sabato 18 ottobre 2008

Il ruolo politico, teologico ed estetico dei greci di Calabria durante la disputa sulla venerazione delle Sacre Icone che coinvolse l’Impero Bizantino

Nel periodo che va dal V all’XI secolo d.C., la Calabria fece parte dell’ Impero Romano d’Oriente come “Tema dell’Impero,” ossia come una Provincia governata da un capo militare, lo Stratego, e, sotto l’influenza di Costantinopoli, la Calabria riscoprì le proprie origini culturali greche divenendo, nell’Occidente ormai dominato dai barbari, uno dei pochi avamposti della civiltà greco-romana ormai in disfatta dove, grazie al diffondersi della lingua ellenica, gli intellettuali del tempo, i monaci, potevano ancora disquisire di problemi teologici e trinitari alla luce delle categorie neoplatoniche ed aristoteliche.
In questo lungo lasso di tempo, alcuni avvenimenti causarono una massiccia emigrazione di monaci cristiani di rito greco verso la Calabria bizantina.
A partire dal VII secolo, infatti, il sorgere della potenza arabo-musulmana mise in fuga molti anacoreti dimoranti nei deserti della Siria, della Palestina, dell’Egitto e della Libia, fuggiti dalle loro terre con il proprio patrimonio culturale per scampare alle persecuzioni e alle conversioni coatte alla religione di Maometto.
Nel secolo successivo, un altro esodo massiccio vide giungere sulle coste calabre numerosi asceti bizantini che, a causa della persecuzione iconoclasta avviata dall’imperatore Leone l’Isaurico, arrivarono nella nostra Terra portandosi appresso le Sacre Icone, alla ricerca di un’Autorità più moderata ed attenta alle esigenze del popolo veneratore delle Sacre Immagini. Infine, dal IX secolo emigrarono in Calabria i monaci siciliani, lasciando alle loro spalle l’occupazione araba.
la Calabria terra di rifugio, dunque, per i curatori spirituali del patrimonio di conoscenze di quell’ “Oriente bizantino” che fu sede delle insegne imperiali del potere Roma ma anche delle tradizioni filosofiche che generarono la cultura occidentale e Patria del primo cristianesimo e di riti, tradizioni ed approcci teologici al mistero trinitario che pervasero secolo dopo secolo la Calabria, innovandone la cultura e la lingua nel senso profondo di un ritorno dovuto alle origini greche della Civiltà della punta dello stivale.
Nella parte interna della Regione, lontano dai grossi insediamenti umani, gli asceti orientali crearono eremi, laure e cenobi, arrecando peraltro notevole beneficio economico alla gente del luogo. Le radici greche della Calabria furono libere di produrre cultura e benessere fino a quando tra il 1047, anno in cui Roberto il Guiscardo si stanziò in Val di Crati, e il 1057, anno in cui Reggio - sede del Tema bizantino - venne conquistata da Ruggero, i normanni soggiogarono la Calabria introducendovi la triste novità del sistema feudale e avviando la rilatinizzazione forzata dei costumi e delle strutture ecclesiastiche, per cementare, così, il rapporto con il Papato di Roma che, ormai in mano all’influenza franco-germanica e a seguito della separazione tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente (avvenuta nel 1054), divenne sempre più ostile ai riti e alle tradizioni liturgiche orientali.
La rilatinizzazione culturale della Regione ricevette un forte impulso nel 1091 allorché Papa Urbano II fece giungere in Calabria il celebre S. Brunone di Colonia che, nelle Serre, fondò la Certosa, di rito franco-latino, di S. Stefano del Bosco. A questa nuova fondazione, Ruggero il Normanno fece dono dei beni del monastero greco-ortodosso sul fiume d’Assi, comprendente il casale di Bivongi, terra storica del monachesimo bizantino.
Il fermento culturale e teologico sostenuto in Calabria dai monaci bizantini, nei secoli che precedettero l’arrivo dei normanni, contribuì non solo al diffondersi dei monasteri ma anche al radicarsi di atteggiamenti filosofici ed estetici spesso in contrasto con le decisioni imperiali di Bisanzio, segno di un’autonomia di pensiero e di studi conquistata dai calabresi e che si manifestò pienamente proprio in occasione delle persecuzioni iconoclaste e che vide la Calabria divenire uno dei porti più sicuri per i monaci in fuga con le preziose Sacre Icone.
L’iconoclastia (dal greco eikonoklasmos, distruzione delle immagini) fu un’ eresia cristiana che, con alterne fortune, coinvolse il mondo bizantino tra il 725 e l’842 d.C.
Essa prese spunto indubbiamente dall’influenza esercitata nell’ Impero dagli ebrei, dai musulmani e dalle sette orientali presenti nel suo territorio che condannavano qualsiasi rappresentazione della divinità in forma umana. Oltre a questo, la divinizzazione e la venerazione delle Icone, che si era fortemente sviluppata prima tra i monaci e poi, soprattutto, tra i ceti più poveri ed umili della popolazione, sembrò, principalmente ai dignitari ecclesiastici timorosi, come in ogni epoca, delle passioni popolari, entrare in conflitto con la tradizione biblica, ostile ad ogni forma di idolatria, e con l’insegnamento dei padri della Chiesa.
Esistevano difatti dei casi limite, al confine con l’eresia e il paganesimo, in cui veniva esaltato il significato divino dell’Icona attraverso riti estremi, come quello di bere, durante la sacra Eucaristia, parti del divin dipinto, credendo in sue proprietà taumaturgiche e medicinali. Alcune Icone venivano a tal fine perfino spacciate come dipinte mediante l’intervento divino.
Tutte queste perplessità e critiche al culto delle Immagini vennero raccolte dall’Imperatore Leone III (717-741), fondatore della dinastia isaurica, che lanciò una campagna moralizzatrice della Chiesa, pubblicando nel 726 un Editto con il quale dichiarò il culto delle Immagini Sacre alla stregua di quello degli idoli pagani e ne ordinò la distruzione nelle chiese. All’Editto seguirono disordini in tutto l’impero che coinvolsero larghi strati della popolazione e i monaci che erano i reali custodi e spesso i creatori delle Sacre Icone. Questi ultimi, come sappiamo, cominciarono ad emigrare in Calabria portando con loro le Sacre Immagini.
A favore delle Icone scese in campo il Papa di Roma Gregorio II (715-731), il quale era convinto dell’efficacia educativa delle Immagini, soprattutto in un epoca in cui l’analfabetismo era endemico nella popolazione di tutto il mondo conosciuto, e, così, si impegnò in una fitta, quanto inutile, corrispondenza epistolare con Leone che in modo intransigente rimase sulle proprie posizioni iconoclaste e passò alla contro offensiva.
Per rappresaglia contro il Papa che difendeva così strenuamente gli iconoduli (i difensori delle immagini), Leone III strappò la Calabria alla giurisdizione ecclesiastica romana, sottoponendola direttamente a quella di Costantinopoli, anche per mantenere meglio sotto controllo una popolazione, quella calabrese, che sì parlava il greco e applicava le tradizioni liturgiche orientali ma che, contro le decisioni imperiali, era in maggioranza iconodula.
La furia iconoclasta dell’Imperatore, con il passare del tempo, si sviluppò perfino in un rifiuto dell’intercessione dei santi, alla ricerca di un cristianesimo forse originario e più spirituale ma che disconosceva, elitariamente, secoli di devozione popolare, non comprendendo che l’afflato religioso si trasmette generazione dopo generazione non per le elucubrazioni dottrinarie di colti teologi di Palazzo ma attraverso il sentimento della gente comune.
La polemica dottrinaria e quella politica non cessò né con la morte del Papa Gregorio II - poiché il successore San Gregorio III (731-741) continuò la battaglia a difesa delle immagini con uguale vigore - né con la morte dell’imperatore Leone III, perché il figlio Costantino V Copronimo (741-775) fu un persecutore di immagini anche più accanito del padre. Nel 754 Costantino convocò un Concilio chiarificatore a Costantinopoli, al quale tuttavia si rifiutarono di partecipare il Papa di Roma e i patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, e che ovviamente si concluse con la conferma della condanna delle Immagini Sacre e diede luogo ad una nuova persecuzione nei confronti dei monaci e a nuove ondate migratorie verso la Calabria.
L’iconoclastia scese di tono, nelle persecuzioni e nelle violenze, durante il regno del figlio di Costantino V, Leone IV (775-780), grazie soprattutto all’opera dell’imperatrice Irene, segretamente favorevole alla venerazione delle immagini. Nella qualità di reggente del figlio minorenne Costantino VI (780-797), Irene fece riaprire i monasteri e riammettere le Immagini Sacre nelle chiese. Irene, inoltre, convocò, nel 787, il secondo Concilio di Nicea dove fu dichiarata l’adesione alla dottrina della venerazione delle Immagini, esposta in una lettera inviata - all’imperatrice - da Papa Adriano I (772-795), nella quale si chiariva che le Immagini venivano venerate (proskynesis) non con la stessa adorazione (latria) dovuta a Dio e che l’onore a loro dovuto era comunque trasposto verso il Santo ossequiato.
27 anni dopo Nicea, la campagna iconoclasta riprese, con nuovo vigore, sotto l’imperatore Leone V l’Armeno (813-820), il quale fece rimuovere nuovamente le immagini sacre dalle chiese e dagli edifici pubblici, poiché si era convinto che le sfortune contingenti dell’Impero erano da attribuire ad un giudizio negativo di Dio sulla venerazione delle immagini.
Fu esiliato anche san Teodoro Studita, ideatore del concetto dell’equivalenza tra iconoclastia e monofisismo (eresia che ammette in Cristo la sola natura divina), poiché – a parere del filosofo – ambedue le dottrine negavano, a loro modo, la natura umana di Cristo che, in quanto solo Dio e non uomo, di certo non poteva essere raffigurato nelle Icone.
Leone V fu assassinato in una congiura di palazzo nell’820, ma i successori, Michele II il balbuziente (820-829) e Teofilo (829-842), perseguitarono anch’essi accanitamente i monaci ormai identificati come idolatri, costringendoli a nuove fughe in Calabria.
Ancora una volta fu un’imperatrice a mettere fine alle persecuzioni, la moglie di Teofilo, Teodora, che, come Irene, fu la reggente per il figlio minorenne - Michele III detto l’Ubriaco (842-867) – e che, come Irene, reinstallò le immagini e liberò i monaci imprigionati, uno dei quali, Metodio, divenne patriarca di Costantinopoli.
Fu convocato, infine, nell’842 un concilio a Costantinopoli, che rinnovò le decisioni di Nicea e portò alla scomunica definitiva dell’iconoclastia.
I monaci orientali giunti in Calabria a seguito delle persecuzioni iconoclaste crearono, in quei secoli difficili, importantissimi centri di spiritualità, svolgendo un ruolo fondamentale nello sviluppo delle Comunità e diffondendo nuovi modelli artistici ed architettonici. Ne sono testimonianza, fra gli altri, il Battistero di Santa Severina (KR), la Cattolica di Stilo (RC), San Marco a Rossano ed, in particolare, Il monastero di San Giovanni Theristis (XI sec.) che si trova nelle campagne del comune di Bivongi (RC), in una vallata sovrastata dalle pareti del monte Consolino, denominata vallata bizantina dello Stilaro. È una zona nella quale tutto parla di monachesimo e di mondo bizantino. Il monastero fu costruito sulle tracce d’un preesistente luogo di culto facente parte degli insediamenti ascetici dei monaci giunti in fuga dall’Oriente e posti sulle pendici del Consolino e delle colline circostanti. Tali insediamenti erano abitati da molti monaci ed erano così provvisti di Saperi, religiosità, misticismo ed arte, da far definire questa zona la “Terrasanta del monachesimo greco-ortodosso in Calabria”.
A seguito dell’evento iconoclastico particolarmente affollata fu anche la montagna del Sellaro, nel comune di Cerchiara (CS), per la caratteristica ricettività delle sue grotte che, in greco, erano dette “tòn armòn” e poi, per assonanza, furono tradotte nell’attuale termine “Delle Armi”. Così nacque, sul Sellaro, il grande ascetario di Sant’Andrea. Questo ascetario delle Armi comprendeva circa 40 monasteri e la sua competenza ecclesiastica si estese su un vasto territorio, situato nella parte orientale del Pollino, che andava dal Sellaro fino a Petra Roseti. Negli stessi luoghi, a quota m. 1050 slm, nel 1440, sorse l’attuale Santuario di Santa Maria delle Armi.
La disputa iconoclastica, come abbiamo detto, riguardò sia la teologia che l’estetica e il suo svolgimento, e la definitiva conclusione con la vittoria degli iconoduli, contribuì allo sviluppo del pensiero estetico medievale come di quello teologico.
I teologi bizantini pre-iconoclasti avevano ristretto il campo d’azione della pittura ai soli temi religiosi, i soli ritenuti legittimi, portando alla scomparsa in tutto l’Impero della pittura profana, così che Cristo e i Santi divennero l’unico oggetto di raffigurazione nei dipinti. L’Icona (eikòn) o Immagine Sacra non rappresentava però i corpi dei Santi venerati ma le anime; Il corpo era solo il simbolo dell’anima. Questo obiettivo estetico venne raggiunto smaterializzando il corpo dipinto, allungandolo, appiattendolo, immobilizzandolo, giungendo quasi a renderlo astratto.
Gli occhi fissi e trascendenti del Santo erano il centro focale del dipinto e, In generale, le intere immagini corporee dipinte dai bizantini non rappresentavano la forma umana ma, attraverso di essa, l’Idea, il prototipo eterno della umanità e della santità.
Attraverso l’ammirazione delle Icone e, soprattutto, attraverso la preghiera dinanzi ad esse, lo spettatore-fruitore dirigeva il suo Spirito verso il mondo immutabile delle Idee ed elevava la sua mente alla contemplazione di Dio. Per ciò si parla a proposito della estetica bizantina pre-iconoclastica di “materialismo mistico” e, così, si può capire perché le Icone furono oggetto di tanta venerazione; esse furono il mezzo spirituale dei bizantini per accedere al Sublime.
La furia iconoclastica, così ostile alla tradizione estetica bizantina (figlia legittima dell’incontro tra arte greca e pensiero cristiano), traeva di converso origine da una dottrina teologica che respingeva la cultura pittorica dei greci, considerata troppo materiale e corporea, per accogliere quella astratta e spiritualistica del mondo orientale; ricordiamo, infatti, che il territorio dell’Impero Bizantino si estendeva ben all’interno dell’Asia. Molti degli imperatori iconoclasti provenivano dalla parte orientale dell’Impero e desideravano un avvicinamento tra i cristiani e i numerosi gruppi che, a Costantinopoli, non approvavano il culto delle immagini, come i maomettani, gli ebrei e i manichei gnostici.
Anche sulla base di questa ultima considerazione possiamo ben capire il perché l’iconoclastia non trovò ingresso nel pensiero teologico e nel sentire popolare dei greci di Calabria che, in opposizione alle nuove teorie della dinastia regnante asiatica, accolsero i monaci in fuga anche perché fedeli alla tradizione teologica ed estetica tradita.
Di contro il ragionamento dei teologi iconoclastici era semplice: la divinità non può essere rappresentata pittoricamente, nessuna immagine può rappresentare la natura della divinità. La rappresentazione pittorica di Dio (perigraphè) non solo è improponibile ma anche inopportuna. Tentarla significa non riconoscere la distinzione tra il divino ed il terreno e giungere all’idolatria.
l’attività degli imperatori iconoclasti, paradossalmente, proprio per questa opposizione irriducibile alla raffigurazione pittorica del divino, ebbe un effetto positivo sull’arte profana - che come abbiamo ricordato era quasi del tutto scomparsa nel mondo bizantino pre-iconoclasta - in quanto sollecitò lo sviluppo di un fare artistico realista e naturalista prima sconosciuto. Costantino V, ad esempio, sostituì nelle chiese di Costantinopoli le scene della vita di Cristo con rappresentazioni di alberi uccelli ed animali.
tutto insomma, tranne che i Santi Ritratti di Dio.

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