TRA
LE ANALISI POST REFERENDUM:
IL
TRIONFO DEL “POLITICO” E LA SUA NEUTRALIZZAZIONE
La
politicizzazione del referendum costituzionale, il livello dello scontro e gli
esiti certamente trascendenti il merito del quesito, ci aiutano a dirimere una
serie di fraintendimenti circa l’esercizio del voto e a superare una
interpretazione “negativa” delle consultazioni referendarie, intese come
estremamente divisive e, per ciò, pericolose.
In
sintesi, ciò che viene in gioco nell’esercizio della scelta pubblica è il
livello genealogico della politica, quel “prima” dei progetti e dei programmi
concreti che possiamo ben definire, sulla
scorta dello Schmitt ancora alla prese con la difesa di Weimar, il “politico”, l’associazione/dissociazione “amico-nemico” che determina i singoli
a prendere parte, a lottare, a discriminare tra il buono per sé ed il proprio
gruppo e le opzioni “altre”.
All’interno
dell’ambito dello Stato di Diritto e
sotto l’ombrello di una Costituzione (allo stesso tempo intesa come patto
fondativo e custode cristallizzato
della forza dirompente del potere
costituente) siamo tutti – fortunatamente – abituati ad obliare questo
livello genealogico, questo eccesso
conflittuale che precede ogni statuizione normativa e che possiamo intendere
anche come eccezione cui occorre dare ordine, pena il conflitto perenne.
Ebbene,
però, proprio le occasioni elettorali più intense ci riportano a questo livello
primigenio, scoprono le criticità, la tragicità irriducibile a pacificazione
definitiva e tombale che sussiste
come fondamento instabile del nostro “stare insieme”. Quelle vere e proprie
contrapposizioni esistenziali, di stili di vita, di caratteri, di prospettive,
di coscienze, che sono il magma politico
che agisce in maniera centrifuga per la differenziazione, la frammentazione, la
partigianeria settaria ed escludente.
Solo
l’accettazione delle “regole del gioco” – nel
nostro caso per fortuna liberali e democratiche – consentono di
neutralizzare, dopo l’esercizio del voto, all’atto della giuridificazione del risultato,
il sempre possibile esito ultimo dello scontro pubblico che, in assenza della
mitigazione del “giuridico”, può giungere all’annientamento.
Essere,
quindi, consci dell’infondatezza ontologica della politica moderna, priva,
cioè, dell’aggancio veritativo in un trascendente legittimante il Potere,
significa, allo stesso tempo, essere consapevoli della fragilità della libertà,
della solitudine senza garanzie delle scelte umane ma anche dell’acquisizione
più importante dell’intero pensiero politico occidentale (sempre contraddetto e
sempre riaffermato): il rigetto della
sacralizzazione idolatrica delle opzioni politiche, l’abbandono laico del piano
dello scontro fondato su categorie escludenti quali Verità, Giustizia, Eresia,
il diniego dell’identificazione medievale dell’avversario come hostis humani
generis.
Tutto
ciò, almeno, fino ad oggi o, meglio sarebbe dire, fino a ieri, fino al
paradossale risorgere post moderno –
una volta sconfitta l’ubriacatura ideologica del Secolo Breve ma anche abbandonata l’illusione successiva della “fine
della Storia” - di una sorta di orientalizzazione
dello scontro, obliante la dignità e la libertà altrui, che chiamiamo populismo ma che sarebbe più corretto
individuare quale riteologicizzazione del
politico, quale sacralizzazione delle proprie acquisizioni partigiane.
E
proprio la consapevolezza dell’ulteriore rafforzamento di tali posizioni a
seguito della vittoria del No grillino,
spinge, a mio parere, tutta l’intellighenzia
professorale della sinistra extra PD
a negare – in un comprensibile esercizio di rifiuto autoassolvente e
deresponsabilizzante – il significato eminentemente politico della battaglia
appena passata.
E
così ci è toccato di ascoltare anche l’analisi secondo la quale la stragrande
maggioranza dei tanti votanti, dei tanti “nemici politici” di queste riforme,
ritornati alle urne dopo anni di astensionismo, lo abbia fatto solo dopo l’attento studio comparato dei due testi a confronto,
dopo una esegesi giocata sul bilancino accademico degli articoli pro e contro.
Evidentemente,
nulla di più falso!
Tanto
il variegato fronte del No (irriducibile
ad unità intesa come alternativa di Governo) quanto il fronte del Sì (con quel 40% legato alla figura tipica del
premier rottamatore e riformatore) sono stati – come è giusto che sia –
fronti politici anzi iper politici
alle prese con il fondamento (da
riscrivere parzialmente o da conservare tout court) della nostra
democrazia.
In
tali fasi tutto è in movimento e la tragicità
del “politico” scuote l’abitudine dello status
quo, della norma/normalità, ma ciò non può atterrire fino alla negazione
del “politico” stesso, pena la deriva amministrativa e tecnocratica della
competizione pubblica, la sua depoliticizzazione
che, in fondo, è sempre antidemocratica.
Per
ciò, mentre i fautori del Sì, anche grazie all’atto chiarificatore di Renzi che
sin da subito ha posto sul tavolo la posta in gioco, nei termini del rilancio
dell’azione di governo o delle sue dimissioni, sono stati consapevoli delle
ricadute politiche del loro sostegno, il fronte del No, soprattutto la sua
componente sinistra, ha volontariamente obliato il senso della propria
opposizione, anche dopo l’esito apparentemente favorevole. Con chiarezza,
invece, si dovrebbe abbandonare, a bocce ferme, ogni finzione ed assumersi la
responsabilità politica della scelta fatta e delle conseguenze insite, dunque,
nella scelta – politica e non giuridica
– di azzoppare un tentativo riformatore proveniente dalla propria storia – non perfetto di certo – ma, di certo,
non autoritario, né lesivo del nucleo valoriale della Costituzione vigente.
E
quali, dunque, le conseguenze che più che Renzi sembrano, oggi, “dimissionare”
il Partito democratico?
Il rafforzamento della
demagogia grillina, l’uscita dall’angolo del berlusconismo, la confermata
lepenizzazione delle destre, il viatico rinvigorente fornito ad una certa
leadership di una sinistra “senza popolo”, incapace del metodo liberale e che
dà il meglio di sé nella cannibalizzazione dei propri capi pro tempore.
È
ovvio che ciò sia difficile, che ci si rifiuti ad ammetterlo … ma tant’è:
perché l’alternativa a quel 40% dei consensi governativi – e lo stiamo ben apprezzando in questi giorni con il rifiuto di tutte le
opposizioni ad assumersi responsabilità di governo – non sarà una nuova e
migliore stagione riformatrice, né il trionfo del pragmatismo e del buon senso,
né tanto meno la conferma del principio aureo della revocabilità delle scelte,
ma la strutturazione illiberale di uno o più fronti demagogici, antiscientifici,
“nemici” del principio di precauzione ed irresponsabili economicamente e
socialmente.
Ed
al mantra renziano del Jobs Act (comunque insito nel pensiero liberale) dovremmo presto abituarci
alla retorica collettivistica del reddito
di Stato, alla linguistica di una nuova ed infausta Rivoluzione Conservatrice.
Enzo
Musolino
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