre il diritto come un rottame metafisico travolto dalla realtà tragica degli sbarchi continui interpretati come destino ed espiazione di colpe ataviche ma che vuole contemperare, nel buon senso,  più esigenze che non possono disgiungersi: il soccorso della gente in mare in pericolo, il riconoscimento dell’asilo politico per rifugiati e perseguitati, l’accoglienza dignitosa in Italia per chi vi ha diritto.
Ma cosa significa accoglienza dignitosa? Perché non si può giudicare delle ultime decisioni del Governo  sul codice di comportamento per le Ong senza capire cosa sta succedendo nei nostri territori dopo gli innumerevoli sbarchi degli ultimi anni?
 Se l’Italia, infatti, merita ed ha avuto l’apprezzamento internazionale per le operazioni messe in campo, da Mare Nostrum a Triton, non possiamo non sottolineare il sostanziale fallimento di un sistema di accoglienza che non produce integrazione ed inclusione ma solo ghettizzazione e stazionamento involontario di tanti migranti economici che, di certo, non desiderano l’Italia come loro meta di approdo ma che vi sono costretti dalla chiusura delle frontiere dei paesi del Nord Europa.
Che senso ha, infatti, l’accoglienza sine die di migliaia di giovani africani alla ricerca di un futuro migliore senza alcuna politica seria di inclusione nel tessuto sociale del paese di approdo? Come si può parlare di comprensione reciproca e di reciproco aiuto senza percorsi di insegnamento della lingua e della cultura del territorio d’accoglienza? Che scopo ha – ed ecco che ritorna l’estremismo umanitarista –intendere eccezionalisticamente i migranti come esperimenti umanitari,  privi di forme, documenti, diritti e doveri comuni, suscettibili solo di una tutela senza sbocchi e prospettive, buona solo per soddisfare – sempre a distanza comunque – un certo pregiudizio occidentale che, sempre più affinato, non è semplicisticamente escludente ma, appunto, umanitariamente ospitale ma non davvero inclusivo, non paritario?
Ed allora, ben vengano le regole, ben venga la distinzione tra Ong che davvero intendono salvare vite umane in pericolo e quelle che ideologicamente si considerano “terze” in un conflitto raccontato come epocale tra le sponde del Mediterraneo, hanno deciso di creare un vero e proprio corridoio umanitario illegale, un percorso taxi ben oleato, che ha l’unico scopo di traghettare - quasi a titolo risarcitorio - masse indistinte dal Sud al Nord del Mondo?
Ed attenzione, davvero i corridoi umanitari legali sono necessari, davvero debbono sempre più accompagnarsi ad una rinnovata e potenziata cooperazione internazionale che aiuti le economie dei paesi del terzo e del quarto modo, davvero l’Europa dovrebbe ripensare in senso più liberale e concorrenziale le proprie politiche agricole ed aprire il proprio mercato – iper protetto ed escludente – ai prodotti esteri, davvero la retorica razzista dei tanti demagoghi in campo dovrebbe cedere il passo alla comprensione del fato che le battaglie idiote contro l’olio tunisino o le arance marocchine non fanno  altro che acuire la disperazione di economie in crisi che necessitano, invece, di essere coinvolte nei processi di consumo delle economie più ricche. E posto ciò, la risposta civile e giuridicamente più sensata alla crisi migratoria in atto non può essere l’arrendersi all’ideologismo irresponsabile di chi interpreta il “non governativo” come anarchismo rivoluzionario, di chi sconosce volontariamente la differenza tra terra e mare, tra confini, limiti e diritti, di chi bolla come borghesi e classisti i diritti contrattuali e sociali, le forme comuni che “tutelano” la presenza produttiva e riconosciuta come legittima degli stranieri “occupati” nel nostro paese e che hanno conquistato con il sudore e l’impegno il proprio permesso di soggiorno, la propria carta di lungo periodo, la propria cittadinanza italiana.
Solo ritornando ad una ordinaria dinamica non eccezionalistica ed ordinata del flusso migratorio, solo scardinando le dinamiche malate di un accoglienza presso hotel e residence in crisi in cerca di denaro pubblico e, spesso, attraenti gli appetiti del crimine organizzato, si potrà davvero portare a buon fine il progetto di uno ius soli temperato e di uno ius culturae che apra definitivamente le porte del Paese a nuovi cittadini nella piena titolarità dei propri diritti civili.


Enzo Musolino

giovedì 17 agosto 2017


“IN GOD WE TRUST” ED IL FRAINTENDIMENTO DELLA TEOLOGIA POLITICA

                Il recente articolo di Civiltà Cattolica - Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico, un sorprendente ecumenismo (http://www.laciviltacattolica.it/articolo/fondamentalismo-evangelicale-e-integralismo-cattolico/)   – scritto a quattro mani da padre Antonio Spadaro, direttore della rivista dei gesuiti, e dal pastore presbiteriano Marcelo Figueroa, direttore dell’edizione argentina dell’Osservatore Romano, assesta davvero un duro colpo all’esperienza religiosa contemporanea in America.

                L’articolo, che ha avuto un’immediata diffusione ed è stato ed è oggetto di plurimi e diversi commenti anche oltreoceano, concentra la sua critica sull’influenza della religione nei processi politici, sull’individuazione del nemico pubblico, attraverso la rappresentazione esemplare del “manicheismo” dei presidenti Bush e Trump.

                Gli autori sembrano contestare, in fondo, la possibilità stessa di una teologia politica in ambito cristiano e – pur non citandolo espressamente – utilizzano le riflessioni di Erik Peterson  contenute nell’ormai classico “Il monoteismo come problema politico” (1935), saggio scritto in risposta polemica, appunto, alla “Teologia Politica” di Carl Schmitt (1922).

                Secondo tale impostazione una teologia politica in ambito cristiano non sarebbe possibile, non sarebbe “ortodossa” in quanto è l’escatologia, il Regno di Dio, lo schema teologico proprio che guida l’impegno storico dei cristiani. Un Regno evidentemente intraducibile in ambito mondano, che  anzi lo sconfessa  e che, come tale, non può legittimare alcun potere costituito.

                Tale approccio, profondamente legato al  puro teologico, è poi davvero così neutro come appare?

                Gli escatologici ortodossi che si oppongono al semplicismo apocalittico degli americani – tanto degli evangelici “fondamentalisti” quanto  dei cattolici “integralisti”  impegnati  nella narrativa del conflitto e della “guerra spirituale”  - sono davvero impolitici? Sono davvero lontani dalle decisioni contingenti sulle res mixtae, sulle innumerevoli materie e terre di confine tra fede e politica?

                Ed è davvero credibile un disimpegno civile della sfera religiosa e del suo contenuto pubblico ed universale fino all’estromissione – attraverso la retorica del dialogo e della diplomazia che “non vuole dare ne’ torti ne’ ragioni”- dello stesso concetto di avversario della fede?

In realtà – ed occorrerebbe avere il coraggio di rivendicarlo – i gesuiti, ed anche e ad un livello diverso il Papa, prendono continuamente parte nell’ambito dei principali dossier  teologico politici   contemporanei: dalla battaglia spirituale in atto tra secolarismo e fideismo, allo scontro tra cristianesimo, neo paganesimo e nichilismo fondamentalista.

Nel concreto e pragmaticamente la Chiesa, oggi come nel passato, sceglie e decide perché – da San Paolo in poi – è conscia che questi in corso non sono gli Ultimi Tempi ma solo i Penultimi e che occorre viverli pienamente, senza cedere al risucchio  escatologico e al disimpegno fatalista perché – come aveva da ultimo ben intuito Bonhoeffer   i cristiani che stanno sulla terra con un solo piede, staranno con un solo piede anche in paradiso”.

La teologia politica del papato di Francesco, ad esempio, è assolutamente aderente a quella dei suoi predecessori novecenteschi e si basa essenzialmente sulla desacralizzazione del potere mondano, sulla sua riduzione a servizio per il bene comune, rigettando le tentazioni gnostiche di edificazione d’un paradiso in terra, di una qualche forma di regno pacificato dei giusti.

                Ora, se ciò emergesse in maniera più limpida ed il coinvolgimento tra teologia e politica accettato per quello che è: un elemento naturale ed imprescindibile delle dinamiche storiche anche contemporanee, allora – aldilà della colta retorica purista di Civiltà Cattolica – affiorerebbero più evidenti le aporie di un approccio teopolitico legittimo ma criticabile che - sottodimensionando il ruolo morale e politico d’influenza e di interconnessione  pubblica della Chiesa anche in Europa (davvero insostenibile, poi, nell’Italia che vede addirittura ancora oggi un poderoso intreccio economico tra Stato e Chiesa, attraverso il meccanismo fiscale dell’8 per mille) - sbaglia obiettivo polemico e avversario prendendosela con l’ecumenismo militante americano.

                Infatti, l’antiamericanismo di fondo e la poco argomentata critica alla “libertà religiosa”  – vissuta in realtà in America dai tanti attori religiosi come un vessillo che, spesso, nel solco della complessità arricchente e non solo dell’ottuso manicheismo, viene tradotta come libertà di professare una religione nella religione – rischia di confondere i cristiani europei già profondamente compromessi in un processo di secolarismo annichilente e di declino e che, invece, avrebbero davvero bisogno di assorbire quell’ottimismo, spontaneità e “prosperità” d’approccio che gli autori dell’articolo, invece, sembrano aristocraticamente rimproverare agli americani.

E se è vero che certe tendenze apocalittiche evangeliche e l’imminente attesa di un Armageddon, di una resa dei conti epica e finale tra bene e male, risultano evidentemente grossolane e riduzionistiche, non si può onestamente giungere ad affermare che esista una stessa fonte culturale che abbevera tanto l’immaginario degli jihadisti, dei taglia gole, che quello dei telepredicatori  della “destra” conservatrice alle prese con il marketing religioso.

                E ciò perché se è vero che la rappresentazione di un Trump “neo Costantino” chiamato a difendere l’Occidente sotto attacco è quanto mai         ridicola, è pur vero – ed è bene asserirlo – che il linguaggio forte e religiosamente orientato di Reagan  contro l’impero del male (inaugurato con il celebre discorso agli evangelici dell’8 marzo 1983) seppe interpretare in funzione liberante le tante energie concusse dell’Est europeo; energie “religiose” che l’ateismo di Stato e l’indifferentismo morale aveva ridotto nelle catacombe senza però riuscire ad estinguere la chiara individuazione – tra i perseguitati – “di ciò che è bene e di ciò che è male”. Ora, tale complessità, purtroppo, viene artificiosamente negata nell’articolo in questione e, proprio per questo, la stessa libertà religiosa in America viene completamente fraintesa.

                Una libertà religiosa che non può essere ridotta –come fanno gli autori – a pericolosa “religione in libertà” che sfida la laicità dello Stato e ciò perché – e da ultimo è stato Dario Antiseri a ricordarcelo nel suo ultimo saggio – la laicità dello Stato è propriamente una “invenzione cristiana” e  solo il Dio della Bibbia e del Vangelo relativizza davvero il potere politico – smitizzando ogni Cesare – e  desacralizza  la natura, svuotandola di idoli e miti, per renderla pronta al libero intervento umano, all’indagine scientifica laica, appunto, e libera dai timori reverenziali e fatalisti di animisti e conservatori.

                Se non l’ecumenismo americano quale, dunque, il nemico? L’hostis humani generis contemporaneo? Quale il vero e pericoloso obiettivo polemico completamente  sottovalutato da Civiltà Cattolica? È davvero il nichilismo islamista il problema teologico politico contemporaneo! E’ lì che propriamente alligna lo gnosticismo giustizialista che intende – avversando ogni modernità, laicità e relativismo occidentale – realizzare se non proprio una teocrazia escludente (come per il califfato nero dell’Isis) almeno una democratura illiberale (come per il sultanato di Erdogan) fondata sugli istinti identitari e difensivi  di chi si sente aggredito dal progresso spirituale e civile.

Per tutto questo, a mio parere, l’articolo del padre gesuita e del pastore presbiteriano sbaglia bersaglio, confonde amici con nemici e non rende giustizia al variegato e vivacissimo spirito religioso americano, il cui magari ingenuo “Vangelo della prosperità” non può essere confuso con le bandiere nere dell’odio e della misoginia barbara.

                Insomma, dalla “Democrazia in America” dell’europeo Alexis de Tocqueville ne è passata di acqua sotto i ponti (1835/1840) ma conviene ancora oggi rifarsi a quella analisi per tentare di cogliere attraverso l’acutezza di un approccio schiettamente liberale - per molti versi purtroppo negato dall’articolo in questione – quel peculiare liberalismo sostanzialista e “religioso” d’America che ha ancora tanto da insegnarci.

 

Enzo Musolino

IL LIBERISMO FILOSOFICO DI CARLO ANTONI


“Carlo Antoni, un filosofo liberista” è il bel saggio, edito da Rubbettino, di Francesco Postorino, Ph.D in filosofia politica e morale, che tra Reggio Calabria e Parigi ha approfondito il pensiero di un vero e proprio Carneade della filosofia politica italiana novecentesca che, dagli anni 40 alla fine degli anni 50, ha dato corpo ad una originale interpretazione progressiva e liberante del liberalismo e del liberismo, purtroppo poco nota. Riflessione che lo inserisce a pieno titolo in quella corrente culturale minoritaria e vivacissima della temperie liberale che da Salvemini giunge a Marco Pannella. E proprio del partito radicale di Mario Pannunzio il triestino Carlo Antoni fu uno dei fondatori, aderendo alla diaspora di sinistra del partito liberale (ri)fondato da Croce.

E Croce fu il maestro cui Antoni riconobbe, tra l’altro, la specificità di uno storicismo politico che aveva essenzialmente il senso di depoliticizzare, demitizzandola, la trascendenza e l’utopia  astratta - e per alcuni scientifica - capace solo di asservire le libere dinamiche dello spirito umano – e, quindi, del reale – ad un progetto, ad una pianificazione “intelligente” che prometteva la realizzazione di un prossimo paradiso terrestre, scevro dai conflitti e dall’alea della contingenza politica ed economica.

È evidente che tale prospettiva filosofica e di metodo, contrapposta al sostanzialismo del Volk, della Nazione, della Classe, non poteva che sorgere dal’alveo di quel liberalismo – sia continentale che anglosassone - che all’ideologismo prometeico ha sempre contrapposto quelle ignoranze epimeteiche riassunte in criteri quali l’eterogenesi dei fini, il risultato pubblico ed inintenzionale delle azioni private intenzionali, la sempre possibile revocabilità delle scelte, la narrazione di una “mano invisibile” operante nel mercato non come provvidenza che tutto sistema dall’esterno ma come spontaneo risultato soddisfacente per tutti che viene generato dallo scambio, dal contratto, dalla cessione e dall’acquisto che crea valore e crescita.

Ma lungi dall’accontentarsi della mera e pacifica osservazione compiaciuta del reale coinvolto nel passaggio storico dal bene al meglio, Antoni, figlio del Secolo Breve e delle sue tragedie dissacranti, fa un passo avanti o, meglio, come ci suggerisce l’acuto Postorino, un passo indietro, quasi genealogico – e qui sta la radicalità dell’approccio – riscoprendo Kant ed il suo dover essere, in modo da arricchire l’approccio storicista con il valore liberante della scelta responsabile e decisiva di un Individuo che ritorna al centro della politica. In questo contesto ideale si comprende bene come il suo liberismo economico – sempre contrapposto alla potenziale via della schiavitù insita nel collettivismo – possegga una profondissima carica etica concentrata, appunto, nel rifiuto di ogni agnosticismo ed indifferentismo e mobilitato da una coscienza sempre improntata – senza garanzie veritative e senza paracadute religioso – a risolvere la frattura moderna tra Sein e Sollen, tra essere e dover essere, con l’impegno vivo per la libertà e la democrazia.

Per tutto questo fu naturale per Antoni, nel tentativo di combattere la fuga retriva di un partito liberale sempre meno crociano ed ormai avviato in una politica di mera conservazione di privilegi, optare per il partito radicale di Pannunzio e degli intellettuali raccolti sotto l’egida del Mondo; fu, in breve, il peculiare tentativo – insieme a quelli già tentati, uguali e diversi, di Salvemini, di Gobetti, dei fratelli Rosselli, di Ernesto Rossi ma anche di Calogero, di Sturzo, di Röpke e di Adenauer – di strutturare anche filosoficamente una terza via che sapesse vivificare la complessità della paradossale esperienza umana, sempre in bilico tra vocazione giusnaturalistica, afflato morale e concretezza storica. Una terza viaper altri versi ma non in maniera così distante successivamente incarnata tanto dall’eterodosso Pannella che dall’eretico Blair alle prese con i totem del vecchio labour – che è sempre stata combattuta aspramente, in tempi differenti, e, forse, anche oggi, dalle chiese politiche in campo, da chi ha sempre temuto la concorrenza destabilizzante del pensiero libero e pragmatico tanto nel mondo operaio che il quello borghese.

Non per caso nel leggibilissimo saggio di Postorino è richiamato un carteggio del 45 tra Croce ed il liberal-socialista Guido Calogero impegnato con il Partito d’Azione, in cui il filosofo della Religione della Libertà rimproverava a Calogero la “formula oscura”, appunto, dell’ossimoro proprio della terza via, invitandolo a non occuparsi di liberalismo ma di agire solo “per restaurare ed ammodernare il socialismo riformista”; più o meno con la stessa incomprensione interessata verso le opzioni terze e libere -  con riferimento al 1957, ad un anno quindi dalla fondazione del Partito Radicale – Eugenio Scalfari (allora tra i giovani fondatori del PR) ha raccontato qualche giorno addietro su Repubblica, nell’occasione di un articolo in ricordo di Alfredo Reichlin, di un incontro personale con Togliatti durante il quale il Capo dei comunisti italiani gli chiese, appunto, della collocazione della nuova forza. A fronte dell’orgogliosa rivendicazione d’essere “liberali di sinistra”, il Migliore non ebbe dubbi a troncare lo spirito kantiano ed innovatore del giovane Scalfari: “l’alleanza con i socialisti è anomala” perché – disse - gli stessi, nell’ambito di un approccio classico, dovevano comunque continuare a rappresentare, pur in modo diverso dai comunisti, una sinistra strettamente marxista chiamata nei momenti fondamentali a fungere da alleato stabile per il partito rivoluzionario.

Quanto gli approcci ortodossi su rappresentati abbiano concorso – insieme al destino “centrale” e senza alternative democratiche della DC al rallentamento del progresso politico italiano lungo la direttiva della libertà e della giustizia, non è oggetto del saggio su Antoni qui presentato ma uno dei tanti interrogativi arricchenti che da queste pagine paradossali e feconde promanano.

 

ENZO MUSOLINO

 

 

 

IL SENSO DI OCCIDENTE: “OCEANIA” … LA FURBIZIA DISNEY, LA SCIENZA PIXAR, L’ANIMA MANGA 

E’ stata mia figlia Alice ad accorgersene dall’altezza magica dei suoi sette anni di vita e, quindi, di vera e ‘nativa’ cultura Anime: alcuni disegni di Oceania della Disney-Pixar risentono felicemente dell’influsso del maestro dei cartoons giapponesi, Hayao Miyazaki .

Sia l’immagine dell’Oceano vivente che assume le forme di onde antropomorfe e partecipi della vita degli umani, sia la forza primigenia della Dea/Madre/Creatrice che atterrisce e protegge allo stesso tempo, che è inizio e fine della Storia.

Forme e messaggio, dunque, assorbite dalla letteratura nipponica, da una letteratura che, a sua volta, si è spesso interfacciata con le fantasie occidentali, con i voli pindarici di uno “straniero” presto assimilato in quanto portatore, in fondo, di istanze universali. È ciò è vero quanto è vero il fatto che Mihazaki – per dirne una - ha dato nome Ghibli alla propria celeberrima casa di produzione cinematografica proprio perché “Ghibli” è il nome che, durante l’ultima Guerra Mondiale, i piloti italiani in Nord Africa diedero ad un vento caldo proveniente dal Deserto del Sahara, e fu anche il nome usato per indicare i loro aeroplani da ricognizione.

In fondo, anche questo è Occidente: la capacità, la volontà di un interfacciarsi reciproco goloso di novità, pronto al furto ma anche vittima di feconde spoliazioni; spesso inintenzionale terreno di nuove germinazioni per il lavoro oscuro di estranei, appunto, divenuti prossimi, amici.

Ed è per questo che il nazionalismo è davvero la malattia d’Europa e d’America, un virus oggi, di nuovo, endemico che, però, tale rimane: un corpo estraneo e di successo incistato su uno spirito, al contrario, aperto: felice e storica coniugazione di Terra e Mare, di conquiste fatte e subite.

Non per nulla l’universalismo ha patria qui … e non penso solo ai mitici principi della rivoluzione francese ma all’universalismo Romano, a quello della Chiesa, alle rivoluzioni della libertà inglese e statunitense. In tale contesto, infatti, che senso hanno i muri? Il filo spinato? L’argine tragico e ridicolo ad un movimento popolare che è sempre biunivoco e che, come tale, porta sconfitte ma anche vittorie, contaminazioni ed assimilazioni per lo più arricchenti, sempre incidenti, in questo caso come “proprio”, su uno spirito (che è quello di Ulisse) in movimento, mai pago delle assunzioni tradizionali, delle terre per ora emerse. Così, da questo spirito Nietzsche ne trasse la considerazione secondo la quale non sarebbe lecito derivare dall’arresto, dall’appollaiarsi stanco del ‘vecchio’, la conseguenza che non c'è più nulla dinanzi, nessuna immensa, libera via, che si è giunti  tanto lontano quanto è possibile volare: per fortuna altri uccelli voleranno oltre!

Come Il gabbiano Jonathan Livingston, ad esempio, paradigma di un volo – come quello di Ghibli - e di un’azione che va oltre la necessità, oltre la fame e la sazietà e che è solo declinabile come libertà, ricerca e scoperta, anche dell’altro, del diverso, del possibile conquistatore che allo stesso tempo è da sempre conquistato, anche quando attacca, anche quando terrorizza e contesta … perché il colpo di coda del drago, la freccia del Parto, è sempre il pericoloso ultimo atto dello sconfitto dalla Storia, di chi è superato intimamente da un cultura che è sempre più globale, sempre più liberante.

Per questo Trump ed Orban non sono autenticamante Occidente, per questo Václav Havel - vero katechon (l’argine all’anomia di cui parla San Paolo nella seconda Lettera ai Tessalonicesi) liberal democratico - dopo avere sconfitto il comunismo russo non si arrese al nazionalismo ceco e slovacco e lottando come un leone vide sfaldarsi in un nuovo Oriente identitario e di caste l’afflato di una Praga capitale europea etica più che etnica.

Tornando ad Oceania, i puristi sottolineeranno la copiatura, stigmatizzeranno il furto e l’illegittima rielaborazione – come anche in passato per il Re Leone Disneyano  e il Kimba, Leone Bianco, celebre anime degli anni 70 – ma che senso ha? Che senso ha la primogenitura? L’ordine temporale in una contrapposizione eterna, quella tra Occidente ed Oriente, che diviene (da sempre) futuro di meticciato e possibilità nuove solo quando si aprono le terre di confine, si temperano i dazi, crollano i muri dell’indecifrabilità di quelle res mixtae che sono, soprattutto, indecidibili, come il plagio del plagio o la novazione terza.

Certo, c’è il terrorismo, c’è la rivolta degli accolti, dei ghettizzati per umanitarismo e spoliazione, dei privati di cittadinanza borghese ed assurti al paradiso infernale delle protezioni internazionali, di un diritto “umano” che toglie prima di dare, che pareggia ogni asperità come ogni speranza di veri diritti e veri doveri: quelli che sorgono dal contratto, dal lavoro, dalla proprietà, da quella Società Aperta che è la vera eredità di Occidente, il vero sogno del Sud del Mondo, l’incubo crociato dell’Oriente estremista.

A questo terrore non si può che opporre Oceania: la furbizia Disney, la scienza Pixar, l’anima Manga, la nostra cultura bastarda, il sogno oceanico, appunto, di un mondo nuovo perché davvero antico, tanto da confondere il piano dei ricordi, tanto da rendere possibile l’invenzione dell’inatteso e del meraviglioso, senza il conflitto sterile del prima e del dopo, di una cronologia assurda nell’ambito di un eterno Occidente che lascia la sicurezza ctonia della terra di mezzo per divenire tutt’insieme “pirata” e fattore di libertà.

 

Enzo Musolino

Le opzioni terze che vivificano la politica

È dall’inizio della sua attività politica che Arnold Schwarzenegger incarna - non  solo in California -  i valori di un conservatorismo di buon senso aperto al libero mercato, alla globalizzazione ed allo stesso tempo decisamente schierato nella lotta contro la devastazione ambientale ed i cambiamenti climatici prodotti dagli insediamenti industriali e dall’inquinamento in genere.

Tale feconda e complessa peculiarità d’approccio, senz’altro non banale, ci fornisce un importante esempio del fatto che ci sono due destre politiche in America, due destre in Francia, due o tre in Italia; diverse modalità, cioè, di interpretare gli ideali e gli obiettivi di quella vasta area che non accetta la narrativa progressista e che oscilla tra ortodossia ed eresia, tra tradizione e riformismo, tra popolarismo e deriva populista.

E se Schwarzenegger tenta – anche attraverso l’uso mediatico della sua sintonia con il liberale e riformista Macron -  di attualizzare i fasti di quella tradizione reaganiana e thatcheriana che diede vita, negli anni ’80 del Secolo Breve, a quella politica innovatrice ed aperta che ha governato l’ultima fase della terza rivoluzione industriale, quella informatica; le resistenze di Trump, invece, il suo protezionismo, le mura alzate contro persone e merci, rappresentano una destra diversa – e al momento di successo – che si fonda – contro gli assiomi della Società aperta - sulla difesa autistica di un fortino identitario escludente quanto, in vero,  inesistente, posto che è il proprio dell’America essere una contraddizione feconda e critica di “nature” in bilico.

Trump, dunque, si pone ideologicamente contro quella su citata tradizione conservatrice e liberale che, per altro, così fortemente si oppose alla teologia politica sovietica, attraverso la rappresentazione di una religione civile ottimistica e vincente tutta improntata sulla superiorità etica dei propri valori.

E non è un caso che il trumpismo sembra subire, invece, il fascino autoritario del Capo, che ammiri Putin, che si sforzi di rappresentare un’esigenza forte ma atterrita di sicurezza, di tutela padronale, cui offrire come risposta: ricette semplici, decreti inappellabili, nemici facilmente individuabili.

Un modello politico, quindi, intrinsecamente illiberale che sembra riportarci ideologicamente all’alba della Modernità, alla necessità - a fronte del caos di conflitti religiosi destabilizzanti - di proporre in chiave difensiva il principio dell’Unità Politica e, quindi, della critica ad ogni potere sociale intermedio ed indiretto qualificato – solo in quanto portatore di analisi, di diversi interessi ed esprimente complessità - come pericoloso e destabilizzante (in fondo questa è la lezione di Hobbes).

Un neo centralismo – di certo non solo americano – refrattario al controllo giornalistico, accademico, sociale o giurisdizionale; e tornando agli U.S.A. – Paese di common law -  ciò chiarisce bene come l’opposizione alla verticalizzazione del potere, al suo accentramento decisionista (pensiamo alle decisioni federali prese in materia di ingresso selettivo degli stranieri od in tema di accordi internazionali per la tutela ambientale) non sia solo la reazione stizzita contro le bizzarrie di un presidente per sua natura divisivo ma coinvolga, invece, il nucleo del sistema americano: il valore del precedente nel caso concreto analogo, la consuetudine dell’approccio normativo rispettoso dell’autonomia, dell’autogoverno delle Comunità.

Sono, in fondo, due culture giuridiche che continuano a scontrarsi: una basata sull’evoluzione spontanea di comunità storicamente temprate dalle tante assemblee e dai referenda, il celebre sistema del Town Meeting - inteso come forma di governo democratico diretto - che ha contribuito alla ricca complessità del diritto in America, l'altra, invece, più propriamente statalista, incentrata sul ruolo escludente dell’unica fonte di diritto davvero decisiva, quella basata sull’intervento apicale, normativo e cogente ... senza eccezioni. In mezzo una Costituzione snella, edificata sulla libertà e la felicità pubblica e con un controllo di costituzionalità delle leggi diffuso tra tutti i giudici e non solo in capo alla Corte Suprema.

“Savigny contro Hegel” in America, dunque: lo storicismo giuridico che fa del moto sociale spontaneo la vera fonte del diritto (l’evoluzione lenta e condivisa di uno stare insieme peculiare e sempre aperto sul baratro del caso concreto e dell’eccezione)  avverso lo statalismo giuridico che lega senza cesure legittimità a legalità, realtà e razionalità che sembrano conciliarsi nell’autorità del potere costituito.

In sintesi, polarizzando l’analisi sui due “campioni”  Schwarzenegger e Trump, sono due conservatorismi a confronto, due destre mai così distanti come oggi e che, come tali, si appellano – dialetticamente – a due altrettanto diverse sinistre, interpretate come avversarie e, quindi, specularmente intese e riconosciute come  privilegiate antagoniste in un quadro politico unitario.

E la sinistra che “fa comodo” a Trump o, per altri versi, al neo isolazionismo britannico della sig.ra May, è quella ideologica, anch’essa per nulla liberale e contraddittoria, impegnata nella traduzione contemporanea dell’idioma marxista, nel senso neo ideologico di un laburismo nazionalista, protezionista e difensivo. Pensiamo alle feroci critiche del “socialista” Sanders contro la Clinton sostenitrice della globalizzazione impoverente e schiavizzante, o, ancora meglio, ricordiamoci del Corbyn sostanzialmente pro brexit alle prese con l’evocazione delle paure “contrattuali” contro la concorrenza degli operai esteri. E come non citare, ancora, il neo luddismo sinistroide nemico della tecnologia e della rivoluzione robotica in atto, rassegnato ad un futuro distopico fatto di “senza lavoro” questuanti il reddito di Stato?

È fumo negli occhi di questa destra, invece, il liberalismo sociale e globale di Macron e – con tutte le differenze nazionali del caso – quella cultura liberal democratica e liberal socialista che non si arrende al declino romanticamente evocato dai populisti – novelli Splenger – alle prese con la rappresentazione apocalittica di un ultimo stadio, di un inverno del mondo inevitabile, cui i progressisti, pur coi limiti evidenti, continuano per fortuna ad opporre “razionalmente” la fiducia e l’ottimismo orgoglioso per la capacità di diffusione e di miglioramento di quelle libertà personali e sociali che sono il frutto più importante dell’Occidente. E lo stesso vale, a parti invertite, si intende, per la sinistra o, per meglio dire, per certa sinistra: è il becero lepenismo razzista, il rozzo identitarismo padano, il gretto qualunquismo della ho-ne-stà – ho –ne-stà urlata contro gli avversari come una clava mediatica, che “fa comodo” a chi coltiva l’illusione della differenza ontologica, della correttezza “scientifica” del proprio approccio ideologico;  ad una sinistra, quindi, anch’essa impegnata a rinserrare i rassicuranti ranghi identitari contro i barbari alle porte.

Mentre è fumo negli occhi lo Swarzy con la Hammer ad idrogeno e paladino del risparmio energetico, fumo negli occhi la Merkel post ideologica che apre ai matrimoni gay. E tutto ciò perché l’alternativa in campo “sorprendente” perché complessa, pragmatica, non chiaramente etichettabile, è fonte critica di cambiamento al proprio interno, muove al difficile - ma necessario - riposizionamento degli assunti ideologici, alla messa in discussione dei propri assetti.

Sono le opzioni terze che innovano la storia politica, che le danno slancio e novità, che vivificano le tradizioni, che offrono nuove prospettive; sono quelle felici eccezioni e ripartenze – penso all’avvento dei “professorini” democristiani, all’autonomismo craxiano, all’approccio radicale di Pannunzio, di Pannella e Rodotà, ma anche al primo Berlusconi, al primo Prodi, al primo Renzi ed oggi a Macron – che concretano il riformismo, che iniziano il futuro.

 

Enzo Musolino

TRA LE ANALISI POST REFERENDUM:

IL TRIONFO DEL “POLITICO” E LA SUA NEUTRALIZZAZIONE 

La politicizzazione del referendum costituzionale, il livello dello scontro e gli esiti certamente trascendenti il merito del quesito, ci aiutano a dirimere una serie di fraintendimenti circa l’esercizio del voto e a superare una interpretazione “negativa” delle consultazioni referendarie, intese come estremamente divisive e, per ciò, pericolose.

In sintesi, ciò che viene in gioco nell’esercizio della scelta pubblica è il livello genealogico della politica, quel “prima” dei progetti e dei programmi concreti che possiamo ben definire, sulla scorta dello Schmitt ancora alla prese con la difesa di Weimar,  il “politico”, l’associazione/dissociazione “amico-nemico” che determina i singoli a prendere parte, a lottare, a discriminare tra il buono per sé ed il proprio gruppo e le opzioni “altre”.

All’interno dell’ambito dello Stato di Diritto e sotto l’ombrello di una Costituzione (allo stesso tempo intesa come  patto fondativo e custode cristallizzato della forza dirompente del potere costituente)  siamo tutti  – fortunatamente – abituati ad obliare questo livello genealogico, questo eccesso conflittuale che precede ogni statuizione normativa e che possiamo intendere anche  come eccezione cui occorre dare ordine, pena il conflitto perenne.

Ebbene, però, proprio le occasioni elettorali più intense ci riportano a questo livello primigenio, scoprono le criticità, la tragicità irriducibile a pacificazione definitiva e tombale che sussiste come fondamento instabile del nostro “stare insieme”. Quelle vere e proprie contrapposizioni esistenziali, di stili di vita, di caratteri, di prospettive, di coscienze, che sono il magma politico che agisce in maniera centrifuga per la differenziazione, la frammentazione, la partigianeria settaria ed escludente.

Solo l’accettazione delle “regole del gioco” – nel nostro caso per fortuna liberali e democratiche – consentono di neutralizzare, dopo l’esercizio del voto, all’atto della giuridificazione del risultato, il sempre possibile esito ultimo dello scontro pubblico che, in assenza della mitigazione del “giuridico”, può giungere all’annientamento.

Essere, quindi, consci dell’infondatezza ontologica della politica moderna, priva, cioè, dell’aggancio veritativo in un trascendente legittimante il Potere, significa, allo stesso tempo, essere consapevoli della fragilità della libertà, della solitudine senza garanzie delle scelte umane ma anche dell’acquisizione più importante dell’intero pensiero politico occidentale (sempre contraddetto e sempre riaffermato): il rigetto della sacralizzazione idolatrica delle opzioni politiche, l’abbandono laico del piano dello scontro fondato su categorie escludenti quali Verità, Giustizia, Eresia, il diniego dell’identificazione medievale dell’avversario come hostis humani generis.

Tutto ciò, almeno, fino ad oggi o, meglio sarebbe dire, fino a ieri, fino al paradossale risorgere post moderno – una volta sconfitta l’ubriacatura ideologica del Secolo Breve ma anche abbandonata l’illusione successiva della “fine della Storia” - di una sorta di orientalizzazione dello scontro, obliante la dignità e la libertà altrui, che chiamiamo populismo ma che sarebbe più corretto individuare quale riteologicizzazione del politico, quale sacralizzazione delle proprie acquisizioni partigiane.

E proprio la consapevolezza dell’ulteriore rafforzamento di tali posizioni a seguito della vittoria del No grillino, spinge, a mio parere, tutta l’intellighenzia professorale della sinistra extra PD a negare – in un comprensibile esercizio di rifiuto autoassolvente e deresponsabilizzante – il significato eminentemente politico della battaglia appena passata.

E così ci è toccato di ascoltare anche l’analisi secondo la quale la stragrande maggioranza dei tanti votanti, dei tanti “nemici politici” di queste riforme, ritornati alle urne dopo anni di astensionismo, lo abbia fatto solo dopo l’attento studio comparato dei due testi a confronto, dopo una esegesi giocata sul bilancino accademico degli articoli pro e contro.

Evidentemente, nulla di più falso!

Tanto il variegato fronte del No (irriducibile ad unità intesa come alternativa di Governo) quanto il fronte del Sì (con quel 40% legato alla figura tipica del premier rottamatore e riformatore) sono stati – come è giusto che sia – fronti politici anzi iper politici alle prese con il fondamento (da riscrivere parzialmente o da conservare tout court) della nostra democrazia.

In tali fasi tutto è in movimento e la tragicità del “politico” scuote l’abitudine dello status quo, della norma/normalità,  ma ciò non può atterrire fino alla negazione del “politico” stesso, pena la deriva amministrativa e tecnocratica della competizione pubblica, la sua depoliticizzazione che, in fondo, è sempre antidemocratica.

Per ciò, mentre i fautori del Sì, anche grazie all’atto chiarificatore di Renzi che sin da subito ha posto sul tavolo la posta in gioco, nei termini del rilancio dell’azione di governo o delle sue dimissioni, sono stati consapevoli delle ricadute politiche del loro sostegno, il fronte del No, soprattutto la sua componente sinistra, ha volontariamente obliato il senso della propria opposizione, anche dopo l’esito apparentemente favorevole. Con chiarezza, invece, si dovrebbe abbandonare, a bocce ferme, ogni finzione ed assumersi la responsabilità politica della scelta fatta e delle conseguenze insite, dunque, nella scelta – politica e non giuridica – di azzoppare un tentativo riformatore proveniente dalla propria storia – non perfetto di certo – ma, di certo, non autoritario, né lesivo del nucleo valoriale della Costituzione vigente.

E quali, dunque, le conseguenze che più che Renzi sembrano, oggi, “dimissionare” il Partito democratico?

Il rafforzamento della demagogia grillina, l’uscita dall’angolo del berlusconismo, la confermata lepenizzazione delle destre, il viatico rinvigorente fornito ad una certa leadership di una sinistra “senza popolo”, incapace del metodo liberale e che dà il meglio di sé nella cannibalizzazione dei propri capi pro tempore.

È ovvio che ciò sia difficile, che ci si rifiuti ad ammetterlo … ma tant’è: perché l’alternativa a quel 40% dei consensi governativi – e lo stiamo ben apprezzando in questi giorni con il rifiuto di tutte le opposizioni ad assumersi responsabilità di governo – non sarà una nuova e migliore stagione riformatrice, né il trionfo del pragmatismo e del buon senso, né tanto meno la conferma del principio aureo della revocabilità delle scelte, ma la strutturazione illiberale di uno o più fronti demagogici, antiscientifici, “nemici” del principio di precauzione ed irresponsabili economicamente e socialmente.

Ed al mantra renziano del Jobs Act (comunque insito nel pensiero liberale) dovremmo presto abituarci alla retorica collettivistica del reddito di Stato, alla linguistica di una nuova ed infausta Rivoluzione Conservatrice.

 

Enzo Musolino

 

 

IL LAVORO OLTRE IL DIRITTO DEL LAVORO: LA DIALETTICA TRA LIBERTA’ E DIGNITA’ 

Tra i tanti problemi che sono anche opportunità di cambiamento legate all’immigrazione in Italia, emergono quelli attinenti le condizioni di lavoro dei tanti impiegati stagionali  nelle nostre campagne, da Bolzano alla zona della Franciacorta, dal basso bresciano, agli agrumeti siciliani.

Negli ultimi anni le notizie hanno spaziato dai casi di lavoratori morti letteralmente di stanchezza sotto il sole, alle proteste in piazza contro il razzismo, alla ‘reazione’ confusa di tanti cittadini italiani alle prese con una presenza percepita come estranea. Da ultimo, qualche settimana addietro, un immigrato africano morto a Rosarno in Calabria, vittima di un sistema di lavoro e di accoglienza che non vuol davvero fare i conti con la realtà. Di certo, il pur scarso dibattito pubblico sul tema è viziato alla radice se ci si concentra – come nel casi di Rosarno - sulla legittima difesa o meno del carabiniere che, per evitare l’ennesima pugnalata in testa, spara o sulla capacità/possibilità di integrazione stabile in Italia, in Calabria, di immigrati che non hanno per nulla intenzione di fermarsi da noi ma che esercitano un nomadismo da lavoro teso ad accumulare il più possibile per giungere, come meta finale, in Nord Europa.

Il tema, io credo, è squisitamente economico sociale – e, quindi, giuridico – e riguarda la domanda e l’offerta di lavoro nel comparto agricolo che avrebbe bisogno di norme più aderenti ad una realtà che spontaneamente si è andata a formare e non dell’imposizione sorda di un ‘dover essere’ ideologico che non risponde, probabilmente, all’interesse di nessuna delle parti in causa.

In tal senso, la questione di fondo è molto più complessa di quanto la pur apparentemente 'giusta' impostazione lavoristica di matrice classista  possa rappresentare; e ciò perché in questi casi non funziona la retorica manichea del tipo: bianchi/neri; proprietari terrieri/lavoratori; caporali/schiavi.

In realtà, ricette semplici non ce ne sono ed anche a tale livello del più generale problema della immigrazione in Italia , occorre offrire al pubblico dibattito profili di verità, pragmatismo e concretezza che sono obliati da una narrazione che oscilla tra l’accoglienza e la difesa tout court degli interessi di chi è rappresentato - spesso senza rendersi conto della ghettizzazione così operata – come resto economico, dalla parte sconfitta della Storia, materiale umano - e da “diritti umani”- spogliato da quei diritti e doveri contrattuali che richiedono sempre responsabilità individuale e che fanno del ‘lavoratore’ qualcosa in più di un semplice destinatario di sostegno sindacale e carità politica.

Quali, allora, i punti della questione:  1. i “neri” di Rosarno (come quelli pugliesi, campani, laziali o bresciani) hanno nella quasi totalità il permesso di soggiorno e per la massima parte sono avviati al lavoro con un contratto formalmente comunicato ai Centri per l’Impiego; il problema più grande, quindi, non è il lavoro nero ma quello grigio: paga a cottimo e orario legato all’obiettivo delle cassette da riempire per più guadagnare; 2. I fantomatici caporali (parliamo di intermediazione illegittima nell’offerta di manodopera così come sanzionata dalla Legge Biagi e di sfruttamento, mantenuto con violenza e minaccia, previsto dall’ art. 603-bis c.p.) sono quasi tutti neri – lo dimostrano i deferimenti all’autorità giudiziaria formalizzata dalle task forces, carabinieri, polizia ed ispettori del lavoro, operativi nei nostri territori – e si comportano da capibanda che organizzano le campagne agricole dei connazionali in tutta Italia, che prendono accordi con gli agricoltori e, a volte, direttamente con le organizzazioni criminali presenti nel territorio; 3. I neri, quindi, fanno sostanzialmente i nomadi, spostandosi nell’anno agricolo per partecipare alle diverse raccolte e, di certo, non vogliono  diventare  stanziali in Calabria od in Puglia e, per questo, non hanno interesse specifico ad una situazione abitativa che concepiscono come momentanea; 4. Il made in Italy agricolo si fonda su questo sistema fatto di basso costo del lavoro ed alta produttività; basta chiedere agli australiani (sono facilmente reperibili inchieste giornalistiche mirabili) che ci accusano di distruggere i loro raccolti, ad esempio  di pomodori, per il fatto che i nostri costano meno dei loro nonostante il trasporto per un intero mondo e, dopo oltre due anni di indagini, l’Australia ha deciso di imporre dei dazi antidumping alle aziende italiane produttrici di conserve di pomodori. L’accusa è che le nostre aziende sfruttano il lavoro non correttamente formalizzato dei tanti immigrati presenti nel territorio ; 5. I neri  non scendono in piazza per rivendicare i diritti sindacali – per altro poco congeniali al loro obiettivo teso alla massimizzazione del profitto – ma solo quando, come nel caso del brutto episodio che ha coinvolto un carabiniere chiamato a sedare una rissa nella tendopoli allestita come campo d’accoglienza, la autogestione del sistema viene turbata da una intromissione concepita come esterna ed illegittima. Ciò fa il paio con la bassissima collaborazione offerta agli organi di vigilanza in materia di lavoro e previdenza sociale, in quanto tale omertà è funzionale a non sconvolgere un sistema che - in qualche modo - è congeniale alle loro esigenze, mica vogliono fare famiglia a Rosarno!!!; 6. Le autorità, come abbiamo detto, stanno comunicando le notizie di reato per caporalato ma difficilmente i processi condurranno a sentenza posto che senza la collaborazione dei connazionali non si potrà provare lo stato di soggezione psicologica, di intimidazione  e di minaccia che è tipica della fattispecie e che, forse, non è presente nella maggioranza delle situazioni sociali emergenti.

A parte la delineazione dei precedenti nodi problematici occorre farsi anche una domanda precisa: La Ndrangheta, la Camorra, la Mafia c'entrano? Certo che sì! La criminalità lucra sui fenomeni non organizzati e legalizzati, costretti, così, a non emergere perché altrimenti oggetto solo di repressione e non di normalizzazione. Cosa fare allora? Di certo la soluzione penalistica manettara, come in altri casi peraltro, non appare la vera soluzione. Si dovrebbe gestire il fenomeno attraverso percorsi di emersione tesi a riconoscere le specificità delle raccolte stagionali – anche alla luce del peso economico gravante sulle aziende dai bassi prezzi imposti dalle multinazionali del settore -  e tutelare il nomadismo dei lavoratori, attraverso la gestione dignitosa, magari messa a reddito, dei centri di raccolta. Si tratterebbe, inoltre, di spingere le forze sindacali verso la stipula ci veri e proprie Contratti Collettivi di Territorio, capaci di disciplinare le specificità, anche salariali, delle diverse stagioni di raccolta. Ma per fare questo ci vorrebbe politica vera e non populistica, anche e soprattutto regionale,  e proprio qui casca l'asino e prolifera il malaffare; un malaffare che, alla lunga, non potrà che andare a danno delle nostre aziende agricole, sempre più abituate ad eludere ed aggirare le norme vigenti intuite come illegittime e vessatrici e, quindi, in ultima analisi, sempre più incapaci – anche e soprattutto per responsabilità pubblica - di normalizzare e programmare contrattualmente e legalmente la propria forza lavoro.

Su tale tema, da ultimo, sembra intervenire nella direzione auspicata il Governo che, attraverso la promozione e la stipula di un Protocollo Sperimentale contro il caporalato, firmato il 27 maggio 2016 anche dalle associazioni, dai sindacati e dalle imprese agricole, mira a riconoscere la specificità del settore e, aldilà della necessaria azione repressiva, tenta di coniugare libertà e dignità. Attraverso il sistema della bilaterlità, e, quindi, lascviando spazio all’autonoma organizzazione privatistica delle gestione, si promuove la conclusione di accordi tesi a risolvere la problematica del trasporto della manodopera da e verso i luoghi di lavoro. Si decide, inoltre, di dar vita a forme di intervento legali nel collocamento della manodopera, anche per mezzo di agenzie autorizzate e di sperimentare l’impiego temporaneo di immobili demaniali e di beni confiscati alle mafie per l’accoglienza dei lavoratori stagionali e per dar vita a presidi medico sanitari anche mobili in modo che sia assicurato l’intervento di prevenzione e di primo soccorso.

In estrema sintesi, l’unica strategia che potrà davvero essere efficace, anche esopratutto nell’interesse del made in italy agricolo e delle sue eccellenze, è quella – mai sperimentata fin ora – di favorire, promuovere e consolidare la libera e responsabile attivazione di una rete di interventi territoriali specifici da parte di tutti i soggetti interessati, in un’ottica di responsabilizzazione reciproca che non potrà, alla lunga, che passare attraverso anche la strutturazione formale di organi di rappresentanza endogeni all’interno del variegato mondo degli stagionali immigrati, anche attraverso il riconoscimento non umanitario ma contrattuale e civile di diritti economici e sociali di pari e non di paria.


Il Vangelo è socialista? Rileggendo Wilhem Röpke a 60 anni dalla morte e dalle battaglie di una vita intera spesa contro il collettivismo, a partire non tanto da considerazioni economicistiche ed utilitariste ma da un approccio schiettamente etico ed umanitario, l’attualità di questa domanda – nel tempo di un rinnovato collettivismo non più ideologico e scientifico ma demagogico e populista -  si appalesa, a mio parere, come decisiva. E per questo la risposta, da posizioni cristiane e liberali, non può che essere – in maniera “ortodossa” potremmo dire parafrasando Chesterton – no !

Purtroppo, di contro, le tante buone speranze e l’impegno concreto di molti cristiani, ancora oggi, sono politicamente mosse da un giacobinismo pseudo pauperistico e da una visione “necessaria” e “giusta” del corso storico (definibile come “gnostica” seguendo Voegelin) che, a ben vedere -  nell’epoca della statitizzazione del terrore islamista ma anche del revanscismo cesaro papista di Putin e del  neo sultanato di Erdogan – struttura, nel mondo, l’affronto più grave contro la libertà, la società aperta, il culto della persona e del suo valore.

 Röpke, nei suoi scritti fino al 1965 si oppose, tra i pochi, (in Italia questa eccezione è degnamente rappresentata da Einaudi e Leoni) a quel fatalismo storico-filosofico che pretende di aver scrutato le carte del destino e di possedere le mappe dell’itinerario storico corretto.

Ed oggi, la fede cristiana è libera dal rischio della statizzazione dell’individuo? Dalla paradossale incomprensione delle regole spontanee e  sussidiarie  dell’economia di mercato? Dall’esame delle frequenti prese di posizione ecclesiastiche contro il capitalismo ed il c.d. neoliberismo  (quasi un mantra irrazionale) sembrerebbe proprio di no. Una incomprensione paradossale ed antistorica che non tiene conto del fatto che proprio l’affermazione della globalizzazione e del libero scambio ha consentito, negli ultimi 30 anni, la più formidabile uscita di massa dallo stato di povertà mai avvenuta nella Storia; ed il caso cinese o quello delle tigri asiatiche costituisce solo l’esempio più paradigmatico.

Ancora, la vulgata della critica “evangelica” alla società dei consumi è davvero imputabile ai fondamenti sociologici e filosofici della società aperta basata sulla libera circolazione delle merci e delle persone?

I frutti marci della società dei consumi illimitati, della domanda insaziabile, infatti, non sono i frutti propri del mercato, della concorrenza, di quello che molti definiscono – utilizzando un’espressione impropria e caratterizzata ideologicamente -  capitalismo.

Il mercato, la società della libera circolazione non si fonda, infatti, sul consumo facile ma sul risparmio; la sua sede naturale è il libretto di deposito (paradigma del consumo rinviato e, per ciò, valorizzato)  e non il portafoglio bucato. E mentre il “conservatore”  Hayek invitava cittadini e statisti ad avere una visione di lungo periodo nella gestione delle risorse (una visione anche e soprattutto morale), e mentre il “cristiano” Röpke fondava la propria difesa del mercato sul valore spirituale della persona, i “progressisti”  keynesiani rinnegavano, come allegre cicale, il problema del lungo periodo (perché' nel lungo periodo si è tutti morti). Ed ancora oggi, gli ammirati intellettuali ed economisti alla moda, spingono per lo sbilanciamento come risposta alla crisi (che è innanzitutto spirituale), per l’amministrazione “facile” dei soldi pubblici, magari ancora nel nostro  Sud dove il problema non è quello delle scarse risorse statali e para statali, non è il problema di pochi enti pubblici (inutili) o di pochi dipendenti nelle “partecipate” (raccomandati), ma è, al contrario, difficoltà di gestione efficace, mancanza di meritocrazia, assenza di servizi idonei, oblio della cultura del lavoro, sostituita dalla droga assistenzialistica, cui si aggiunge, ora, la facile quanto irresponsabile retorica del c.d. reddito di Stato per gli inoccupati. Allora, mi verrebbe da dire, abbiamo voluto la società dei consumi, dello spreco, dello sperpero immorale e del vuoto nichilistico ... ed ora ne paghiamo lo scotto !!! Ma il mercato ed il capitale di rischio e di impresa lasciamolo in pace, questo attiene più all’austerità dei conti che allo sbrago dei desideri.

Contro “valori statolatrici” come la scientificità e la pianificazione “diretta dall’alto” da illuminati e “santi” prestati alla politica ed alla economia, Röpke – in maniera scettica e, quindi, autenticamente cristiana nel senso della critica alle costruzioni palingenetiche a parte hominis -  rappresenta la convinzione (comune anche a Buchanan e Von Mises) che l’individuo è propriamente quell’homo agens che resiste ad ogni generalizzazione astratta e a quei fabbricanti di diagrammi e curve che vogliono annullarne le specificità singolari all’interno di costruzioni intellettuali ed aggregati numerici.

Esiste, infatti, nel profondo del pensiero cristiano un dualismo scettico che da un punto di vista economico non può che giungere ad una metodologia che distingue tra scienze naturali e scienze umane e che punta a smontare le illusioni scientiste dei pianificatori dimentichi della concreta e contingente realtà sociale complessa.

Il soggettivismo cattolico e liberale, infatti, mostra l’impossibilità di ridurre la complessità innaturale umana ad un modello massimizzatore di soddisfazioni e bisogni catalogati rigidamente.

L’homo aeconomicus, dunque, questo modello sotteso alla macroeconomia moderna, è fortemente connesso all’imporsi dirigista di sistemi welfaristici che necessitano dell’individuazione laboratoriale, scientifica appunto, di precisi beni pubblici e bisogni globali per la cui produzione e soddisfazione di massa sarebbe moralmente legittimo anche il ricorso alla coercizione statale e, dunque, alla concussione dei diritti individuali.

Tutto ciò cozza, evidentemente,  con la concreta varietà delle preferenze e dei bisogni del Singolo, contro quell’eccezione kierkegaardiana che è più interessante del “generale” e che, paradossalmente,  lo spiega.

In tal senso, un programma autenticamente cristiano di economia umana è ben espresso dal titolo più famoso dello studioso naturalizzato svizzero Röpke: da quella civitas humana la cui complessità irriducibile ad unum e ingovernabile burocraticamente esprime la fonte di una ispirazione preoccupata dal fatto che l’economia in quanto tale non venga disgiunta – magari attraverso la retorica utilitarista della società del benessere o quella demagogica della spesa pubblica e dell’indebitamento – dalla filosofia morale, dalla puntualizzazione squisitamente storicista della centralità del cristianesimo della storia d’Occidente.

 

ENZO MUSOLINO

IL PAPA LABURISTA E’ LIBERALE

Il Papa laburista è liberale, e non solo perché – a Genova, tra gli operai dell’ILVA – ha citato Einaudi e la celebre frase: “migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli” ma perché, con l’elogio del buon imprenditore e la critica allo speculatore senza scrupoli, Francesco ha messo in gioco – forse alla berlina - soprattutto lo Stato, un sistema politico interventista ed astratto che, “partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori” (parole Sue), adotta sempre più spesso regolamenti e leggi, crea quindi livelli di burocrazia e controlli tali che rischiano di penalizzare fortemente gli onesti – peniamo all’abolizione ideologica dei voucher anche in ambiti, come quello turistico e stagionale, necessari – e che non incidono sui veri speculatori, su coloro che sono in grado di eludere o che, addirittura, non hanno alcuna esitazione a transitare nel lavoro nero.

Attraverso, quindi, l’elogio dell’impresa che crea, nonostante tutto, lavoro – in primis il lavoro dell’ imprenditore stesso -  ed affermando che non c’è buona economia senza imprenditori capaci di sacrificio ed inventiva per sostenere, appunto, il lavoro, il Papa pone l’accento su un’attività che edifica il patto sociale, che è fonte di dignità ed onore personale, arrivando ad affermare che “lavorando noi diventiamo più persona”, che il lavoro, cristianamente inteso, e forma di partecipazione alla Creazione.

E’ cristiano, dunque, distinguere tra lavoro e reddito? Il primo, evidentemente, se è buon lavoro è molto di più! Ed è per questo che il Pontefice – per la prima volta a Genova con tale forza -  critica apertamente l’idea dell’ assistenzialismo generalizzato dei “senza lavoro”, il cedimento – prima di tutto culturale - ad un’idea apocalittica e neo luddista che vede nella rivoluzione industriale in corso la fine del lavoro, appunto; una visione piena di paura e di incomprensione delle libere dinamiche sociali – pensiamo, ad esempio, alle tristi battaglie corporative e di retrovia contro le nuove app che consentono, nel mercato dei trasporti, di risparmiare tempi e costi - che guarda alle trasformazioni dell’economia e della vita in modo rassegnato. Si appalesa, quindi, una nuova (?) élite che si candida a governare il nostro Paese che è davvero rassegnata ad una ideologia meramente difensiva e securitaria di matrice collettivista – con tutti i pericoli che un tale cavallo di Troia può portare in ordine alla tenuta liberale del Sistema Occidentale – e che immagina un mondo (penso al “Veni,Vidi,Web” di Casaleggio padre) dove solo pochi lavoreranno e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale.

Al posto del lavoro, dunque, la pensione .... una pensione di sussistenza a 35 o 40 anni (contro cui un davvero lungimirante Pannella si scagliò in un celebre comizio bolognese nel 1987, criticando come schiavizzante il concetto stesso di pensione per tutti) che consenta di tradurre, oggi, la follia ideologica delle baby pensioni ora veicolata come reddito di Stato e che, come tale, non può che perdere per strada la dignità ed il significato etico e spirituale del reddito, che è tale solo dove c’è lavoro.

Ma se l’obiettivo vero, invece, non è il reddito per tutti ma il lavoro per tutti e se il lavoro buono, l’economia sana è quella prodotta dai tanti buoni imprenditori, ecco allora che l’analisi del Papa diviene autenticamente liberale, nel senso, oserei dire, dell’esito già delineato da Carlo Rosselli (nel suo Socialismo Liberale), allorquando  evidenzia che il moto sociale scevro da condizionamenti anti storici non può che esitare in moto di libertà: una libertà creativa che produce bene comune, riscatto sociale.

Anche così, in ultima analisi, può essere interpretata la critica di Francesco allo speculatore, a quella economia astratta, priva di comunità, di fatica e sudore che piega la concretezza vitale alla irrealtà di una economia di calcolo che pianifica – tanto nel capitalismo di rapina che nell’ambito dello statalismo illiberale  -  risultati e progetti, senza fare i conti con dignità, rispetto, onore, libertà.

Ed in ciò mi sembra che il Papa incroci anche l’Hayek nemico, appunto, di quella razionalizzazione dell’economia che struttura ed incensa una capacità di previsione e di anticipo (di speculazione, appunto) in capo a presunte élites illuminate mentre, invece, è l’anonimo agire sociale, il sacrificio dell’imprenditore “primo operaio”, il gioco regolato (ecco il compito dello Stato non burocratico), il valore del Contratto, che contraddistinguono la Società Aperta e “comune” dalle fantasie distopiche e dirigistiche del reddito senza lavoro, nuova via verso la schiavitù degli elemosinanti.

 

Enzo Musolino