I presupposti culturali, storici e politici del Jobs Act
E’ vero che i freddi numeri rischiano di colpire ma non
di chiarire e, pertanto, oggi è necessario a mio parere discutere anche di ciò
di cui non si è mai davvero discusso: dei presupposti culturali, storici e
politici che guidano l’azione riformista nell’ambito del diritto del lavoro,
soprattutto nel momento in cui il complesso disegno riformista è messo alla
prova dalla riduzione delle agevolazioni contributive. Innanzitutto, però, i
numeri: il dato registrato il 30 settembre dall’’Istat è relativo ad un aumento
dell’occupazione e, in particolare, ad un rialzo dell’occupazione stabile che
raggiunge i 14 milioni e 920mila lavoratori. Per raggiungere un livello di
occupazione stabile più alto di questo bisogna risalire all’agosto 2009.
Semplificazione e razionalizzazione sono le ragioni che
hanno condotto al Jobs Act; semplificazione degli strumenti contrattuali, in
vista dell’emergere prioritario di un contratto subordinato a tempo indeterminato
e caratterizzato da tutele crescenti, e razionalizzazione tanto dei controlli
ispettivi in materia di lavoro e di legislazione sociale quanto degli strumenti
delle politiche attive di collocamento.
L’ispirazione di fondo è senz’altro riformistica in senso
liberale e sociale e riproduce, nell’ambito del diritto del lavoro, le
acquisizioni di quella economia sociale di mercato che ha consentito
nell’immediato dopoguerra il miracolo economico tedesco e quello italiano.
Cosa viene superato, dunque? Una certa impostazione
culturale di matrice collettivista che, soprattutto dagli anni 70 e fino alle
riforme dei primi ani 90, ha investito il diritto del lavoro in Italia di un
compito ideologico che progressivamente ha sganciato le legittime pretese
contrattuali dei lavoratori dalla sostenibilità economica delle stesse e dal
bene comune; fino all’estremo di un mercato del lavoro vincolato da un rigido
collocamento pubblico obbligatorio, anonimo e refrattario ai criteri
meritocratici e alle libere scelte d’impresa. In tal senso, pur rimanendo
altamente positiva la valutazione complessiva dello Statuto dei Lavoratori
(1970) – testo, occorre ribadirlo, non votato da quella sinistra comunista che,
poi, lo ha strumentalmente sacralizzato – non si può tacere la progressiva trasformazione
teologistica di alcuni dei suoi assunti in tabù immodificabili. L’esempio più
significativo è quello del mitico articolo 18 (il reintegro in caso di
licenziamento accertato come illegittimo nelle imprese con occupazione superiore
ai 15 dipendenti). Ora, aldilà dell’effettiva operatività concreta (nella
prassi sono negli anni sempre più frequentemente emerse transazioni di
carattere monetario) sono evidenti i limiti di una norma tesa a rendere
indissolubile una contingente dinamica sociale ed economica e che ha condannato
al nanismo le prospettive di crescita di molte imprese intimorite dallo
spauracchio di non poter affrontare le crisi cicliche; anche a fronte di una giurisprudenza troppo spesso a
digiuno delle regole di mercato e refrattaria – per motivi anche politici – ad
accettare il principio liberale - ma anche cattolico democratico - secondo il
quale il lavoro è creato innanzitutto dall’intrapresa e non dallo Stato. Con
ciò, l’art. 18 è stato progressivamente caricato di una valenza cripto rivoluzionaria
e conservatrice allo stesso tempo che ha spinto le frange più estreme
dell’antagonismo a proiettare fino agli anni 2000 le tragiche illusioni
palingenetiche del brigatismo armato contro, appunto, riformisti veri quali D’Antona
e Biagi. Tale fenomeno di culto teologico politico di assunti normativi non è
esclusiva solo italiana; lo stesso psico dramma, sempre all’interno della
comunità politica di Sinistra, è stato vissuto in Gran Bretagna con la clausola
4 dello Statuto del Partito Laburista, approvato nel congresso del 1918. Tale
norma impegnava in prospettiva la sinistra britannica a raggiungere l’obiettivo
della statizzazione dei mezzi di produzione, negando teoricamente e
strategicamente la legittimità del concetto di proprietà privata e di
iniziativa economica libera. L’assurdo fu che tale vincolo politico rimase in
vigore fino al 1995, fino al buon senso riformista di un giovane Segretario di
nome Tony Blair, il quale non rinnegò né tradì – come invece fu accusato – le
ragioni di giustizia ed equità della Sinistra ma, semplicemente e
pragmaticamente, riconobbe l’assurdità di una cristallizazione ideologica di un
assunto superato dal corso storico e dalle dinamiche sociali di un Paese già da
anni alla guida della globalizzazione dei mercati e primo beneficiario degli
effetti dell’intraprendenza privata. La nuova versione statutaria della
clausola 4 del “New Labour” non fa più riferimento al controllo dello Stato
sulla economia e parla, invece, di efficienza e di competitività, puntando
sulla uguaglianza delle opportunità in un sistema economico nel quale la
priorità sta nella creazione di ricchezza, unica via per consentire davvero il
progresso sociale degli strati più deboli e la mobilità sociale. Fu proprio
questa rivoluzione ideologica a consentire la lunga e proficua stagione di
governo della Terza Via ed il superamento del thatcherismo, non certo
l’arroccamento sul mito dello Stato padrone.
Come
è noto, oggi, grazie al Jobs Act, figlio legittimo, è bene ribadirlo, tanto
della riforma Treu che di quella Biagi, nonostante le tante resistenze
conservatrici, il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato e a tutele
crescenti è ormai operativo. I dati statistici relativi alla prima applicazione,
aiutata da un poderoso sgravio contributivo, sono stati impressionanti: Il
contratto subordinato sine die ha “cannibalizzato” tutte le altre forme
contrattuali; i nuovi assunti – che sono tutt’ora in aumento, nonostante la
fisiologica frenata dovuta alla riformulazione restrittiva degli sgravi – sono
avviati con questo strumento e i vecchi co.co.pro e le associazioni in
partecipazione con apporto lavorativo – forme flessibili che sono state abusate
per lucrare profitto dallo sfruttamento dei lavoratori – sono state convertite
in lavoro subordinato formalizzato.
Nel
concreto, cosa comporta tutto questo? Innanzitutto, i lavoratori potranno più
facilmente accedere ai prestiti e ai mutui ipotecari perché finalmente
‘stabilizzati’ nel tempo ed ancora, la vigilanza sugli illeciti a danno dei
diritti retributivi e della contribuzione obbligatoria viene radicalmente
semplificata perché gli ispettori invece di trovarsi di fronte la giungla
contrattuale avranno a che fare con un contratto chiaro e prevalente.
Un ulteriore annotazione:
gli eterni oppositivi e i benaltristi che coltivano l’ottimo contro il bene ed
il possibile – di destra o
pseudo-sinistra poco importa stante la comune impronta illiberale –
continueranno a concentrarsi sulla abolizione dell’art. 18. A me stesso ricordo
la buona prassi della lettura e della analisi delle norme che si vogliono
contestare senza preconcetti ideologici; sul punto, in sintesi: il reintegro
sul posto di lavoro sarà sempre possibile nei casi di licenziamento nullo o
privo di forme, in quello discriminatorio e potenzialmente mobbizzante e nel
cosiddetto licenziamento disciplinare (cioè nel caso in cui si contesti al
lavoratore un illecito a danno dell’organizzazione d’impresa) quando è accertata in giudizio l’inesistenza
del fatto notificato. Per tutto il resto – cioè per evitare i licenziamenti
dettati da motivi economici – dovremmo contribuire tutti alla ripresa economica
del Paese – i datori di lavoro con gli investimenti ed i lavoratori con la
produttività della prestazione resa – perché le imprese esistono non per licenziare
ma per assumere … e questo fanno quando il quadro normativo è certo e le
prospettive per il futuro chiare.
RIFERIMENTI
NORMATIVI: legge 10 dicembre 2014, n. 183 (“legge delega”); decreto legislativo 4
marzo 2015, n. 22 (ammortizzatori sociali in caso di
disoccupazione); decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (contratto di lavoro a tempo
indeterminato a tutele crescenti); decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (conciliazione delle
esigenze di cura, di vita e di lavoro); decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (disciplina organica
dei contratti di lavoro); decreto
legislativo 14 settembre 2015, n. 148 (ammortizzatori
sociali in costanza di rapporto di lavoro); decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 149 (semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro e
legislazione sociale); decreto
legislativo 14 settembre 2015, n. 150 (riordino della
normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive); decreto legislativo 14 settembre
2015, n. 151 (razionalizzazione e semplificazione
delle procedure a carico dei cittadini e misure in materia di rapporto di
lavoro e pari opportunità). Circolare Min. Lav. N. 24 del 05/10/2015 (procedimento per la
concessione del trattamento straordinario di integrazione salariale); Circolare
Min. Lav. N. 26 del 12/10/2015 (indicazioni operative sulle modifiche
all’apparato sanzionatorio in materia di lavoro e legislazione sociale);
Circolare Min. Lav. N. 30 del 09/11/2015 (nota integrativa alla circolare in
tema di ammortizzatori sociali);
Circolare Min. Lav. N. 34 del 23/12/2015 (indicazioni operative sul
riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro); Circolare Min.
Lav. N. 3 del 01/02/2016 (collaborazioni coordinate e continuative, indicazioni
per il personale ispettivo); Circolare Min. Lav. N. 04/03/2016 (modalità di
comunicazione delle dimissioni volontarie e della risoluzione consensuale del
rapporto di lavoro).
Nessun commento:
Posta un commento