sabato 23 gennaio 2021

Spes contra spem. Il diritto, la galera e la speranza

 Sono stati da poco pubblicati – editore Reality Book – gli atti dell’ottavo congresso dell’Associazione Radicale Nessuno Tocchi Caino che si sono svolti nel dicembre 2019 presso il Carcere milanese di Opera. 2/6 La “nonviolenza” è stata la l’impronta spirituale emergente da tutti gli interventi dei relatori - molti detenuti della stessa struttura - tutti ad evidenziare come i “fini”, anche quelli nobili, sono pregiudicati dai mezzi, perché sono solo questi che li determinano concretamente, svelandone – troppo spesso nelle nostre carceri - le pulsioni repressive e, dunque, violente. È capitato così, ad esempio, al detenuto Francesco Di Dio, ergastolano senza speranza di benefici che è riuscito ad uscire dalla cella - dopo trenta anni di reclusione - solo morendo per malattia di carcere (per malattia amplificata dal carcere nel quale le cure sono, spesso, negate), evadendo, quindi, nell’unico modo possibile – la morte fisica - per la sua coscienza e umanità maturata e mutata (senza che all’autorità importasse alcunché) nel corso di una vita perduta dietro le sbarre. Esiste, infatti, in Italia - nel 2020 !! - l’ergastolo ostativo, la pena illiberale di una presunzione assoluta di pericolosità sociale, la fattispecie propria di un ordinamento penitenziario che presume l’irrealtà dell’immutabilità del condannato, una cristallizzazione conservatrice nemica del vero, dell’esperienza di tutti noi. Sono dovute intervenire, nel 2019, contro il legislatore, le Alte Corti, quella di Strasburgo e la nostra Corte costituzionale, per tentare un ritorno alla realtà, al buon senso, per riaffermare un principio di verità; lo stesso ribadito più volte, ad esempio, dalla filosofa perseguitata Agnes Heller nel suo percorso esistenziale da cittadina ungherese, europea, vessata e tormentata da tante, troppe, ragion di Stato (prima quella nazista, poi la sovietica, da ultimo quella di Orban): è la contingenza il paradigma della modernità: il rischio e, allo stesso tempo, la speranza di una mutazione spirituale, di un sempre possibile salto etico che giunge alla affermazione della “bellezza della persona buona”, alla rappresentazione e alla valutazione vitale di un percorso, di una evoluzione nonviolenta che salva l’individuo, che salva il mondo Tutto ciò, evidentemente, cozza con l’esclusione – automatica - dal beneficio dei permessi premio - senza alcuna valutazione giudiziale nello specifico, nel merito – derivante dal fatto che il condannato non collabori con la “Giustizia” come i pubblici poteri vorrebbero. La “non collaborazione”, ci dice la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non implica inevitabilmente che il recluso non si sia redento dei suoi atti, che sia ancora in contatto con le organizzazioni mafiose, e che rappresenti dunque una minaccia per la Società. La Corte afferma, infatti, che la non collaborazione può dipendere da altri fattori, come per esempio il timore di mettere in pericolo la vita dei propri cari. Al contrario, dunque, da quanto fino ad ora presunto dallo Stato italiano, la decisione se collaborare o meno, non è totalmente libera, non è vera scelta esistenziale moralmente inconcussa ma è spesso eterodiretta, vincolata ad una esigenza di tutela di altri. Tutto è rimandato, quindi, alla valutazione del caso concreto. L’ergastolo ostativo, come le ispezioni anali, pratiche e grammatiche ancora presenti nel nostro ordinamento, occorre ricordarlo, sono premoderni: sono la fissità di una tradizione crudele e ostile all’uomo; tanto ostile a Caino quanto all’Abele che troppe volte rischia di 3/6 entrare in carcere. Spes contra spem, dopo il Congresso di Opera, compare nel logo di Nessuno Tocchi Caino: la fede di sperare contro ogni speranza, un motto tratto dalla Lettera ai Romani di San Paolo, tradotto da Marco Pannella - nello Spirito - come una ontologia fattiva, un’incarnazione propositiva e priva di resa contro la passività sterile della “cosa sperata”, di un’oggettività improduttiva che si infrange come destino ineluttabile senza la nostra partecipazione creatrice, creatrice anche della fede, della stessa divinità in Noi. Siamo noi, dunque, Speranza: anche gli ergastolani sono speranza se riescono, come quelli di Opera, a tramutare la disperazione dei morti viventi in impegno politico e sociale per il progresso morale e giuridico della Nazione, anche dentro la cella, come da un monastero laico di sofferenza e condanna che ci inchioda alle nostre responsabilità civili, alla bontà della battaglia inesausta per l’affermazione dello stato di diritto contro l’abuso di Stato. D’altra parte, già Hannah Arendt, lo ha sempre rimarcato nei suoi scritti: ogni automatismo chiuso alla Singolarità rappresenta, perché disumano, la “banalità del male”. La banalità burocratica e ottusa di meccanismi lineari e ciechi alle differenti posizioni degli individui reclusi; differenze che dovrebbero sempre meritare, invece, attenzione distinta. Automatismi che affermano come l’uomo sia “per la morte”, vittima “originaria” di un destino irrecuperabile. L’uomo, in realtà, è “per l’inizio”: la nascita e la rinascita sono sempre possibili, solo così – nella Promessa e nel Perdono - il mondo si struttura come antagonista all’evoluzione ctonia della Natura, contro il meccanicismo (troppo spesso irresponsabile) di un dio morale – lo Stato – che ancora oggi, in Italia, ad esempio, nega valore alla coscienza, al lavoro interiore, al processo di mutamento che merita attenzione e che non può essere rigettato solo perché non si è aderito ad una qualche forma di collaborazione processuale, giudiziaria – che pure è importante - ma che nulla ci dice davvero sull’evoluzione della persona e che non può sostenere un parametro assoluto di pericolosità sociale anche se, magari, si è in cella da trent’anni con il diabete e le dita dei piedi amputati. Il cambiamento delle coscienze è vita ci dice il Congresso di Opera: e Nessuno Tocchi Caino si riconferma tale nel prendere ancora parte per la responsabilità personale – altro che tutti liberi per partito preso!! - perché solo partendo dalla responsabilità, solo riconoscendo qualità a percorsi seri di recupero e lavoro (interiore ed esterno) si può discriminare davvero tra mutamento e ottusità, non, di certo, limitandosi a verificare una formale e strumentale dissociazione processuale. E tutto questo, ovviamente, può e deve essere stimato caso per caso, con attenzione e studio, e non lasciato al dispositivo di una presunzione legale assoluta. La cristallizzazione sul fatto, impedisce vera responsabilizzazione, interrompe un vero e genuino recupero sociale, un recupero alla civiltà che non può e non deve svolgersi esclusivamente all’interno di un edificio di pena, ma che deve coinvolgere la società dei liberi, mostrare ai carcerati un “oltre”, una via possibile di libertà, contro un “destino” 4/6 ereditato e segnato dalle proprie condizioni familiari, dalla propria “origine”, da uno stigma che il giustizialismo non fa che esasperare e trasmettere, nell’odio, da padre in figlio, senza speranza dunque. Questo è stato, quindi, il congresso di Opera: un inno alla responsabilità individuale, alla coscienza, al cambiamento, al diritto mite, ai benefici carcerari esperiti come occasione di nuova vita, di salvezza sociale, comune: non c’è facile assoluzione ad Opera, non si assolvono gli stessi carcerati intervenuti, non gridano l’innocenza di Abele ma il tormento di un Caino in movimento, di quel Caino che Dio protegge dalle mani degli uomini (Genesi 4,15). Lo ha dimostrato il sindaco Stefano Castellino, sindaco di Palma di Montechiaro, vittima di mafia, che proprio ad Opera, di fronte agli aguzzini della sua famiglia, ha saputo dialogare con i carnefici proponendo, appunto, la rinascita, la risurrezione interiore, e non una dissociazione/oblio di responsabilità e futuro, davvero impossibile per un passato che pesa e che sempre peserà ma che può essere utilizzato come slancio “nuovo”, solo se lo si libera dal dispositivo ottuso di una pena di morte lenta, differita, lasciata all’esecuzione delle tante malattie di carcere, alla tortura del decadimento senza cure efficaci, al cancro dell’assenza di diritti e dell’articolazione altrui – Sovrana - dei propri bisogni, dei bisogni di un individuo diminuito per sempre. Le sentenze delle Alte Corti fin qui intervenute, al di là della stretta applicabilità su questo o quel beneficio penitenziario, affermano una cosa precisa: non può esistere una proibizione automatica a un percorso di risocializzazione! Questo, tutto questo – battaglie, congressi, pronunce, sentenze e reazioni -provocano il mondo liberale, la sinistra, gli istinti riformistici e personalistici di tanti democratici: la destra eversiva e giustizialista, ben strutturata in Italia e “simulata” nelle diverse offerte politiche, si presenta sempre di più, invece, con le fattezze truci di una statolatria feroce, di un ordine imposto senza pietà e duro, solo e comunque esercitato contro i deboli, contro le forme emergenti e “facili” di un “male” che ha più profonde origini. E questa visione, questa radicalità del cappio e delle chiavi metaforicamente gettate lontano da ogni speranza di respiro e vita, si accompagna ad una macchia sociale sempre più forte che colpisce non solo i singoli, gli emarginati, i violenti per assenza di alternativa, ma anche interi territori: i calabresi, i siciliani, i meridionali; una fatalità di gruppo e del “paese” (pensiamo a San Luca o a Platì), di una territorialità rappresentata come irredimibile, contro cui va scatenata la forza di un Diritto tramutato in “diritto di guerra”, di rappresaglia, di vendetta. Ed ha ragione Gioacchino Criaco, lo scrittore di “Anime Nere”, pure lui intervenuto ad Opera: da bambino, ad Africo, in Calabria, sapeva già riconoscere i “destinati”, tra i giochi, poteva già profetizzare una vita già segnata da Stato e da Antistato: “tu omicida, tu guardia, tu indifferente, tu Abele, tu Caino”. La profezia dell’automatismo, quindi, che è divenuta realtà del carcere italiano, lasciato all’affollamento di tortura e al destino di morte. 5/6 Pensare e lottare affinché il "mondo" – al contrario - si strutturi e si regga sulle "parole" vissute che intercettano i valori universali dell'umanità, questo è emerso ad Opera! E questo ha davvero il tono dell'afflato religioso! Senza questo misticismo concretissimo siamo perduti ed è lo stesso misticismo "radicale" che era vivo in Marco Pannella: quel suo credere in "Altro" - rispetto alla violenza del presente, del carcere, della proibizione, del clericalismo di potere - che cambia la realtà e la migliora, tenendo alta la fiaccola della Persona e dei suoi diritti. Per tutto questo, quindi, il Congresso di Opera (il congresso di Nessuno Tocchi Caino) è stato speciale, davvero il lavoro svolto da questa specialissima Associazione ha in qualche modo inciso, ispirando e motivando la giurisprudenza delle Alte Corti! Non si può – dobbiamo ribadirlo - inchiodare un uomo ad un "fatto", non si può presumere l’immobilità della coscienza, non si può costringere la libertà per sempre, negandole sviluppo e opportunità solo per i bisogni del Potere; magari di un Potere fortemente motivato nei suoi buoni propositi e fini e, proprio per questo, non meno pericoloso nella sua assolutezza.

Indifendibili: riflessione sul processo penale

 Il dibattimento processuale, nel contraddittorio tra le parti, nella formazione delle prove nel contesto di garanzie precise, è complessità e, come tale, è sempre aperto a contraddizioni e aporie. Nella modernità, le cui categorie fondamentali sono la contingenza e l’assenza di un fondamento assoluto, questa complessità è un valore più che un destino da compatire. Lo scopo del processo penale liberale - democratico, costituzionale - non è l'accertamento della verità/certezza, di una responsabilità monolitica che inchiodi, per sempre, l’individuo alle sue azioni/omissioni ma è la più articolata e multiforme verità processuale, frutto di un procedimento formale che coniughi indagini, garanzie, pluralità d’approcci e visioni, appunto. E meno male che sia così! Nel primo caso avremmo a che fare, infatti, con l’astrattezza di una verità metafisica, con le conferme giudiziarie di un apriori ideologico, moralistico, ghettizzante, la cui “ricerca” – riconosciuta come doverosa e imprescindibile - condurrebbe, come ha condotto in passato, ad un processo extra ordinario per crimini - cosiddetti gravi – sottratti, quindi, all’inutile dibattimento, alle forme del giusto processo che, ovviamente, spariscono innanzi all’evidente colpevolezza del reo, del reietto, del già escluso socialmente. Forme esperite, dunque, come un impaccio sulla strada dell’affermazione di una Giustizia immediata, sommaria, intesa propriamente come vendetta e rappresaglia. Il senso del processo penale in un paese civile, però, non è cedere alle pulsioni del momento, allo schianto del “fatto”, alla cristallizzazione dell’evento, all’ istinto di ritorsione ingenerato dal sangue innocente dell’Abele che giace contro il Caino omicida che fugge, innanzitutto, da se stesso. Con ciò concorrendo – con la violenza propria di ogni sostanzialismo grossolano - alla mostrificazione, alla sottrazione di umanità e diritti. A che serve, infatti, sacrificare definitivamente anche il reo sull'altare del crimine commesso? Che bene ne avrebbe la Società plurale e multiforme dalla sanzione senza appello che colpisce l’irredimibile, colui a cui non è concesso neppure il diritto di mutare, di risorgere dalla tragedia della colpa? Più prosaicamente, infatti, il processo moderno è una forma dell'articolazione sovrana nel monopolio della forza. È una risposta “decisa” di sicurezza e ordine sociale che si realizza – nella fictio iuris – attraverso l'accertamento di una equiparazione (im)possibile tra verità reale e verità legale, attraverso il principio di contraddittorio nella formazione della prova e l’applicazione di una pena che – aperta al ruolo del tempo e alla maturazione nell’ elaborazione di una coscienza duttile - tende di principio alla riabilitazione sociale del criminale. In tal senso, l'auto affermazione di una legittimità debole propria della Modernità Occidentale - attraverso il prisma della Libertà dei singoli di fronte all’Autorità costituita - non sconfessa - come pure appare ad un'analisi frettolosa - il ruolo della Tradizione, della Colpa, della Responsabilità etica ma le “purifica”, sottraendone l’aculeo dell’arbitrio spacciato per Verità da imporre. 3/4 Le persone buone, infatti, esistono anche oggi e ciò che esiste è sempre possibile, ci ha insegnato Agnes Heller ! L'impegno responsabile, la “stampella” sempre necessaria dei principi e dei valori universali, sono perfettamente operativi nelle coscienze di chi, ancora adesso e per fortuna, si interroga sull’ influsso delle proprie e delle altrui azioni o omissioni sul prossimo, sugli innocenti sugli esclusi. Ciò che è venuto meno, ovviamente, è il portato di certezza ontologica, la “sostanza escludente” di certezze vissute – e operate - come inattaccabili e solidissime, l’impulso “auto -assolvente” per una giustizia schematica che non riconosce valore al dubbio, alla complessità dell’evento. L’origine della persona buona è divenuta, quindi, trascendente, non garantita da alcun culto o rito e il semplicismo manicheo – la rigida separazione tra giusti e reietti – è intuito dai moderni, o almeno dovrebbe esserlo, come un feticcio ideologico che, comunque, si attiva con ferocia – questa è la storia universale delle carceri – quasi sempre nei confronti degli estromessi, di chi vie ai margini, dei poveri di spirito. Ecco perché, nel processo penale, la certezza e la verità non sono “macigni” che si impongono contro le resistenze artificiose delle garanzie al reo ma sono il risultato operativo di un procedimento articolato, condiviso, plurale, tragico, mai davvero esatto e compiuto, che emerge dalle spoglie di Abele – dalla forza necessaria per acclarare per quanto possibile la responsabilità individuale – ma che emerge anche dai passi, dagli inciampi, dagli errori, dallo spirito e dalla carne viva di Caino che fugge dalla propria umanità e fratellanza ma che (è sempre possibile) può farvi ritorno. Caino sul quale, in ogni caso, precipita l'editto preciso di Dio: “Nessuno lo tocchi !” La Giustizia, infatti, non è davvero di questo mondo: la condanna immutabile, ostativa, senza speranze, non è appannaggio dell'uomo e delle sue incertezze e debolezze; può essere solo l’illecita appropriazione delle tante scimmie di Dio, dell’ansia sostitutiva di un Potere “giusto” scevro da limiti. Ecco perché, a mio parere, l'avvocato che qualche giorno addietro ha respinto la nomina, quale legale di fiducia, di un femminicida, dichiarando: “io sto da tutt'altra parte”, non ha fatto un buon servizio al suo ruolo, alla giustizia democratica. Che senso ha, infatti, rivendicare una tale distanza antropologica? Affermare l’abisso che separa vittima e carnefice ponendosi, ovviamente, al sicuro, sulla sponda giusta, affermando una impropria alterità? Questa reazione, ovviamente popolare, contraddice lo spirito del Presente, lo sviluppo sano della nostra civiltà giuridica. Fatto salvo il diritto di ogni avvocato, infatti, di non accettare un incarico, non è però corretto – pubblicizzandone sulla stampa le motivazioni “morali” - anticipare la condanna, depotenziare il processo, contribuire a renderlo inutile nel dibattito pubblico, consegnare il “colpevole” alla mercé scandalizzata dei suoi ormai “ex simili” (non più pari) come sempre pronti - nella Maggioranza - a gridare in coro: è indifendibile! 4/4 E quanto sarebbe stato bello invece (e parlo propriamente della “bellezza della persona buona”) se proprio un’avvocatessa esperta, impegnata nella tutela delle vittime di violenze e abusi; se proprio un giurista degli ultimi, degli esclusi, degli stigmatizzati, avesse onorato l'indispensabile compito della difesa tecnica anche del “Nemico”. Ne avrebbe goduto il Processo, l'esito di un dibattimento garantito, una condanna “giusta”, il riconoscimento salutare e sincero che è sottilissimo e fragile il crinale che separa il povero diavolo dal povero Cristo.

L'APOCALISSE DEL CATTIVISMO

 L’affermazione di Joe Biden apre una nuova strada per i democratici non solo negli Stati Uniti.

La vittoria del Centrosinistra attraverso proposte improntate al buon senso, allo sviluppo del ceto medio, all’incremento dell’offerta pubblica in assistenza e giustizia perequativa, al multilateralismo in politica estera, hanno conquistato un elettorato sfiancato dal cattivismo di Trump, di un Presidente indifferente all' esplodere delle diseguaglianze e tutto improntato ad un isolazionismo - prima di tutto etico - che tradisce la missione cosmopolita della democrazia americana.
I cittadini alla fine lo hanno compreso: l’America first è l'America sola, deprivata della collaborazione europea, irrilevante sui grandi temi come la tutela ambientale e lo sviluppo di una tecnologia sostenibile, senza voce credibile di persuasione al di fuori delle grandi agenzie dell'Onu di cui si è dichiarata nemica.

Con Trump è andata di moda - ed è stata esportata in tutto il mondo, pensiamo al nostro Salvini - la polemica contro il politically correct, contro il “dialogo eterno” e non violento (tipica caratteristica del parlamentarismo), contro il buonismo dei democratici, dipinti come ipocriti, nemici dell’interesse nazionale, segretamente dediti all' intelligenza con il nemico e cultori delle più nefande scelte progressiste antitetiche ai valori tradizionali cristianisti.
Valori – occorre precisarlo - utilizzati come armi mediatiche buone per consolidare il consenso dei conservatori.
E di nuovo il caso Salvini, con i suoi crocifissi e le sue madonne agitate a mo' di sfida contro “gli altri”, ritorna ad arricchire il caso esemplare!

Oggi, dopo il voto americano, cosa rimane di tutto questo?
Qualche nemico in più in Medioriente, la sfiducia europea, l’acuirsi del conflitto politico/economico con la Cina (divenuta, ormai, paradossalmente, campione del “mercato” e dello scambio contro il protezionismo a stelle e strisce), il trionfo dei negazionisti anti scientifici di ogni genere, il dilagare di una pandemia lasciata libera di scatenarsi contro neri e poveri, un Partito Repubblicano - quello di Lincoln - senza più anima e vittima dell’ illusione sovranista e, da ultimo, l'attacco armato contro la sede della democrazia americana, il Congresso, divenuto bivacco e ostaggio di un’orda multiforme di sostenitori del “potere bianco”, di un autoritarismo macchiettistico ma proprio per questo - perché acefalo - non meno pericoloso.
Questo è l'esito dell’estremismo settario, questo il destino degli “scorretti”, di questi “anarchici/autoritari” che a fin di picconare regole condivise, pratiche civili, norme di correttezza, speranze di pace, Istituzioni giuridiche, degradano inevitabilmente verso la violenza autodistruttiva.

Molti si domandano – e a buon titolo - cosa diranno oggi, sconfitti, i trumpiani di casa nostra, l’articolazione partigiana e sgrammaticata della Destra italica, urlatrice e becera: quella delle navi da affondare con i migranti a bordo, ad esempio, che, per un certo periodo, ha fatto la fortuna, per il consenso popolare ottenuto, di politici fortemente interessati al semplicismo retorico come Salvini e Meloni.
A mio parere, invece, sarebbe molto più interessante concentrarsi sull’ evoluzione interessata e naturalmente trasformista di un altro mondo: non degli estremisti per storia e (in)cultura ma di quei “moderati”, pseudo cattolici, gente “perbene”, cultori della palude e dello status quo, “produttori” e sedicenti persone “del fare”, sempre ambigui per partito preso che , in questi anni, a debita distanza certo, hanno appoggiato – nel Centrodestra - la deriva impropria di un mondo conservatore divenuto illiberale, demagogico, plebiscitario, autoritario e che ha visto in Trump, appunto, e anche in Orban, i campioni più promettenti per consenso e carica violenta.

In fondo, a pensarci bene, è una tentazione immanente e una declinazione sempre possibile di una certa “borghesia” italica (e non solo): il revanscismo di un “fascismo eterno”, vissuto come scorciatoia e soluzione “alessandrina” ai dilemmi, agli intrecci e alla complessità di una società plurale, discorde, contraddittoria, agitata dalla contingenza, ingovernabile in fondo nei suoi fermenti sempre nuovi, e che si vorrebbe, invece, “ridotta”, semplificata (perché così più controllabile) in una contrapposizione binaria “moralistica” del tipo: noi popolo/loro elites; verità-certezza/dubbio nichilistico; decisionismo/scetticismo rinunciatario; tradizione sicura/riforma senza identità, che, come tale, svela solo l'ansia autoritaria e di dominio di chi la coltiva, tutto il contrario di un sincero atteggiamento liberale democratico, aperto alle libere dinamiche del moto sociale.

Tra questo “bianco o nero” prevale oggi, per fortuna, l’approccio misto, non escludente, multietnico e multiculturale di kamala Harris: il “proprio” di un’America composita che fa delle differenze ricchezza e buon viatico per il futuro.
È questo, in fondo, il significato vero della parola tradizione, che non ha nulla di statico ma che ha a che fare con il “movimento”, con il “tra-durre”, il trasmettere, il decifrare - nell’ attualità - il meglio del retaggio del tempo.