Le opzioni terze che vivificano la politica
È dall’inizio della sua attività politica che Arnold Schwarzenegger incarna - non
solo in California - i valori di
un conservatorismo di buon senso aperto al libero mercato, alla globalizzazione
ed allo stesso tempo decisamente schierato nella lotta contro la devastazione
ambientale ed i cambiamenti climatici prodotti dagli insediamenti industriali e
dall’inquinamento in genere.
Tale feconda e complessa peculiarità d’approccio, senz’altro non
banale, ci fornisce un importante esempio del fatto che ci sono due destre politiche in America, due destre in Francia, due o tre in Italia;
diverse modalità, cioè, di interpretare gli ideali e gli obiettivi di quella
vasta area che non accetta la narrativa progressista e che oscilla tra
ortodossia ed eresia, tra tradizione e riformismo, tra popolarismo e deriva
populista.
E se Schwarzenegger tenta – anche attraverso l’uso mediatico della sua
sintonia con il liberale e riformista Macron - di attualizzare i fasti di quella tradizione reaganiana e thatcheriana che
diede vita, negli anni ’80 del Secolo Breve, a quella politica innovatrice ed
aperta che ha governato l’ultima fase della terza
rivoluzione industriale, quella informatica; le resistenze di Trump,
invece, il suo protezionismo, le mura alzate contro persone e merci,
rappresentano una destra diversa – e
al momento di successo – che si fonda – contro gli assiomi della Società aperta - sulla difesa autistica
di un fortino identitario escludente quanto, in vero, inesistente, posto che è il proprio dell’America
essere una contraddizione feconda e critica di “nature” in bilico.
Trump, dunque, si pone ideologicamente contro quella su citata tradizione conservatrice e liberale che,
per altro, così fortemente si oppose alla teologia
politica sovietica, attraverso la rappresentazione di una religione civile
ottimistica e vincente tutta improntata sulla superiorità etica dei propri
valori.
E non è un caso che il trumpismo
sembra subire, invece, il fascino autoritario del Capo, che ammiri Putin, che
si sforzi di rappresentare un’esigenza forte ma atterrita di sicurezza, di
tutela padronale, cui offrire come risposta: ricette semplici, decreti
inappellabili, nemici facilmente individuabili.
Un modello politico, quindi, intrinsecamente illiberale che sembra
riportarci ideologicamente all’alba della
Modernità, alla necessità - a fronte del caos di conflitti religiosi destabilizzanti - di proporre in chiave
difensiva il principio dell’Unità Politica
e, quindi, della critica ad ogni potere sociale intermedio ed indiretto
qualificato – solo in quanto portatore di analisi, di diversi interessi ed
esprimente complessità - come pericoloso e destabilizzante (in fondo questa è la lezione di Hobbes).
Un neo centralismo – di
certo non solo americano – refrattario al controllo giornalistico, accademico, sociale
o giurisdizionale; e tornando agli U.S.A. – Paese di common law - ciò chiarisce
bene come l’opposizione alla verticalizzazione del potere, al suo accentramento
decisionista (pensiamo alle decisioni federali
prese in materia di ingresso selettivo degli stranieri od in tema di accordi
internazionali per la tutela ambientale) non sia solo la reazione stizzita
contro le bizzarrie di un presidente per sua natura divisivo ma coinvolga,
invece, il nucleo del sistema americano: il
valore del precedente nel caso concreto analogo, la consuetudine dell’approccio
normativo rispettoso dell’autonomia, dell’autogoverno delle Comunità.
Sono, in fondo, due culture giuridiche che continuano a scontrarsi:
una basata sull’evoluzione spontanea di comunità storicamente temprate dalle tante
assemblee e dai referenda, il celebre
sistema del Town Meeting - inteso come forma di governo democratico
diretto - che ha contribuito alla ricca complessità del diritto in America,
l'altra, invece, più propriamente statalista, incentrata sul ruolo escludente
dell’unica fonte di diritto davvero decisiva, quella basata sull’intervento
apicale, normativo e cogente ... senza eccezioni. In mezzo una Costituzione
snella, edificata sulla libertà e la felicità
pubblica e con un controllo di costituzionalità delle leggi diffuso tra
tutti i giudici e non solo in capo alla Corte Suprema.
“Savigny contro Hegel” in
America, dunque: lo storicismo giuridico che fa del moto sociale spontaneo
la vera fonte del diritto (l’evoluzione
lenta e condivisa di uno stare insieme peculiare e sempre aperto sul baratro
del caso concreto e dell’eccezione) avverso
lo statalismo giuridico che lega senza cesure legittimità a legalità, realtà e
razionalità che sembrano conciliarsi nell’autorità del potere costituito.
In sintesi, polarizzando l’analisi sui due “campioni” Schwarzenegger
e Trump, sono due conservatorismi a
confronto, due destre mai così
distanti come oggi e che, come tali, si appellano – dialetticamente – a due altrettanto diverse sinistre,
interpretate come avversarie e,
quindi, specularmente intese e riconosciute
come privilegiate antagoniste in un
quadro politico unitario.
E la sinistra che “fa comodo” a Trump o, per altri versi, al neo isolazionismo britannico della
sig.ra May, è quella ideologica, anch’essa per nulla liberale e contraddittoria,
impegnata nella traduzione contemporanea
dell’idioma marxista, nel senso neo
ideologico di un laburismo
nazionalista, protezionista e difensivo. Pensiamo alle feroci critiche del “socialista”
Sanders contro la Clinton sostenitrice della globalizzazione impoverente e
schiavizzante, o, ancora meglio, ricordiamoci del Corbyn sostanzialmente pro
brexit alle prese con l’evocazione delle paure “contrattuali” contro la
concorrenza degli operai esteri. E come non citare, ancora, il neo luddismo sinistroide nemico della
tecnologia e della rivoluzione robotica in atto, rassegnato ad un futuro
distopico fatto di “senza lavoro” questuanti il reddito di Stato?
È fumo negli occhi di questa
destra, invece, il liberalismo sociale e globale di Macron e – con tutte le
differenze nazionali del caso – quella cultura
liberal democratica e liberal socialista che non si arrende al declino
romanticamente evocato dai populisti – novelli Splenger – alle prese con la
rappresentazione apocalittica di un ultimo
stadio, di un inverno del mondo inevitabile,
cui i progressisti, pur coi limiti evidenti, continuano per fortuna ad opporre
“razionalmente” la fiducia e l’ottimismo orgoglioso per la capacità di
diffusione e di miglioramento di quelle libertà personali e sociali che sono il
frutto più importante dell’Occidente. E lo stesso vale, a parti invertite, si intende,
per la sinistra o, per meglio dire, per
certa sinistra: è il becero lepenismo
razzista, il rozzo identitarismo padano,
il gretto qualunquismo della ho-ne-stà – ho
–ne-stà urlata contro gli avversari come una clava mediatica, che “fa
comodo” a chi coltiva l’illusione della differenza
ontologica, della correttezza “scientifica” del proprio approccio
ideologico; ad una sinistra, quindi,
anch’essa impegnata a rinserrare i rassicuranti ranghi identitari contro i barbari alle porte.
Mentre è fumo negli occhi lo
Swarzy con la Hammer ad idrogeno e paladino del risparmio energetico, fumo negli occhi la Merkel post
ideologica che apre ai matrimoni gay.
E tutto ciò perché l’alternativa in campo
“sorprendente” perché complessa, pragmatica, non chiaramente etichettabile, è
fonte critica di cambiamento al proprio interno, muove al difficile - ma
necessario - riposizionamento degli assunti ideologici,
alla messa in discussione dei propri assetti.
Sono le opzioni terze che
innovano la storia politica, che le danno slancio e novità, che vivificano
le tradizioni, che offrono nuove prospettive; sono quelle felici eccezioni e
ripartenze – penso all’avvento dei “professorini”
democristiani, all’autonomismo craxiano, all’approccio radicale di Pannunzio,
di Pannella e Rodotà, ma anche al primo Berlusconi, al primo Prodi, al primo Renzi
ed oggi a Macron – che concretano il riformismo, che iniziano il futuro.
Enzo Musolino
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