venerdì 25 febbraio 2022

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martedì 10 agosto 2021

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mercoledì 21 aprile 2021

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sabato 23 gennaio 2021

Spes contra spem. Il diritto, la galera e la speranza

 Sono stati da poco pubblicati – editore Reality Book – gli atti dell’ottavo congresso dell’Associazione Radicale Nessuno Tocchi Caino che si sono svolti nel dicembre 2019 presso il Carcere milanese di Opera. 2/6 La “nonviolenza” è stata la l’impronta spirituale emergente da tutti gli interventi dei relatori - molti detenuti della stessa struttura - tutti ad evidenziare come i “fini”, anche quelli nobili, sono pregiudicati dai mezzi, perché sono solo questi che li determinano concretamente, svelandone – troppo spesso nelle nostre carceri - le pulsioni repressive e, dunque, violente. È capitato così, ad esempio, al detenuto Francesco Di Dio, ergastolano senza speranza di benefici che è riuscito ad uscire dalla cella - dopo trenta anni di reclusione - solo morendo per malattia di carcere (per malattia amplificata dal carcere nel quale le cure sono, spesso, negate), evadendo, quindi, nell’unico modo possibile – la morte fisica - per la sua coscienza e umanità maturata e mutata (senza che all’autorità importasse alcunché) nel corso di una vita perduta dietro le sbarre. Esiste, infatti, in Italia - nel 2020 !! - l’ergastolo ostativo, la pena illiberale di una presunzione assoluta di pericolosità sociale, la fattispecie propria di un ordinamento penitenziario che presume l’irrealtà dell’immutabilità del condannato, una cristallizzazione conservatrice nemica del vero, dell’esperienza di tutti noi. Sono dovute intervenire, nel 2019, contro il legislatore, le Alte Corti, quella di Strasburgo e la nostra Corte costituzionale, per tentare un ritorno alla realtà, al buon senso, per riaffermare un principio di verità; lo stesso ribadito più volte, ad esempio, dalla filosofa perseguitata Agnes Heller nel suo percorso esistenziale da cittadina ungherese, europea, vessata e tormentata da tante, troppe, ragion di Stato (prima quella nazista, poi la sovietica, da ultimo quella di Orban): è la contingenza il paradigma della modernità: il rischio e, allo stesso tempo, la speranza di una mutazione spirituale, di un sempre possibile salto etico che giunge alla affermazione della “bellezza della persona buona”, alla rappresentazione e alla valutazione vitale di un percorso, di una evoluzione nonviolenta che salva l’individuo, che salva il mondo Tutto ciò, evidentemente, cozza con l’esclusione – automatica - dal beneficio dei permessi premio - senza alcuna valutazione giudiziale nello specifico, nel merito – derivante dal fatto che il condannato non collabori con la “Giustizia” come i pubblici poteri vorrebbero. La “non collaborazione”, ci dice la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non implica inevitabilmente che il recluso non si sia redento dei suoi atti, che sia ancora in contatto con le organizzazioni mafiose, e che rappresenti dunque una minaccia per la Società. La Corte afferma, infatti, che la non collaborazione può dipendere da altri fattori, come per esempio il timore di mettere in pericolo la vita dei propri cari. Al contrario, dunque, da quanto fino ad ora presunto dallo Stato italiano, la decisione se collaborare o meno, non è totalmente libera, non è vera scelta esistenziale moralmente inconcussa ma è spesso eterodiretta, vincolata ad una esigenza di tutela di altri. Tutto è rimandato, quindi, alla valutazione del caso concreto. L’ergastolo ostativo, come le ispezioni anali, pratiche e grammatiche ancora presenti nel nostro ordinamento, occorre ricordarlo, sono premoderni: sono la fissità di una tradizione crudele e ostile all’uomo; tanto ostile a Caino quanto all’Abele che troppe volte rischia di 3/6 entrare in carcere. Spes contra spem, dopo il Congresso di Opera, compare nel logo di Nessuno Tocchi Caino: la fede di sperare contro ogni speranza, un motto tratto dalla Lettera ai Romani di San Paolo, tradotto da Marco Pannella - nello Spirito - come una ontologia fattiva, un’incarnazione propositiva e priva di resa contro la passività sterile della “cosa sperata”, di un’oggettività improduttiva che si infrange come destino ineluttabile senza la nostra partecipazione creatrice, creatrice anche della fede, della stessa divinità in Noi. Siamo noi, dunque, Speranza: anche gli ergastolani sono speranza se riescono, come quelli di Opera, a tramutare la disperazione dei morti viventi in impegno politico e sociale per il progresso morale e giuridico della Nazione, anche dentro la cella, come da un monastero laico di sofferenza e condanna che ci inchioda alle nostre responsabilità civili, alla bontà della battaglia inesausta per l’affermazione dello stato di diritto contro l’abuso di Stato. D’altra parte, già Hannah Arendt, lo ha sempre rimarcato nei suoi scritti: ogni automatismo chiuso alla Singolarità rappresenta, perché disumano, la “banalità del male”. La banalità burocratica e ottusa di meccanismi lineari e ciechi alle differenti posizioni degli individui reclusi; differenze che dovrebbero sempre meritare, invece, attenzione distinta. Automatismi che affermano come l’uomo sia “per la morte”, vittima “originaria” di un destino irrecuperabile. L’uomo, in realtà, è “per l’inizio”: la nascita e la rinascita sono sempre possibili, solo così – nella Promessa e nel Perdono - il mondo si struttura come antagonista all’evoluzione ctonia della Natura, contro il meccanicismo (troppo spesso irresponsabile) di un dio morale – lo Stato – che ancora oggi, in Italia, ad esempio, nega valore alla coscienza, al lavoro interiore, al processo di mutamento che merita attenzione e che non può essere rigettato solo perché non si è aderito ad una qualche forma di collaborazione processuale, giudiziaria – che pure è importante - ma che nulla ci dice davvero sull’evoluzione della persona e che non può sostenere un parametro assoluto di pericolosità sociale anche se, magari, si è in cella da trent’anni con il diabete e le dita dei piedi amputati. Il cambiamento delle coscienze è vita ci dice il Congresso di Opera: e Nessuno Tocchi Caino si riconferma tale nel prendere ancora parte per la responsabilità personale – altro che tutti liberi per partito preso!! - perché solo partendo dalla responsabilità, solo riconoscendo qualità a percorsi seri di recupero e lavoro (interiore ed esterno) si può discriminare davvero tra mutamento e ottusità, non, di certo, limitandosi a verificare una formale e strumentale dissociazione processuale. E tutto questo, ovviamente, può e deve essere stimato caso per caso, con attenzione e studio, e non lasciato al dispositivo di una presunzione legale assoluta. La cristallizzazione sul fatto, impedisce vera responsabilizzazione, interrompe un vero e genuino recupero sociale, un recupero alla civiltà che non può e non deve svolgersi esclusivamente all’interno di un edificio di pena, ma che deve coinvolgere la società dei liberi, mostrare ai carcerati un “oltre”, una via possibile di libertà, contro un “destino” 4/6 ereditato e segnato dalle proprie condizioni familiari, dalla propria “origine”, da uno stigma che il giustizialismo non fa che esasperare e trasmettere, nell’odio, da padre in figlio, senza speranza dunque. Questo è stato, quindi, il congresso di Opera: un inno alla responsabilità individuale, alla coscienza, al cambiamento, al diritto mite, ai benefici carcerari esperiti come occasione di nuova vita, di salvezza sociale, comune: non c’è facile assoluzione ad Opera, non si assolvono gli stessi carcerati intervenuti, non gridano l’innocenza di Abele ma il tormento di un Caino in movimento, di quel Caino che Dio protegge dalle mani degli uomini (Genesi 4,15). Lo ha dimostrato il sindaco Stefano Castellino, sindaco di Palma di Montechiaro, vittima di mafia, che proprio ad Opera, di fronte agli aguzzini della sua famiglia, ha saputo dialogare con i carnefici proponendo, appunto, la rinascita, la risurrezione interiore, e non una dissociazione/oblio di responsabilità e futuro, davvero impossibile per un passato che pesa e che sempre peserà ma che può essere utilizzato come slancio “nuovo”, solo se lo si libera dal dispositivo ottuso di una pena di morte lenta, differita, lasciata all’esecuzione delle tante malattie di carcere, alla tortura del decadimento senza cure efficaci, al cancro dell’assenza di diritti e dell’articolazione altrui – Sovrana - dei propri bisogni, dei bisogni di un individuo diminuito per sempre. Le sentenze delle Alte Corti fin qui intervenute, al di là della stretta applicabilità su questo o quel beneficio penitenziario, affermano una cosa precisa: non può esistere una proibizione automatica a un percorso di risocializzazione! Questo, tutto questo – battaglie, congressi, pronunce, sentenze e reazioni -provocano il mondo liberale, la sinistra, gli istinti riformistici e personalistici di tanti democratici: la destra eversiva e giustizialista, ben strutturata in Italia e “simulata” nelle diverse offerte politiche, si presenta sempre di più, invece, con le fattezze truci di una statolatria feroce, di un ordine imposto senza pietà e duro, solo e comunque esercitato contro i deboli, contro le forme emergenti e “facili” di un “male” che ha più profonde origini. E questa visione, questa radicalità del cappio e delle chiavi metaforicamente gettate lontano da ogni speranza di respiro e vita, si accompagna ad una macchia sociale sempre più forte che colpisce non solo i singoli, gli emarginati, i violenti per assenza di alternativa, ma anche interi territori: i calabresi, i siciliani, i meridionali; una fatalità di gruppo e del “paese” (pensiamo a San Luca o a Platì), di una territorialità rappresentata come irredimibile, contro cui va scatenata la forza di un Diritto tramutato in “diritto di guerra”, di rappresaglia, di vendetta. Ed ha ragione Gioacchino Criaco, lo scrittore di “Anime Nere”, pure lui intervenuto ad Opera: da bambino, ad Africo, in Calabria, sapeva già riconoscere i “destinati”, tra i giochi, poteva già profetizzare una vita già segnata da Stato e da Antistato: “tu omicida, tu guardia, tu indifferente, tu Abele, tu Caino”. La profezia dell’automatismo, quindi, che è divenuta realtà del carcere italiano, lasciato all’affollamento di tortura e al destino di morte. 5/6 Pensare e lottare affinché il "mondo" – al contrario - si strutturi e si regga sulle "parole" vissute che intercettano i valori universali dell'umanità, questo è emerso ad Opera! E questo ha davvero il tono dell'afflato religioso! Senza questo misticismo concretissimo siamo perduti ed è lo stesso misticismo "radicale" che era vivo in Marco Pannella: quel suo credere in "Altro" - rispetto alla violenza del presente, del carcere, della proibizione, del clericalismo di potere - che cambia la realtà e la migliora, tenendo alta la fiaccola della Persona e dei suoi diritti. Per tutto questo, quindi, il Congresso di Opera (il congresso di Nessuno Tocchi Caino) è stato speciale, davvero il lavoro svolto da questa specialissima Associazione ha in qualche modo inciso, ispirando e motivando la giurisprudenza delle Alte Corti! Non si può – dobbiamo ribadirlo - inchiodare un uomo ad un "fatto", non si può presumere l’immobilità della coscienza, non si può costringere la libertà per sempre, negandole sviluppo e opportunità solo per i bisogni del Potere; magari di un Potere fortemente motivato nei suoi buoni propositi e fini e, proprio per questo, non meno pericoloso nella sua assolutezza.

Indifendibili: riflessione sul processo penale

 Il dibattimento processuale, nel contraddittorio tra le parti, nella formazione delle prove nel contesto di garanzie precise, è complessità e, come tale, è sempre aperto a contraddizioni e aporie. Nella modernità, le cui categorie fondamentali sono la contingenza e l’assenza di un fondamento assoluto, questa complessità è un valore più che un destino da compatire. Lo scopo del processo penale liberale - democratico, costituzionale - non è l'accertamento della verità/certezza, di una responsabilità monolitica che inchiodi, per sempre, l’individuo alle sue azioni/omissioni ma è la più articolata e multiforme verità processuale, frutto di un procedimento formale che coniughi indagini, garanzie, pluralità d’approcci e visioni, appunto. E meno male che sia così! Nel primo caso avremmo a che fare, infatti, con l’astrattezza di una verità metafisica, con le conferme giudiziarie di un apriori ideologico, moralistico, ghettizzante, la cui “ricerca” – riconosciuta come doverosa e imprescindibile - condurrebbe, come ha condotto in passato, ad un processo extra ordinario per crimini - cosiddetti gravi – sottratti, quindi, all’inutile dibattimento, alle forme del giusto processo che, ovviamente, spariscono innanzi all’evidente colpevolezza del reo, del reietto, del già escluso socialmente. Forme esperite, dunque, come un impaccio sulla strada dell’affermazione di una Giustizia immediata, sommaria, intesa propriamente come vendetta e rappresaglia. Il senso del processo penale in un paese civile, però, non è cedere alle pulsioni del momento, allo schianto del “fatto”, alla cristallizzazione dell’evento, all’ istinto di ritorsione ingenerato dal sangue innocente dell’Abele che giace contro il Caino omicida che fugge, innanzitutto, da se stesso. Con ciò concorrendo – con la violenza propria di ogni sostanzialismo grossolano - alla mostrificazione, alla sottrazione di umanità e diritti. A che serve, infatti, sacrificare definitivamente anche il reo sull'altare del crimine commesso? Che bene ne avrebbe la Società plurale e multiforme dalla sanzione senza appello che colpisce l’irredimibile, colui a cui non è concesso neppure il diritto di mutare, di risorgere dalla tragedia della colpa? Più prosaicamente, infatti, il processo moderno è una forma dell'articolazione sovrana nel monopolio della forza. È una risposta “decisa” di sicurezza e ordine sociale che si realizza – nella fictio iuris – attraverso l'accertamento di una equiparazione (im)possibile tra verità reale e verità legale, attraverso il principio di contraddittorio nella formazione della prova e l’applicazione di una pena che – aperta al ruolo del tempo e alla maturazione nell’ elaborazione di una coscienza duttile - tende di principio alla riabilitazione sociale del criminale. In tal senso, l'auto affermazione di una legittimità debole propria della Modernità Occidentale - attraverso il prisma della Libertà dei singoli di fronte all’Autorità costituita - non sconfessa - come pure appare ad un'analisi frettolosa - il ruolo della Tradizione, della Colpa, della Responsabilità etica ma le “purifica”, sottraendone l’aculeo dell’arbitrio spacciato per Verità da imporre. 3/4 Le persone buone, infatti, esistono anche oggi e ciò che esiste è sempre possibile, ci ha insegnato Agnes Heller ! L'impegno responsabile, la “stampella” sempre necessaria dei principi e dei valori universali, sono perfettamente operativi nelle coscienze di chi, ancora adesso e per fortuna, si interroga sull’ influsso delle proprie e delle altrui azioni o omissioni sul prossimo, sugli innocenti sugli esclusi. Ciò che è venuto meno, ovviamente, è il portato di certezza ontologica, la “sostanza escludente” di certezze vissute – e operate - come inattaccabili e solidissime, l’impulso “auto -assolvente” per una giustizia schematica che non riconosce valore al dubbio, alla complessità dell’evento. L’origine della persona buona è divenuta, quindi, trascendente, non garantita da alcun culto o rito e il semplicismo manicheo – la rigida separazione tra giusti e reietti – è intuito dai moderni, o almeno dovrebbe esserlo, come un feticcio ideologico che, comunque, si attiva con ferocia – questa è la storia universale delle carceri – quasi sempre nei confronti degli estromessi, di chi vie ai margini, dei poveri di spirito. Ecco perché, nel processo penale, la certezza e la verità non sono “macigni” che si impongono contro le resistenze artificiose delle garanzie al reo ma sono il risultato operativo di un procedimento articolato, condiviso, plurale, tragico, mai davvero esatto e compiuto, che emerge dalle spoglie di Abele – dalla forza necessaria per acclarare per quanto possibile la responsabilità individuale – ma che emerge anche dai passi, dagli inciampi, dagli errori, dallo spirito e dalla carne viva di Caino che fugge dalla propria umanità e fratellanza ma che (è sempre possibile) può farvi ritorno. Caino sul quale, in ogni caso, precipita l'editto preciso di Dio: “Nessuno lo tocchi !” La Giustizia, infatti, non è davvero di questo mondo: la condanna immutabile, ostativa, senza speranze, non è appannaggio dell'uomo e delle sue incertezze e debolezze; può essere solo l’illecita appropriazione delle tante scimmie di Dio, dell’ansia sostitutiva di un Potere “giusto” scevro da limiti. Ecco perché, a mio parere, l'avvocato che qualche giorno addietro ha respinto la nomina, quale legale di fiducia, di un femminicida, dichiarando: “io sto da tutt'altra parte”, non ha fatto un buon servizio al suo ruolo, alla giustizia democratica. Che senso ha, infatti, rivendicare una tale distanza antropologica? Affermare l’abisso che separa vittima e carnefice ponendosi, ovviamente, al sicuro, sulla sponda giusta, affermando una impropria alterità? Questa reazione, ovviamente popolare, contraddice lo spirito del Presente, lo sviluppo sano della nostra civiltà giuridica. Fatto salvo il diritto di ogni avvocato, infatti, di non accettare un incarico, non è però corretto – pubblicizzandone sulla stampa le motivazioni “morali” - anticipare la condanna, depotenziare il processo, contribuire a renderlo inutile nel dibattito pubblico, consegnare il “colpevole” alla mercé scandalizzata dei suoi ormai “ex simili” (non più pari) come sempre pronti - nella Maggioranza - a gridare in coro: è indifendibile! 4/4 E quanto sarebbe stato bello invece (e parlo propriamente della “bellezza della persona buona”) se proprio un’avvocatessa esperta, impegnata nella tutela delle vittime di violenze e abusi; se proprio un giurista degli ultimi, degli esclusi, degli stigmatizzati, avesse onorato l'indispensabile compito della difesa tecnica anche del “Nemico”. Ne avrebbe goduto il Processo, l'esito di un dibattimento garantito, una condanna “giusta”, il riconoscimento salutare e sincero che è sottilissimo e fragile il crinale che separa il povero diavolo dal povero Cristo.

L'APOCALISSE DEL CATTIVISMO

 L’affermazione di Joe Biden apre una nuova strada per i democratici non solo negli Stati Uniti.

La vittoria del Centrosinistra attraverso proposte improntate al buon senso, allo sviluppo del ceto medio, all’incremento dell’offerta pubblica in assistenza e giustizia perequativa, al multilateralismo in politica estera, hanno conquistato un elettorato sfiancato dal cattivismo di Trump, di un Presidente indifferente all' esplodere delle diseguaglianze e tutto improntato ad un isolazionismo - prima di tutto etico - che tradisce la missione cosmopolita della democrazia americana.
I cittadini alla fine lo hanno compreso: l’America first è l'America sola, deprivata della collaborazione europea, irrilevante sui grandi temi come la tutela ambientale e lo sviluppo di una tecnologia sostenibile, senza voce credibile di persuasione al di fuori delle grandi agenzie dell'Onu di cui si è dichiarata nemica.

Con Trump è andata di moda - ed è stata esportata in tutto il mondo, pensiamo al nostro Salvini - la polemica contro il politically correct, contro il “dialogo eterno” e non violento (tipica caratteristica del parlamentarismo), contro il buonismo dei democratici, dipinti come ipocriti, nemici dell’interesse nazionale, segretamente dediti all' intelligenza con il nemico e cultori delle più nefande scelte progressiste antitetiche ai valori tradizionali cristianisti.
Valori – occorre precisarlo - utilizzati come armi mediatiche buone per consolidare il consenso dei conservatori.
E di nuovo il caso Salvini, con i suoi crocifissi e le sue madonne agitate a mo' di sfida contro “gli altri”, ritorna ad arricchire il caso esemplare!

Oggi, dopo il voto americano, cosa rimane di tutto questo?
Qualche nemico in più in Medioriente, la sfiducia europea, l’acuirsi del conflitto politico/economico con la Cina (divenuta, ormai, paradossalmente, campione del “mercato” e dello scambio contro il protezionismo a stelle e strisce), il trionfo dei negazionisti anti scientifici di ogni genere, il dilagare di una pandemia lasciata libera di scatenarsi contro neri e poveri, un Partito Repubblicano - quello di Lincoln - senza più anima e vittima dell’ illusione sovranista e, da ultimo, l'attacco armato contro la sede della democrazia americana, il Congresso, divenuto bivacco e ostaggio di un’orda multiforme di sostenitori del “potere bianco”, di un autoritarismo macchiettistico ma proprio per questo - perché acefalo - non meno pericoloso.
Questo è l'esito dell’estremismo settario, questo il destino degli “scorretti”, di questi “anarchici/autoritari” che a fin di picconare regole condivise, pratiche civili, norme di correttezza, speranze di pace, Istituzioni giuridiche, degradano inevitabilmente verso la violenza autodistruttiva.

Molti si domandano – e a buon titolo - cosa diranno oggi, sconfitti, i trumpiani di casa nostra, l’articolazione partigiana e sgrammaticata della Destra italica, urlatrice e becera: quella delle navi da affondare con i migranti a bordo, ad esempio, che, per un certo periodo, ha fatto la fortuna, per il consenso popolare ottenuto, di politici fortemente interessati al semplicismo retorico come Salvini e Meloni.
A mio parere, invece, sarebbe molto più interessante concentrarsi sull’ evoluzione interessata e naturalmente trasformista di un altro mondo: non degli estremisti per storia e (in)cultura ma di quei “moderati”, pseudo cattolici, gente “perbene”, cultori della palude e dello status quo, “produttori” e sedicenti persone “del fare”, sempre ambigui per partito preso che , in questi anni, a debita distanza certo, hanno appoggiato – nel Centrodestra - la deriva impropria di un mondo conservatore divenuto illiberale, demagogico, plebiscitario, autoritario e che ha visto in Trump, appunto, e anche in Orban, i campioni più promettenti per consenso e carica violenta.

In fondo, a pensarci bene, è una tentazione immanente e una declinazione sempre possibile di una certa “borghesia” italica (e non solo): il revanscismo di un “fascismo eterno”, vissuto come scorciatoia e soluzione “alessandrina” ai dilemmi, agli intrecci e alla complessità di una società plurale, discorde, contraddittoria, agitata dalla contingenza, ingovernabile in fondo nei suoi fermenti sempre nuovi, e che si vorrebbe, invece, “ridotta”, semplificata (perché così più controllabile) in una contrapposizione binaria “moralistica” del tipo: noi popolo/loro elites; verità-certezza/dubbio nichilistico; decisionismo/scetticismo rinunciatario; tradizione sicura/riforma senza identità, che, come tale, svela solo l'ansia autoritaria e di dominio di chi la coltiva, tutto il contrario di un sincero atteggiamento liberale democratico, aperto alle libere dinamiche del moto sociale.

Tra questo “bianco o nero” prevale oggi, per fortuna, l’approccio misto, non escludente, multietnico e multiculturale di kamala Harris: il “proprio” di un’America composita che fa delle differenze ricchezza e buon viatico per il futuro.
È questo, in fondo, il significato vero della parola tradizione, che non ha nulla di statico ma che ha a che fare con il “movimento”, con il “tra-durre”, il trasmettere, il decifrare - nell’ attualità - il meglio del retaggio del tempo.

venerdì 18 settembre 2020

NULLA DI CIO’ CHE E’ UMANO CI E’ ESTRANEO

 


Aldo Moro (1916-1978) fu deputato dell’Assemblea Costituente, fondatore della Democrazia Cristiana, professore universitario, Ministro degli Esteri, della Giustizia, della Pubblica Istruzione, Presidente del Consiglio dei Ministri per cinque volte. Nel 1978, come è noto, fu ucciso dalle Brigate Rosse.

Il ruolo politico di Moro, la forza delle sue posizioni, però, non possono essere relegate nell’ambito della pur importante vicenda del compromesso storico, dell’ultima parte della sua vicenda pubblica, del rapimento e della tragica morte.

Al di là delle fertile letteratura al riguardo, infatti, a mio parere, l’opzione del c.d. compromesso storico si comprende, dal punto di vista di Moro, solo se si inquadra come tentativo di coinvolgimento degli esclusi, nel senso dell’allargamento della base democratica italiana. Un tentativo indirizzato decisamente verso l’abbandono delle inutili ed inefficaci velleità rivoluzionarie.

L’unità delle forze popolari - come per la strategia del centro-sinistra nel corso degli anni 60 -  ha senso per Moro solo come spinta propulsiva tesa al riconoscimento, prima politico e poi giuridico, delle esigenze del moto sociale libero e democratico, contro ogni affermazione monopolistica dello Stato e contro le affermazioni veritative delle forze eversive.

Fu proprio questo atteggiamento profondamente anti rivoluzionario a catalizzare contro Moro l’odio di classe dei brigatisti.

Detto questo – e prima di quanto detto - c’è dunque un Moro che va riscoperto ed è il Moro padre costituente e causa della svolta riformistica e progressista della DC nell’ambito del centro-sinistra.

Non può essere infatti compreso il senso “democratico” dell’apertura successiva ai comunisti e la tragica sua scomparsa senza intendere le fonti del riformismo di Moro, un riformismo già brillantemente presente nei discorsi che qui analizzeremo e che sono stati da ultimo pubblicati nel 2018, sotto il suggestivo titolo Il fine è l’uomo, dalle Edizioni di Comunità.

 

I TRE PILASTRI

È il titolo di un celebre intervento di Moro all’Assemblea Costituente, nella seduta del 13 marzo 1947. Si trattava allora di discutere dei primi articoli del progetto costituzionale, dei principi fondamentali.

In questo intervento Moro chiarisce come sia importante evitare che la Costituzione repubblicana assuma un carattere settario, di chiusura preventiva al pluralismo democratico e al libero moto sociale.

Egli, però, distingue tra una c.d. “ideologia di parte” e una “ideologia necessaria”. La prima è da rigettare in quanto escludente, la seconda, invece, va precisata e difesa.

E Moro, in questo contesto, si rivolge tanto all’On. Togliatti che all’On. Lucifero. Si tratta, per il dirigente democristiano, di affermare un’ideologia che diventi un “richiamo morale ed umano” e che consenta di prendere posizione e produrre decisioni non per dividere, per fomentare nella polemica la dialettica politica ma per precisare una “formula di convivenza” che costituisca una premessa necessaria e sufficiente al libero dibattito.

Se non si ragionasse così della fonte ideale della Costituzione, se si rinunciasse alla origine metagiuridica della comunità nazionale, alle ragioni fondative del “Nuovo Stato”, allora la Carta diverrebbe, vuota di senso e di fini, uno strumento “antistorico e inefficiente”.

L’On. Lucifero, partendo, invece, da posizioni tradizionalmente neutraliste, nel senso di un rivendicato approccio non contenutistico alla Dottrina dello Stato - potremmo dire indifferentista e formale - chiedeva di contro una Costituzione non “antifascista” ma, più propriamente, “a-fascista”.

Moro, di fronte a questa prospettiva, ribatteva affermando la necessità di un “elementare substrato ideologico” che funzioni come paradigma comune, come principio base, ricchezza riassuntiva e potente di una Forza Costituente, di un’emergenza viva di rinascita e cambiamento che fu l’origine del ritrovato Stare assieme dell’Italia sopravvissuta alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

In tal senso, i “valori della personalità e della solidarietà” divengono, per Moro, l’affermazione storica dell’opposizione radicale ad un movimento – quello fascista – che ha travolto le coscienze e le istituzioni d’Italia.

La Costituzione, quindi, il suo carattere doverosamente “antifascista” sorge dalla lotta e dalla “negazione”, e per questo non potrà mai dirsi “a-fascista”: perché ciò significherebbe astrarsi dalla temperie della vita concreta e dalla furia di un passato non ancora passato – e forse non lo è ancora oggi – per l’affermazione dottrinaria e professorale, astratta e morta, di una purezza scevra dalla contaminazione partigiana che, come tale, come freddo documento sottratto al fuoco dell’origine eccezionale, non avrebbe la forza di vivificare lo Stato nuovo e funzionerebbe solo da documento buono per legittimare il “rifugio nel puro teologico”, lasciando al succedersi delle maggioranze parlamentari il compito di determinare gli scopi dell’agire pubblico.

Tale ideologia, l’antifascismo, è per Moro, quindi, una “sostanza comune” di Libertà e Giustizia che, per ciò, nasce in maniera imponente dalla Storia e dalla convergenza vittoriosa delle forze contrapposte alla barbarie della cultura del Partito unico, totalizzante e autoritario.

Tale ideologia e “base” deve trovare il suo locus giuridico in quegli articoli iniziali, fondamentali, che, poi, nel testo definitivo, si raccoglieranno nei primi tre articoli della Costituzione.

L’ideologia necessaria, quindi, si esprime, per Moro, come “volto storico” della Repubblica e come indicazione dei fini della stessa.

Presente e futuro, quindi, nella negazione del passato, danno forma allo Stato, concretizzano l’Ordinamento Giuridico.

In tale contesto, dunque, non è la Norma fondamentale a legittimare di per sé, nelle condizioni logico-trascendentali del sistema giuridico chiuso, la forza cogente del nuovo assetto pluripartitico e democratico ma è la rottura ideologica ingenerata dalla lotta di resistenza contro il Ventennio a costituire la forza costituente che “significa” e che impronta di sé l’ordinata convivenza civile, anche operando esclusioni, quindi, nell’affermazione della scelta per la Libertà e la Giustizia.

Moro è chiaro sul punto: “Non avremmo ancora detto nulla, se ci limitassimo ad affermare che l’Italia è una Repubblica, o una Repubblica democratica”, occorre spingersi ancora innanzi, precisare l’orientamento autentico della Repubblica: un orientamento storico, una presa di posizione ideologica che si fonda su “tre pilastri”: la democrazia in senso politico, in senso sociale e in senso umano.

Su queste fondamenta, quindi, lo stesso concetto di Sovranità, così carico di potere e di violenza, si raccoglie e si scioglie nella massa di tutti i cittadini egualmente capaci di determinare, nel loro libero associarsi, nel voto e nella rappresentanza parlamentare, la gestione della Cosa Pubblica, “nei limiti” della Costituzione e delle leggi.

A nessuno, a nessun Sovrano, quindi, neanche nell’emergenza dello stato di eccezione “da lui stesso dichiarato” (come ci ha insegnato Schmitt), spettano i “pieni poteri”, e ciò, dice Moro, va precisato in modo inequivocabile – proprio dopo l’esperienza fascista – per affermare che la sovranità dello Stato, non è la sovranità del consenso plebiscitario ma “la sovranità dell’ordinamento giuridico, della legge”.

Il Potere dello Stato, la democrazia in senso politico, non è l’arbitrio dell’Uno o dei Molti, ma è un potere limitato dal Diritto, dalle norme che valgono per tutti.

Tale precisazione, per Moro, è importante non solo da un punto di vista squisitamente politico ma anche – e vale mi sembra anche per l’oggi – da un punto di vista “pedagogico”.

Occorre, infatti, richiamare e riabituare un Popolo che è stato diseducato a queste idee fondamentali che garantiscono la dignità degli uomini.

La democrazia in senso sociale, poi, significa che la Repubblica ha per fondamento il lavoro e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Fu La Pira, lo ricorda Moro, ad affermare questa posizione costituente, a tutelare particolarmente “lo status dell’uomo che lavora” come condizione fondamento di diritti.

Non si tratta, nell’ originaria articolazione “cristiana” e “democratica” di questa affermazione giuridica, di escludere e di elevare, rispetto ad altri, una Classe ma di impegnare la Repubblica in un compito decisivo: garantire la partecipazione nell’Organizzazione complessiva dello Stato di chi, per troppo tempo, era stato escluso: i lavoratori, appunto.

Non vuol dire, quindi, interpretare i “lavoratori” “in senso stretto”; essere tali non è la condizione indispensabile per essere considerati cittadini – come intendeva il Socialismo – ma si tratta, ancora oggi, ed è per questo che la formula mantiene il suo vigore, di dare accesso in maniera reale e concreta alle forze lavoratrici nella vita del Paese.

Per questo la visione di La Pira e di Moro, così brillantemente intesa in questo discorso, prevalse sulla visione dell’On. Togliatti, sulla richiesta di qualificare la Repubblica democratica come “Repubblica di Lavoratori”.

Ecco l’esempio, ci trasmette Moro, di una “ideologia di parte”, di una impostazione classista che esclude e che non allarga la partecipazione.

Nessuna estromissione, quindi, ma l’impegno per l’elevazione morale e sociale degli esclusi, per la realizzazione di una Libertà eguale che non può che completare il formalismo dell’eguaglianza di fronte alla legge, impegnando lo Stato a rimuovere quegli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza degli individui, impediscono la reale possibilità di tutti i lavoratori nel concorrere all’Organizzazione del Paese.

La “cittadinanza democratica è cosa indipendente dalla qualifica di lavoro” ma, senz’altro, l’ideologia necessaria dell’affermazione della più alta “dignità umana” non può prescindere dall’arricchire la pienezza della vita dello Stato attraverso l’immissione decisa del contributo dei lavoratori.

In tale contesto, la legislazione sociale, per Moro padre costituente, assume un ruolo propriamente costituzionale, arricchisce di senso la cittadinanza, eguagliando le possibilità e le condizioni di vita per tutti, lungo uno standard di vita, come afferma Agnes Heller, liberante perché alla portata di tutti.

Sulla “democrazia umana”, poi, Moro è ancora più preciso: la rivendicazione della dignità, della libertà, dell’autonomia dell’uomo – oggi raccolto nell’art. 2 della Carta – non può prescindere dalla tutela delle “formazioni sociali” ove si svolge la personalità umana.

 Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo”, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana, nella storia, liberamente svolge la propria vita e integra la propria personalità.

La questione, quindi, è innanzitutto quella del “pluralismo sociale e giuridico”, della tutela dello spontaneismo associativo libero nelle dinamiche storiche che contrasta con la visione della Società come “Unica”, monopolizzata dall’azione dello Stato.

Moro – da sincero liberale – tutela, attraverso l’affermazione del pilastro Democrazia umana, le “forme più imprevedute” della libertà degli individui, quel pluralismo vitale, pratico e concreto che fu umiliato dalla tirannide dello Stato padrone, dello Stato etico che tutto riassume nelle proprie Istituzioni.

Non si tratta, ideologicamente, di tutelare le c.d. “comunità naturali” sulla base di un astratto giusnaturalismo, non c’è nessuna contrapposizione, in Moro, tra natura e storia, nessun facile riparo nella trascendenza di senso che sconfessa il Mondo.

Moro è chiaro: “si parli pure di storicità in questo senso … Non poniamo [Natura e Storia] una … contro l’altra, ché non si tratta di cose diverse”.

Storia e Natura, quindi, secondo un approccio concreto e vitale, coincidono nello svolgimento del moto sociale.

Nessuna sterile ipostatizzazione può contrastare la forza della realtà che evolve, liberamente, nell’impegno e della lotta, verso maggiori acquisizioni di libertà e uguaglianza.

La famiglia, le comunità spontanee del vivere associato, in quanto tali, in quanto realtà concrete produttive di Diritto e ordine spontaneo, sono decisamente produzioni sociali, autentiche.

In tal senso, la loro naturalità, la preesistenza rispetto ad ogni tutela di Stato, è propriamente storica ed anzi, in questo contesto, è spesso l’ambizione dello Stato ad inglobare e fare proprie (se non cassare) queste autonomie, ad essere anti storica: astratta ideologia piegata ad interessi che non sono precisamente umani nel senso della tutela della dignità del Singolo.

Le “libere formazioni sociali” – anche la Scuola, si intende – impongono allo Stato che sia davvero democratico “dei confini”, “delle zone di rispetto” che sanciscano l’autonomia dei diversi ordini – anche dell’ordine economico - lungo il crinale liberale e cristiano del principio di sussidiarietà che legittima l’intervento statale solo dove le formazioni sociali non riescano ad intervenire fruttuosamente.

Tale autonomia, ovviamente, secondo la prospettiva sociale di Moro, non significa isolamento, individualismo egoista ma convergenza del pluralismo dell’offerta sociale verso il fine della “solidarietà sociale”, maturato nella cooperazione e nel lavoro comune.

Questi Pilastri, questi valori, questa “ideologia necessaria”, anche grazie all’azione di statisti come Moro, non sono stati relegati in un preambolo innocuo del testo costituzionale, privi di azionabilità e vincolatività giuridica ma, invece, hanno concretato, nei primi articoli della Costituzione, diritti veri, le “idee dominanti di una Civiltà”, l’espressione di una vera e propria formula di convivenza orientativa di tutta l’attività dello Stato, incarnate in Norme giuridiche superiori rispetto alla mutevolezza della legislazione ordinaria.

La questione posta da Moro – tutta politica, spirituale, morale – individua, quindi, il principale effetto delle Norme costituzionali: vincolare la Sovranità, il Legislatore, al rispetto di criteri superiori che prevalgono, sempre, di fronte alle effimere dinamiche politiche, al consenso momentaneo di questo o quel leader.

La “sede giuridica” della Costituzione contribuisce, quindi, attraverso la forza del “dover essere”, della meta da raggiungere, ad evitare che le sacrosante acquisizioni storiche antifasciste, la negazione stessa del “vuoto politico”, vengano relegate – Moro ritorna ancora sulla tematica del “Preambolo” – in un elemento fisso e morto che si limiti solo ad enucleare la motivazione della nascita di una Costituzione.

Non si tratta, infatti, nel fondare un nuovo Stato, di “esaurire nel passato” le motivazioni ideologiche ma di “attivarle” nel quotidiano – nell’oggi in cui il Nemico non è ancora vinto – per la soluzione di problemi immanenti.

Per Moro, l’antifascismo ideologico della Costituzione repubblicana acquisisce un senso prospettico direttamente collegato al futuro delle nuove generazioni: “perché questa è la debolezza umana, questa è la complessità dei problemi sociali”.

Un significato vivo, sempre più vivo, quindi, che parte dalla storicizzazione puntuale delle posizioni raggiunte; una storicizzazione, nemica di ogni vuota rigidità, che svela, nell’impegno costante, la fragilità di ogni conquista e la necessità della forza morale di ogni nuova generazione.

Generazioni di liberi che, nella Costituzione, possono ancora trovare un sicuro orientamento “per una lotta che non è finita adesso e che non può finire. La lotta per la libertà e la giustizia sociale”.

 

 

UN’AUTONOMA COLLOCAZIONE POLITICA

È un discorso pronunciato da Moro il 21 novembre 1968, nel contesto del Consiglio nazionale della DC.

Il discorso fu pronunciato in un tempo in cui, dopo l’esaurirsi della prima spinta propulsiva del centro-sinistra, è in gioco la ricostituzione della solidarietà tra i partiti riformisti, per il Buon Governo del Paese.

Il problema epocale - attuale anche oggi - è quello, quindi, di costituire un Governo di coalizione, di pensare le basi culturali e politiche di una collaborazione tra diversi orientata all’affermazione dei valori costituzionali condivisi, di quella ideologia interpretata come “necessità” da Moro come abbiamo visto sopra.

Il compito di un Governo di coalizione -  il significato storico e originale di un Centrosinistra coeso che, per molti versi, in questo discorso per nulla “partitico”, sembra davvero declinabile unitariamente e senza trattino - è quello, per Moro, di estendere il più possibile la piattaforma sociale e culturale del Potere democratico, in modo da riflettere più compiutamente, nell’azione dell’esecutivo, le esigenze della Società e il moto del progresso.

L’alternativa, per lui allora e, forse, anche per noi oggi, è il rischio dell’affermazione di un pericoloso “vuoto politico”, che è vuoto di libertà e di giustizia, paradossale “pienezza” di conflitto, e cedimento ai disvalori anticostituzionali sempre sottesi e pronti ad emergere nell’agone democratico, stante la crisi – prima spirituale e, poi, politica – degli attori politici “istituzionali”, dei partiti storici.

La “ferma volontà” e lo “spirito di unità” sono la ricetta per sconfiggere l’affermazione del “vuoto”, una solidarietà operosa conscia del ruolo storico che i democratici sono chiamati a rivestire.

Le differenze, quindi, non vanno e non possono essere annullate, come le difformità legittime e feconde; ciò che, però, è necessario fare contro ogni tatticismo identitario, è comporre le distanze, omogeneizzare per quanto possibile le posizioni, per aderire al meglio alle esigenze del Paese.

Vi è, quindi, un dovere di stabilità politica che è bene prezioso per l’Italia: l’unione delle forze democratiche contro le alternative che sostanziano altrettante avventure pericolose.

Nella riflessione di Moro – è bene sottolinearlo – la stabilità non significa per nulla conservazione ma, grazie alla formula del centro-sinistra, vuol dire “slancio innovatore”, adeguare attraverso il riformismo l’autorità statale agli impulsi di mutamento provenienti dall’inquieto svolgimento sociale.

La vita sociale, i conflitti insiti, i vagheggiamenti ideali, vanno ovviamente composti – attraverso l’ordinamento giuridico – lungo i canoni di libertà e giustizia.

Il moto incessante della Storia va incardinato in programmi ragionevolmente definiti, per nulla palingenetici e realizzabili secondo un’effettiva “possibilità” e sempre aperti alla discussione critica.

Il gradualismo, secondo Moro, non va sminuito né svalutato; le conquiste faticosamente realizzate, i compromessi di ripartenza posti in essere, la stabilità perseguita, diviene un valore – un valore del centro-sinistra – se scongiura la cristallizzazione conservatrice quanto la perniciosa ed infruttifera fuga in avanti.

Il progresso auspicato, infatti, va tradotto in una evoluzione pacifica che si realizza solo nell’ambito della Legge e con gli strumenti della “democrazia aperta” che diano graduale soddisfazione alle spinte pressanti della Società.

Ovviamente, per Moro non esiste alcun cedimento al populismo e alla demagogia semplicistica, egoistica e qualunquista: il ritmo delle realizzazioni va accelerato ma solo nel senso nei valori costituzionali.

Ciò che deve davvero concretizzarsi è una vita democratica sempre più libera, giusta e umana!

Una vita democratica, per altro, mai solo limitata alla “comunità nazionale” ma progressivamente tesa all’intera famiglia umana.

Lo scopo, anzi gli scopi, i fini insiti nelle Norme costituzionali anti fasciste, il senso stesso della “ideologia necessaria” di cui Moro ha parlato tanto a lungo, ha a che fare con il rinnovamento, la liberazione dell’uomo.

E l’esigenza del governo di coalizione, la sua necessità storica, fa riferimento a forze che hanno una “carica di libertà” non inferiore a quelle che strumentalmente si sottraggono ad ogni confronto, aprendo il varco al “vuoto politico” che, lo precisiamo, è una forma paradossale di nichilismo occasionalista attivato da un decisionismo spicciolo di matrice manichea e sbrigativo.

Le forze responsabili sono tali in quanto si assumono il compito “aggiuntivo” dell’azione non retorica, di una realizzazione effettiva che prescinde dalla propaganda ideologica e, in tal modo, si offrono all’opinione pubblica quale garanzia reale innanzi al rischio che l’impeto del moto sociale, preda delle forze populistiche, metta in crisi il sistema democratico.

Il rischio, infatti, allora come ora, è il rischio della violenza, della confusione programmatica, del “semplicismo scarsamente efficace”, del cinismo opportunistico.

Contro tutto questo va affermato il rigore d’un approccio morale che domini la politica per renderla intensamente umana, secondo i principi di solidarietà e di buon senso.

In una condizione come questa – ci dice Moro – chi si potrà stupire che la protesta e l’attesa, almeno in un primo tempo, più facilmente si incanalino, non senza punte politiche, nell’opposizione piuttosto che nella maggioranza, nelle forze che chiedono e non in quelle che alla richiesta debbono corrispondere con l’assolvimento di un compito costruttivo?”.

Il rischio è, quindi, che, senza questa disciplina morale e politica, le decisioni politiche possano scivolare, di nuovo, verso il particolarismo corporativo, disumano e illiberale, a favore di forze irresponsabili capaci di incanalare istanze e consensi ma incapaci di fornire risposte serie.

Enzo Musolino

giovedì 2 luglio 2020


NON CHIAMIAMOLO POPULISMO, E’ TIRANNIA
Agnes Heller, una filosofa liberale e post moderna alle prese con l’Orbanismo

Quello di Orbán in Ungheria -  al potere dal 2010 - non è populismo, termine vago che rimanda comunque ad un conflitto di classe, ad uno scontro tra ricchi e poveri (i populisti, di solito, fanno leva sulla gente povera), ma è qualcosa di originario, senz’altro non economicistico, decisamente più ideologico.
Un retaggio antico, un identitarismo sovrastrutturale che ha poco a che fare con la gestione dei mezzi di produzione e con le cause reali di sottosviluppo e miseria.
È puro nazionalismo etnico!
Questo ci dice Agnes Heller, la filosofa magiara post moderna e liberale da poco scomparsa, nei due interventi del 2018, raccolti nel saggio “Orbanismo”, edito da Castelvecchi nel 2019.
La filosofa precisa che il risentimento popolare evidentemente esiste (ed è fomentato ad arte) ma non è rivolto contro le classi abbienti del paese, non contro i “capitalisti” ma contro gli altri: gli estranei minacciosi, nemici spesso invisibili in Ungheria, che rispondono al nome di stranieri, migranti, clandestini portatori di una cultura diversa, ostile.
E, come ovvio corollario, questo timore dell’alterità si accompagna all’odio per quelle visioni e prospettive politiche che all’ethnos escludente cercano di opporre l’ethos universale dei diritti e il dovere dell’accoglienza!
Ed ecco che l’avversario diviene anche l’Europa, la burocrazia di Bruxelles, il pensiero liberale e razionale che esclude per principio l’identitarismo e il particolarismo giuridico degli status e delle etnie, per affermare i diritti dell’Uomo, l’unificazione del soggetto giuridico anche oltre gli stretti limiti dell’appartenenza razziale.
Il nazionalismo etnico, così inteso, quindi, più che essere né di destra né di sinistra, è un incontro tra pulsioni di estrema destra e di estrema sinistra; i vessilli agitati sono i valori tradizionali traditi e, solo in un secondo tempo, il lavoro operaio minacciato dai nuovi arrivati.
Il passaggio storico che ha consentito, secondo la Heller, il ritorno in auge del patriottismo etnico, così presente in Europa nel corso di tutto il Novecento, ed entrato in crisi solo con l’affermazione definitiva della politica Comunitaria di pace e di sicurezza, è stato il definitivo trapasso post moderno da una società di classe, differenziata per interessi economici e attraversata dallo scontro dialettico dei partiti tradizionali rappresentativi dei diversi ceti sociali, ad una società pienamente di massa, fluida, complessa  e indifferenziata politicamente (anche per il proficuo operare del livellamento di un mercato florido e protetto)  ma che, anche per questo, in posizione difensiva, è divenuta astiosa e pronta a riconoscere consenso plebiscitario ai “nuovi partiti”, veloci ad individuare il nemico semplice, colpevole di tutti i guai in corso.
L’illiberalismo di Orbán, quindi, punta non all’uscita dall’Europa (i benefici dell’appartenenza sono ben utilizzati dalla propaganda magiara) ma il suo sovvertimento ideale, l’affermazione di un patriottismo del fino spinato e della contrapposizione con il resto del mondo che, una volta realizzatosi politicamente come maggioranza nelle Istituzioni UE, porterebbe progressivamente alla sostituzione del “nemico” una volta preso il potere.
Non più la UE liberale, conservatrice, socialista (ormai sconfitta), non più i migranti respinti con la violenza dei confini impermeabili al diritto di asilo e all’umanità, ma gli stati nazionali della stessa UE.
La contrapposizione tra le piccole patrie, infatti, deraglierebbe presto dalle schermaglie diplomatiche a vera e propria guerra continentale.
In tal senso, l’analogia con il periodo precedente alla Prima Guerra Mondiale è decisiva per la Heller: imperi in disfacimento cui fa eco il culto di uno sciovinismo fanatico.
Come mai tutto questo in Ungheria?
Per la filosofa, la motivazione risiede in una liberazione dal comunismo -  quella avvenuta tra il 1989 e il 1991 - che non ha mai davvero significato del tutto libertà.
Le Istituzioni della libertà, infatti, sono difficili da costruire e da comprendere, e un popolo come quello ungherese (come per altro quello polacco) che non avevano mai conosciuto il liberalismo, non sono stati in grado, anche per responsabilità diretta della classe dirigente, di introitare veramente quel passaggio esistenziale necessario ad ogni vera democrazia occidentale: il movimento spirituale dal riconoscersi sudditi al divenire - con la lotta e l’impegno - cittadini.
Orbán, anche per questo, definisce il proprio sistema politico, democrazia illiberale, ed anzi, con più precisione, lo qualifica: sistema di collaborazione nazionale.
Un vero e proprio corporativismo privo, per questo, degli aspetti dialettici proficui del confronto e dell’alternanza democratica, che esclude, quindi, dall’alveo della Nazione, tutti coloro che non cedono a questa collaborazione forzata, che non aderiscono alla volontà del tiranno.
E la filosofa della “Bellezza della persona buona” non teme di definire propriamente Orbán un tiranno, un tiranno che coltiva l’antica tradizione ungherese – ma è solo davvero ungherese? – di seguire un capo, di attendersi tutto dall’alto, di coltivare uno scetticismo nichilistico arreso all’evidenza dell’inutilità di ogni agire politico.
La tirannia, come è noto, non è una forma di Stato, è una modalità di governo che spesso mantiene inalterato l’involucro svuotato del multipartitismo, ma che, nella sostanza, tende a fare del partito al potere (come nel caso del famigerato Fidesz - Unione Civica Ungherese - di Orbán) non più una parte ma un meccanismo escludente di affermazione collettiva e totale della volontà unica.
La liberazione dal comunismo, dicevamo, è arrivata in Ungheria senza una vera lotta di popolo, è stato un dono inatteso stabilito a tavolino da politici e intellettuali di fronte al baratro dell’autoconsunzione del sistema sovietico.
La transazione pacifica al multipartitismo fu - secondo la Heller - una transizione a freddo che tenne fuori il popolo, senza neanche sentire l’esigenza di una nuova Costituzione che, nell’affermazione dei nuovi ideali, facesse decisamente i conti con il lungo passato di schiavitù e di asservimento al potente di turno, non solo ai sovietici dunque.
Gli ungheresi, purtroppo, anche con le forme della democrazia sono rimasti sostanzialmente sudditi.
I partiti liberali che, prima di Orbán, insieme ai socialisti, si sono alternati al potere, non hanno avuto la forza e, forse, la volontà di contribuire a vincere questa naturale tendenza popolare e, anzi, purtroppo, in qualche modo se ne sono serviti per accumulare ricchezze personali e fomentare la corruzione endemica.
Come dice la Heller, in Ungheria (ma davvero solo in Ungheria?) si conosceva e si conosce a pieno un solo diritto - proveniente dal Medioevo -  lo ius supplicationis: il diritto di chiedere favori ai padroni del momento.
L’entrata dell’Ungheria nella UE nel 2004, con un governo socialista in carica, pur trovando il pieno consenso popolare, non produsse quindi un’alterazione sensibile di questo stato di cose.
Orbán già in quegli anni strutturava infatti il suo potere dall’Opposizione.
E ciò anche per l’affermazione di una specie del tutto particolare di assetto di potere interno al partito. Non era tollerato, come non lo è tutt’ora, nessuna critica o articolazione ideologica, il partito si deve identificare sempre più con il capo, devono divenire la stessa cosa (è fenomeno solo Ungherese?).
Il centralismo democratico di Lenin, quindi, divenne progressivamente la concezione organizzativa del Partito di Orbán e, una volta preso il potere, la concezione organizzativa dello Stato.
Nel 2010 Fidesz ottenne la maggioranza dei 2/3 dei seggi al Palamento e da allora Orbán è il padrone dell’Ungheria.
E il Primo Ministro è riuscito, ancora, in quello che fu impedito dall’ignavia di liberali e dei socialisti: la promulgazione di una nuova Costituzione.
Una nuova Costituzione che, secondo la filosofa ungherese, non afferma i valori occidentali derivanti dalla entrata nell’Europa Unita (la UE, del resto, ha una Costituzione propria?) ma, attraverso un preambolo storico fortemente ideologico, propugna princìpi fortemente nazionalistici ed accentratori, contrari alla separazione dei poteri, con la deriva principale di una Corte Costituzionale – orgoglio del tentativo occidentale dell’Ungheria post sovietica – ormai nelle mani del potere esecutivo che, di fatto, coincide con quello parlamentare.
La stessa libertà di stampa è stata limitata, piegando i media all’influenza del partito al governo.
I 9/10 della popolazione ungherese, ci dice la Heller, ha accesso solo alla propaganda di regime e l’indottrinamento popolare continua negli anni attraverso il sistema della c.d. consultazione nazionale.
Non un sistema di referendum - forme di democrazia diretta disciplinate con precisione dalla carta costituzionale, vincolate al rispetto di precise norme e soggette al controllo della magistratura - ma la distribuzione di questionari semplici, con risposte precompilate tra le quali “scegliere”.
Un simulacro di democrazia buono per fornire l’illusione della condivisione dei temi dell’agenda pubblica ma essenzialmente finalizzato al lavaggio del cervello dei cittadini/sudditi.
Né più né meno di quello che sta avvenendo in Russia, in questi giorni, con la consultazione nazionale che porterà alla modifica della Costituzione voluta da Putin e che consentirà al nuovo zar di rimanere in sella fino al 2036.
Da un punto di vista economico/sociale – la Heller lo precisa più volte - nella nuova tirannia ungherese anche le forme di distribuzione del reddito non rispondono più alle classiche logiche occidentali, tanto nel bene quanto nel male.
Non si ha ad esempio a che fare più con una corruzione “tradizionale”, quella - per capirci - in cui un ministro corrotto si piega, per interessi indicibili, agli uomini d’affari; non si tratta più di scambi di favore alle spalle dei cittadini inconsapevoli.
La nuova corruzione di Orban, che la Heller definisce rifeudalizzazione, costituisce uno spaventoso passo indietro nel pre-moderno, supera all’indietro la corruzione capitalistica per attuare una relazione dare/ricevere/ricambiare istituzionalizzata e destinata a vivificare una precisa casta di potere, un’oligarchia simile ad una reggia di cortigiani che risponde direttamente al tiranno.
Non conta più, quindi, ingannare il popolo e aggirare le norme ma strutturare, attraverso la corruzione, un centro di potere che vive di rendita – finanziata dai trasferimenti UE -  e che struttura il consenso nel sistema.
Una vera redistribuzione delle risorse al rovescio (così la definisce la filosofa) che sconfessa le dinamiche ordinarie del Welfare State europeo  (dove le risorse vengono redistribuite per legge a favore dei più poveri) per realizzare una ripartizione interessata nella quale ad ingrassarsi sono gli ottimati di partito.
Come mai gli ungheresi non reagiscono a questo status quo che va contro i propri interessi?
Perché, al contrario, proprio i poveri, gli emarginati, i nomadi, hanno votato e continuano a votare per Orbán?
Per la Heller la spiegazione risiede nel successo di un fenomeno nuovo.
Un nuovo tipo di tirannia, appunto, – ancora non perfettamente definibile – nel quale (anche per le trasformazioni sociali intervenute) sono venuti meno la ricaduta politica dell’appartenenza ad un preciso ceto sociale e alle tradizioni familiari di voto.
La popolazione – assurdamente – non è più così interessata alle questioni economiche, alla corretta redistribuzione e all’accesso a nuovi servizi, qualcosa è cambiato in profondità (o è tornato all’originario teologico-politico): l’ideologismo si è affermato sugli interessi rappresentati dai partiti tradizionali; ci sono altri problemi, altri odi!
La crisi dei partiti storici, travolti dalla corruzione e dalle mancate risposte epocali, hanno contribuito quindi a stravolgere le dinamiche del consenso.
Gli argomenti principali del dibattito non sono più le retribuzioni, le tasse, l’occupazione.
I poveri e gli esclusi – come per altro verso il ceto medio - non sono più una classe, non hanno più chiare posizioni dialettiche, tutto è divenuto fluido, incerto.
Le ideologie, per la Heller, ricominciano a prendere il posto degli interessi economico/sociali, la battaglia politica si sposta dall’affermazione della giustizia e dei diritti al campo delle politiche squisitamente campanilistiche, quello dello scontro “irrazionale” tra noi e gli altri.
L’identità nazionale di tipo etnico straccia il pluralismo insito nel concetto formale e giuridico di cittadinanza e diviene ideologia negativa, una ideologia che non promette nulla di buono per il futuro, che non si impegna nella costruzione teorica di utopie utili a fecondare di senso l’attualità storica ma che, invece, fondandosi sulla paura, giunge a negare l’esigenza di cambiamenti radicali del reale, svilisce l’ansia riformistica, disconosce il “dover essere”, tarpa le ali ad una nuova stagione di Welfare State, boicotta il sogno federalista europeo.
In una parola: “nega” per opporsi, per distruggere senza vocazione e visione.
Ciò che conta in questo nuovo quadro nichilistico di ordine e “sicurezza” è – secondo la filosofa - la retorica di una superiorità etnica immotivata ma buona per gonfiare il petto di chi si sente escluso e vittima del sistema senza però comprendere le reali forze sociali in campo, senza intendere lo scontro in atto, rifugiandosi, appunto, nel convincimento di una romantica supremazia, detestata dai nemici ideologici di sempre: il multiculturalismo, il liberalismo, il socialismo.
E per questo la crisi dei rifugiati in Europa è stata manna dal cielo per Orbán (ma solo per Orbán?) il quale non ha mai parlato – ci dice la Heller – di rifugiati o di migranti ma, più propriamente, di “orde di migranti”, di orde pronte a violare la cristianità e la cultura europea: tutti invasori musulmani pronti a violentare mogli e figlie.
La tradizione è così divenuta feticcio, inganno, specchietto per le allodole, e così è capitato che i perdenti del regime di Orbán - i veri esclusi dall’oligarchia di potere, i poveri senza coscienza di classe e speranze concrete-  hanno continuato a votare per il tiranno “democratico”, conquistati da una oratoria semplice e indifferente al moto sociale.
I tiranni, poi, imparano l’uno dall’altro e - dalla Turchia di Erdogan - il Primo Ministro magiaro ha appreso la necessità di individuare una faccia da usare come bersaglio dell’odio popolare.
 In Turchia è il predicatore Muhammed Fethullah Gülen, in Ungheria è l’imprenditore e attivista George Soros.
Nato in Ungheria, statunitense, miliardario, ebreo, impegnato per i diritti dei migranti, fondatore di istituzioni universitarie libere e indipendenti, Soros ha tutto per essere rappresentato come un vero e proprio “demonio”, nemico degli interessi nazionali dei propri compatrioti!
Ed ancora, quindi, nulla di propositivo, nessuna visione per il futuro, nessuna edificazione ideale, nessun sogno … solo una reazione difensiva – e per questo nichilista – che, attraverso l’ordine del potere e della violenza discriminatoria di Stato rafforzata dagli odi del capo, si intesta arbitrariamente il compito epocale di “proteggere” gli ungheresi, la loro terra invasa, il proprio sangue disconosciuto, la loro cultura violata, la religione vilipesa, la famiglia tradizionale tradita, la supremazia maschile irrisa.
E che il “pericolo” e il contagio venga dall’autonomia scolastica, universitaria, spirituale, lo dimostra – ci dice la Heller - il fatto che nelle Università pubbliche ormai lo Stato ungherese nomina un cosiddetto cancelliere, al di sopra del rettore, per gestire un insegnamento conforme ai diktat governativi.
Nel 1914 l’Europa, con la nascita del nazionalismo etnico, commise il suo peccato originale, la Prima Guerra Mondiale che portò morte, distruzione, una pace ingiusta … alla nascita degli stati totalitari, all’Olocausto.
Certo, tutto questo non ritornerà ma qualcosa di analogo potrebbe, ora, proprio a partire dall’Ungheria (ma solo dall’Ungheria?) affermarsi.
Ed ha ragione Hegel - afferma Agnes Heller -  l’unica cosa che apprendiamo dalla Storia è che da essa non apprendiamo nulla.

Enzo Musolino