NON
CHIAMIAMOLO POPULISMO, E’ TIRANNIA
Agnes Heller, una
filosofa liberale e post moderna alle prese con l’Orbanismo
Quello
di Orbán in Ungheria - al potere dal
2010 - non è populismo, termine vago che rimanda comunque ad un conflitto di
classe, ad uno scontro tra ricchi e poveri (i
populisti, di solito, fanno leva sulla gente povera), ma è qualcosa di originario, senz’altro non
economicistico, decisamente più ideologico.
Un
retaggio antico, un identitarismo
sovrastrutturale che ha poco a che fare con la gestione dei mezzi di
produzione e con le cause reali di sottosviluppo e miseria.
È puro nazionalismo etnico!
Questo
ci dice Agnes Heller, la filosofa magiara
post moderna e liberale da poco
scomparsa, nei due interventi del 2018, raccolti nel saggio “Orbanismo”, edito da Castelvecchi nel
2019.
La
filosofa precisa che il risentimento popolare evidentemente esiste (ed è fomentato ad arte) ma non è rivolto
contro le classi abbienti del paese, non contro i “capitalisti” ma contro gli
altri: gli estranei minacciosi, nemici spesso invisibili in Ungheria, che
rispondono al nome di stranieri,
migranti, clandestini portatori di una cultura diversa, ostile.
E,
come ovvio corollario, questo timore dell’alterità si accompagna all’odio per
quelle visioni e prospettive politiche che all’ethnos escludente cercano di opporre l’ethos universale dei diritti e il dovere dell’accoglienza!
Ed
ecco che l’avversario diviene anche l’Europa, la burocrazia di Bruxelles, il pensiero liberale e razionale che
esclude per principio l’identitarismo e il particolarismo giuridico degli status e delle etnie, per affermare i
diritti dell’Uomo, l’unificazione del soggetto giuridico anche oltre gli stretti
limiti dell’appartenenza razziale.
Il
nazionalismo etnico, così inteso, quindi, più che essere né di destra né di sinistra, è un incontro tra pulsioni di estrema
destra e di estrema sinistra; i vessilli agitati sono i valori tradizionali
traditi e, solo in un secondo tempo, il lavoro operaio minacciato dai nuovi
arrivati.
Il
passaggio storico che ha consentito, secondo la Heller, il ritorno in auge del patriottismo etnico, così presente in
Europa nel corso di tutto il Novecento, ed entrato in crisi solo con
l’affermazione definitiva della politica Comunitaria di pace e di sicurezza, è
stato il definitivo trapasso post moderno
da una società di classe,
differenziata per interessi economici e attraversata dallo scontro dialettico
dei partiti tradizionali rappresentativi dei diversi ceti sociali, ad una società pienamente di massa, fluida,
complessa e indifferenziata
politicamente (anche per il proficuo
operare del livellamento di un mercato florido e protetto) ma che, anche per questo, in posizione
difensiva, è divenuta astiosa e pronta a riconoscere consenso plebiscitario ai
“nuovi partiti”, veloci ad individuare il nemico semplice, colpevole di tutti i
guai in corso.
L’illiberalismo
di Orbán, quindi, punta non all’uscita dall’Europa (i benefici dell’appartenenza sono ben utilizzati dalla propaganda
magiara) ma il suo sovvertimento ideale, l’affermazione di un patriottismo
del fino spinato e della contrapposizione con il resto del mondo che, una volta
realizzatosi politicamente come maggioranza nelle Istituzioni UE, porterebbe progressivamente
alla sostituzione del “nemico” una volta preso il potere.
Non
più la UE liberale, conservatrice,
socialista (ormai sconfitta), non più i migranti respinti con la violenza
dei confini impermeabili al diritto di
asilo e all’umanità, ma gli stati nazionali della stessa UE.
La
contrapposizione tra le piccole patrie,
infatti, deraglierebbe presto dalle schermaglie diplomatiche a vera e propria
guerra continentale.
In
tal senso, l’analogia con il periodo precedente alla Prima Guerra Mondiale è
decisiva per la Heller: imperi in disfacimento cui fa eco il culto di uno
sciovinismo fanatico.
Come
mai tutto questo in Ungheria?
Per la filosofa, la
motivazione risiede in una liberazione
dal comunismo - quella avvenuta tra il
1989 e il 1991 - che non ha mai davvero significato del tutto libertà.
Le
Istituzioni della libertà, infatti,
sono difficili da costruire e da comprendere, e un popolo come quello ungherese
(come per altro quello polacco) che
non avevano mai conosciuto il liberalismo, non sono stati in grado, anche per
responsabilità diretta della classe dirigente, di introitare veramente quel
passaggio esistenziale necessario ad ogni vera democrazia occidentale: il movimento
spirituale dal riconoscersi sudditi al divenire - con la lotta e l’impegno - cittadini.
Orbán,
anche per questo, definisce il proprio sistema politico, democrazia illiberale, ed anzi, con più precisione, lo qualifica: sistema di collaborazione nazionale.
Un
vero e proprio corporativismo privo, per questo, degli aspetti dialettici
proficui del confronto e dell’alternanza democratica, che esclude, quindi,
dall’alveo della Nazione, tutti
coloro che non cedono a questa collaborazione forzata, che non aderiscono alla
volontà del tiranno.
E
la filosofa della “Bellezza della persona
buona” non teme di definire propriamente Orbán un tiranno, un tiranno che
coltiva l’antica tradizione ungherese – ma
è solo davvero ungherese? – di seguire un capo, di attendersi tutto
dall’alto, di coltivare uno scetticismo nichilistico arreso all’evidenza
dell’inutilità di ogni agire politico.
La
tirannia, come è noto, non è una forma di Stato, è una modalità di governo che spesso
mantiene inalterato l’involucro svuotato del multipartitismo, ma che, nella
sostanza, tende a fare del partito al potere (come nel caso del famigerato Fidesz - Unione Civica Ungherese - di Orbán)
non più una parte ma un meccanismo
escludente di affermazione collettiva e totale della volontà unica.
La
liberazione dal comunismo, dicevamo, è arrivata in Ungheria senza una vera
lotta di popolo, è stato un dono inatteso stabilito a tavolino da politici e
intellettuali di fronte al baratro dell’autoconsunzione del sistema sovietico.
La
transazione pacifica al multipartitismo fu - secondo la Heller - una
transizione a freddo che tenne fuori il popolo, senza neanche sentire
l’esigenza di una nuova Costituzione che, nell’affermazione dei nuovi ideali, facesse
decisamente i conti con il lungo passato di schiavitù e di asservimento al
potente di turno, non solo ai sovietici dunque.
Gli
ungheresi, purtroppo, anche con le forme della democrazia sono rimasti
sostanzialmente sudditi.
I
partiti liberali che, prima di Orbán, insieme ai socialisti, si sono alternati
al potere, non hanno avuto la forza e, forse, la volontà di contribuire a
vincere questa naturale tendenza popolare e, anzi, purtroppo, in qualche modo se
ne sono serviti per accumulare ricchezze personali e fomentare la corruzione
endemica.
Come
dice la Heller, in Ungheria (ma davvero solo
in Ungheria?) si conosceva e si conosce a pieno un solo diritto -
proveniente dal Medioevo - lo ius supplicationis: il diritto di chiedere
favori ai padroni del momento.
L’entrata
dell’Ungheria nella UE nel 2004, con un governo socialista in carica, pur
trovando il pieno consenso popolare, non produsse quindi un’alterazione sensibile
di questo stato di cose.
Orbán già in quegli anni strutturava
infatti il suo potere dall’Opposizione.
E
ciò anche per l’affermazione di una specie del tutto particolare di assetto di
potere interno al partito. Non era tollerato, come non lo è tutt’ora, nessuna
critica o articolazione ideologica, il partito si deve identificare sempre più
con il capo, devono divenire la stessa cosa (è fenomeno solo Ungherese?).
Il
centralismo democratico di Lenin, quindi, divenne progressivamente la
concezione organizzativa del Partito di Orbán e, una volta preso il potere, la
concezione organizzativa dello Stato.
Nel
2010 Fidesz ottenne la maggioranza
dei 2/3 dei seggi al Palamento e da
allora Orbán è il padrone dell’Ungheria.
E
il Primo Ministro è riuscito, ancora, in quello che fu impedito dall’ignavia di
liberali e dei socialisti: la promulgazione di una nuova Costituzione.
Una
nuova Costituzione che, secondo la filosofa ungherese, non afferma i valori
occidentali derivanti dalla entrata nell’Europa Unita (la UE, del resto, ha una Costituzione propria?) ma, attraverso un preambolo storico fortemente
ideologico, propugna princìpi fortemente nazionalistici ed accentratori, contrari
alla separazione dei poteri, con la deriva principale di una Corte
Costituzionale – orgoglio del tentativo
occidentale dell’Ungheria post sovietica – ormai nelle mani del potere
esecutivo che, di fatto, coincide con quello parlamentare.
La
stessa libertà di stampa è stata limitata, piegando i media all’influenza del
partito al governo.
I 9/10 della popolazione ungherese, ci dice la Heller, ha accesso
solo alla propaganda di regime e l’indottrinamento popolare continua negli anni
attraverso il sistema della c.d. consultazione
nazionale.
Non
un sistema di referendum - forme di
democrazia diretta disciplinate con precisione dalla carta costituzionale, vincolate al rispetto di precise norme e
soggette al controllo della magistratura - ma la distribuzione di questionari
semplici, con risposte precompilate tra le quali “scegliere”.
Un
simulacro di democrazia buono per fornire l’illusione della condivisione dei
temi dell’agenda pubblica ma essenzialmente finalizzato al lavaggio del cervello dei cittadini/sudditi.
Né
più né meno di quello che sta avvenendo in Russia, in questi giorni, con la consultazione nazionale che porterà alla
modifica della Costituzione voluta da Putin e che consentirà al nuovo zar di rimanere in sella fino al 2036.
Da
un punto di vista economico/sociale – la
Heller lo precisa più volte - nella nuova tirannia ungherese anche le forme
di distribuzione del reddito non rispondono più alle classiche logiche occidentali,
tanto nel bene quanto nel male.
Non
si ha ad esempio a che fare più con una corruzione “tradizionale”, quella - per
capirci - in cui un ministro corrotto si piega, per interessi indicibili, agli
uomini d’affari; non si tratta più di scambi di favore alle spalle dei
cittadini inconsapevoli.
La
nuova corruzione di Orban, che la Heller definisce rifeudalizzazione, costituisce uno spaventoso passo indietro nel pre-moderno, supera all’indietro la
corruzione capitalistica per attuare una relazione dare/ricevere/ricambiare istituzionalizzata e destinata a vivificare
una precisa casta di potere, un’oligarchia simile ad una reggia di cortigiani
che risponde direttamente al tiranno.
Non
conta più, quindi, ingannare il popolo e aggirare le norme ma strutturare,
attraverso la corruzione, un centro di potere che vive di rendita – finanziata dai trasferimenti UE - e che struttura il consenso nel sistema.
Una
vera redistribuzione delle risorse al
rovescio (così la definisce la filosofa) che sconfessa le dinamiche
ordinarie del Welfare State
europeo (dove le risorse vengono
redistribuite per legge a favore dei più poveri) per realizzare una ripartizione
interessata nella quale ad ingrassarsi sono gli ottimati di partito.
Come
mai gli ungheresi non reagiscono a questo status
quo che va contro i propri interessi?
Perché,
al contrario, proprio i poveri, gli
emarginati, i nomadi, hanno votato e continuano a votare per Orbán?
Per la Heller la
spiegazione risiede nel successo di un fenomeno
nuovo.
Un
nuovo tipo di tirannia, appunto, –
ancora non perfettamente definibile – nel quale (anche per le trasformazioni sociali
intervenute) sono venuti meno la ricaduta politica dell’appartenenza ad un
preciso ceto sociale e alle tradizioni familiari di voto.
La
popolazione – assurdamente – non è più così interessata alle questioni
economiche, alla corretta redistribuzione e all’accesso a nuovi servizi,
qualcosa è cambiato in profondità (o è
tornato all’originario teologico-politico): l’ideologismo si è affermato
sugli interessi rappresentati dai partiti tradizionali; ci sono altri problemi,
altri odi!
La
crisi dei partiti storici, travolti dalla corruzione e dalle mancate risposte
epocali, hanno contribuito quindi a stravolgere le dinamiche del consenso.
Gli
argomenti principali del dibattito non sono più le retribuzioni, le tasse,
l’occupazione.
I
poveri e gli esclusi – come per altro verso
il ceto medio - non sono più una classe, non hanno più chiare posizioni
dialettiche, tutto è divenuto fluido, incerto.
Le
ideologie, per la Heller, ricominciano a prendere il posto degli interessi economico/sociali, la battaglia politica
si sposta dall’affermazione della giustizia e dei diritti al campo delle
politiche squisitamente campanilistiche, quello dello scontro “irrazionale” tra noi e gli altri.
L’identità
nazionale di tipo etnico straccia il pluralismo insito nel concetto formale e
giuridico di cittadinanza e diviene ideologia negativa, una ideologia che
non promette nulla di buono per il futuro, che non si impegna nella costruzione
teorica di utopie utili a fecondare
di senso l’attualità storica ma che, invece, fondandosi sulla paura, giunge a
negare l’esigenza di cambiamenti radicali del reale, svilisce l’ansia
riformistica, disconosce il “dover essere”, tarpa le ali ad una nuova stagione
di Welfare State, boicotta il sogno
federalista europeo.
In
una parola: “nega” per opporsi, per distruggere senza vocazione e visione.
Ciò
che conta in questo nuovo quadro
nichilistico di ordine e “sicurezza” è – secondo la filosofa - la retorica
di una superiorità etnica immotivata ma buona per gonfiare il petto di chi si
sente escluso e vittima del sistema senza
però comprendere le reali forze sociali in campo, senza intendere lo scontro in
atto, rifugiandosi, appunto, nel convincimento di una romantica supremazia, detestata dai nemici ideologici di sempre: il multiculturalismo, il liberalismo, il
socialismo.
E
per questo la crisi dei rifugiati in Europa è stata manna dal cielo per Orbán (ma
solo per Orbán?) il quale non ha mai parlato – ci dice la Heller – di
rifugiati o di migranti ma, più propriamente, di “orde di migranti”, di orde
pronte a violare la cristianità e la cultura europea: tutti invasori musulmani
pronti a violentare mogli e figlie.
La
tradizione è così divenuta feticcio, inganno, specchietto per le allodole, e
così è capitato che i perdenti del regime di Orbán - i veri esclusi dall’oligarchia di potere, i poveri senza coscienza di
classe e speranze concrete- hanno
continuato a votare per il tiranno “democratico”, conquistati da una oratoria
semplice e indifferente al moto sociale.
I
tiranni, poi, imparano l’uno dall’altro e - dalla Turchia di Erdogan - il Primo
Ministro magiaro ha appreso la necessità di individuare una faccia da usare
come bersaglio dell’odio popolare.
In Turchia è il predicatore Muhammed Fethullah Gülen,
in Ungheria è l’imprenditore e attivista George Soros.
Nato
in Ungheria, statunitense, miliardario, ebreo, impegnato per i diritti dei
migranti, fondatore di istituzioni universitarie libere e indipendenti, Soros
ha tutto per essere rappresentato come un vero e proprio “demonio”, nemico
degli interessi nazionali dei propri compatrioti!
Ed
ancora, quindi, nulla di propositivo, nessuna visione per il futuro, nessuna edificazione
ideale, nessun sogno … solo una reazione difensiva – e per questo nichilista – che, attraverso l’ordine del potere e
della violenza discriminatoria di Stato rafforzata dagli odi del capo, si
intesta arbitrariamente il compito epocale di “proteggere” gli ungheresi, la
loro terra invasa, il proprio sangue disconosciuto, la loro cultura violata, la
religione vilipesa, la famiglia tradizionale tradita, la supremazia maschile
irrisa.
E
che il “pericolo” e il contagio venga
dall’autonomia scolastica, universitaria, spirituale, lo dimostra – ci dice la
Heller - il fatto che nelle Università pubbliche ormai lo Stato ungherese nomina
un cosiddetto cancelliere, al di
sopra del rettore, per gestire un insegnamento conforme ai diktat governativi.
Nel
1914 l’Europa, con la nascita del nazionalismo etnico, commise il suo peccato originale, la Prima Guerra
Mondiale che portò morte, distruzione, una pace ingiusta … alla nascita degli
stati totalitari, all’Olocausto.
Certo,
tutto questo non ritornerà ma qualcosa di analogo potrebbe, ora, proprio a partire
dall’Ungheria (ma solo dall’Ungheria?)
affermarsi.
Ed
ha ragione Hegel - afferma Agnes Heller - l’unica cosa che apprendiamo dalla Storia è
che da essa non apprendiamo nulla.
Enzo
Musolino
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