Aldo
Moro (1916-1978) fu deputato dell’Assemblea Costituente, fondatore della
Democrazia Cristiana, professore universitario, Ministro degli Esteri, della
Giustizia, della Pubblica Istruzione, Presidente del Consiglio dei Ministri per
cinque volte. Nel 1978, come è noto, fu ucciso dalle Brigate Rosse.
Il
ruolo politico di Moro, la forza delle sue posizioni, però, non possono essere relegate
nell’ambito della pur importante vicenda del compromesso storico, dell’ultima parte della sua vicenda pubblica, del
rapimento e della tragica morte.
Al
di là delle fertile letteratura al riguardo, infatti, a mio parere, l’opzione
del c.d. compromesso
storico si comprende, dal punto di vista
di Moro, solo se si inquadra come tentativo di coinvolgimento degli esclusi, nel senso dell’allargamento della base
democratica italiana. Un tentativo indirizzato decisamente verso l’abbandono
delle inutili ed inefficaci velleità rivoluzionarie.
L’unità
delle forze popolari - come per la strategia del centro-sinistra nel corso degli anni 60 - ha senso per Moro solo come spinta propulsiva tesa
al riconoscimento, prima politico e poi giuridico, delle esigenze del moto
sociale libero e democratico, contro ogni affermazione monopolistica dello Stato
e contro le affermazioni veritative delle forze eversive.
Fu
proprio questo atteggiamento profondamente anti rivoluzionario a catalizzare contro Moro l’odio di classe dei
brigatisti.
Detto
questo – e prima di quanto detto - c’è dunque un Moro che va riscoperto ed è il
Moro padre
costituente e causa della svolta
riformistica e progressista della DC nell’ambito del centro-sinistra.
Non
può essere infatti compreso il senso “democratico” dell’apertura successiva ai
comunisti e la tragica sua scomparsa senza intendere le fonti del riformismo di
Moro, un riformismo già brillantemente presente nei discorsi che qui
analizzeremo e che sono stati da ultimo pubblicati nel 2018, sotto il
suggestivo titolo Il
fine è l’uomo, dalle Edizioni di
Comunità.
I TRE PILASTRI
È
il titolo di un celebre intervento di Moro all’Assemblea Costituente, nella
seduta del 13 marzo 1947. Si trattava allora di discutere dei primi articoli
del progetto costituzionale, dei principi fondamentali.
In
questo intervento Moro chiarisce come sia importante evitare che la
Costituzione repubblicana assuma un carattere settario, di chiusura preventiva
al pluralismo democratico e al libero moto sociale.
Egli,
però, distingue tra una c.d. “ideologia di parte” e una “ideologia necessaria”.
La prima è da rigettare in quanto escludente, la seconda, invece, va precisata
e difesa.
E
Moro, in questo contesto, si rivolge tanto all’On. Togliatti che all’On.
Lucifero. Si tratta, per il dirigente democristiano, di affermare un’ideologia
che diventi un “richiamo
morale ed umano” e che consenta di prendere
posizione e produrre decisioni non per dividere, per fomentare nella polemica la dialettica politica
ma per precisare una “formula
di convivenza” che costituisca una premessa
necessaria e sufficiente al libero dibattito.
Se
non si ragionasse così della fonte ideale
della Costituzione, se si rinunciasse alla origine metagiuridica della comunità nazionale, alle ragioni fondative
del “Nuovo Stato”, allora la Carta
diverrebbe, vuota di senso e di fini, uno strumento “antistorico e
inefficiente”.
L’On.
Lucifero, partendo, invece, da posizioni tradizionalmente neutraliste, nel senso di un rivendicato approccio non contenutistico alla Dottrina dello Stato - potremmo dire
indifferentista e formale - chiedeva di contro una Costituzione non
“antifascista” ma, più propriamente, “a-fascista”.
Moro,
di fronte a questa prospettiva, ribatteva affermando la necessità di un “elementare
substrato ideologico” che funzioni come paradigma
comune, come principio base, ricchezza riassuntiva e potente di una Forza Costituente, di un’emergenza viva di rinascita e cambiamento
che fu l’origine del ritrovato Stare assieme
dell’Italia sopravvissuta alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.
In
tal senso, i “valori
della personalità e della solidarietà”
divengono, per Moro, l’affermazione storica dell’opposizione radicale ad un movimento – quello fascista – che ha travolto le coscienze e
le istituzioni d’Italia.
La
Costituzione, quindi, il suo carattere doverosamente “antifascista” sorge dalla
lotta e dalla “negazione”, e per questo non potrà mai dirsi “a-fascista”:
perché ciò significherebbe astrarsi dalla temperie della vita concreta e dalla
furia di un passato non ancora passato – e forse non lo è ancora oggi – per l’affermazione dottrinaria e professorale,
astratta e morta, di una purezza scevra dalla contaminazione partigiana che,
come tale, come freddo documento sottratto al fuoco dell’origine eccezionale,
non avrebbe la forza di vivificare lo Stato nuovo e funzionerebbe solo da documento buono per legittimare il “rifugio
nel puro teologico”, lasciando al succedersi delle maggioranze parlamentari il
compito di determinare gli scopi dell’agire pubblico.
Tale
ideologia, l’antifascismo, è per Moro, quindi, una “sostanza comune” di Libertà e Giustizia che, per ciò, nasce in
maniera imponente dalla Storia e dalla convergenza vittoriosa delle forze
contrapposte alla barbarie della cultura del Partito unico, totalizzante e autoritario.
Tale
ideologia e “base” deve trovare il suo locus giuridico in quegli articoli iniziali,
fondamentali, che, poi, nel testo definitivo, si raccoglieranno nei primi tre
articoli della Costituzione.
L’ideologia necessaria, quindi, si esprime, per Moro, come “volto storico” della Repubblica e come indicazione dei fini
della stessa.
Presente
e futuro, quindi, nella negazione del passato, danno forma allo Stato, concretizzano
l’Ordinamento Giuridico.
In
tale contesto, dunque, non è la Norma fondamentale a legittimare di per sé, nelle condizioni logico-trascendentali
del sistema giuridico chiuso, la forza cogente del nuovo assetto pluripartitico
e democratico ma è la rottura ideologica ingenerata dalla lotta di resistenza
contro il Ventennio a costituire la forza costituente che “significa” e che impronta di sé l’ordinata
convivenza civile, anche operando esclusioni, quindi, nell’affermazione della
scelta per la Libertà e la Giustizia.
Moro
è chiaro sul punto: “Non
avremmo ancora detto nulla, se ci limitassimo ad affermare che l’Italia è una
Repubblica, o una Repubblica democratica”,
occorre spingersi ancora innanzi, precisare l’orientamento autentico della
Repubblica: un orientamento storico, una presa di posizione ideologica che si
fonda su “tre pilastri”: la
democrazia in senso politico, in senso sociale e in senso umano.
Su
queste fondamenta, quindi, lo stesso concetto di Sovranità, così carico di potere e di violenza, si raccoglie
e si scioglie nella massa di tutti i cittadini egualmente capaci di
determinare, nel loro libero associarsi, nel voto e nella rappresentanza
parlamentare, la gestione della Cosa Pubblica, “nei limiti” della Costituzione
e delle leggi.
A
nessuno, a
nessun Sovrano, quindi, neanche nell’emergenza
dello stato di eccezione “da lui stesso dichiarato” (come ci ha
insegnato Schmitt), spettano i “pieni poteri”, e
ciò, dice Moro, va precisato in modo inequivocabile – proprio dopo l’esperienza
fascista – per affermare che la sovranità dello Stato, non è la sovranità del consenso
plebiscitario ma “la
sovranità dell’ordinamento giuridico, della legge”.
Il
Potere dello Stato, la democrazia
in senso politico, non è l’arbitrio dell’Uno o dei
Molti, ma è un potere limitato dal Diritto, dalle norme che valgono per tutti.
Tale
precisazione, per Moro, è importante non solo da un punto di vista
squisitamente politico ma anche – e vale mi sembra anche per l’oggi – da un punto di vista “pedagogico”.
Occorre,
infatti, richiamare e riabituare un Popolo che è stato diseducato a queste idee
fondamentali che garantiscono la dignità degli uomini.
La
democrazia
in senso sociale, poi, significa che la
Repubblica ha
per fondamento il lavoro e la partecipazione dei
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Fu
La Pira, lo ricorda Moro, ad affermare questa posizione costituente, a tutelare
particolarmente “lo
status dell’uomo che lavora” come
condizione fondamento di diritti.
Non
si tratta, nell’ originaria articolazione “cristiana” e “democratica” di questa
affermazione giuridica, di escludere e di elevare, rispetto ad altri, una
Classe ma di impegnare la Repubblica in un compito decisivo: garantire la partecipazione
nell’Organizzazione complessiva dello Stato di chi, per troppo tempo, era stato
escluso: i lavoratori, appunto.
Non
vuol dire, quindi, interpretare i “lavoratori” “in senso stretto”; essere tali non è la condizione indispensabile
per essere considerati cittadini – come intendeva il Socialismo – ma si tratta, ancora oggi, ed è per questo che
la formula mantiene il suo vigore, di dare accesso in maniera reale e concreta
alle forze lavoratrici nella vita del Paese.
Per
questo la visione di La Pira e di Moro, così brillantemente intesa in questo
discorso, prevalse sulla visione dell’On. Togliatti, sulla richiesta di
qualificare la Repubblica democratica come “Repubblica di Lavoratori”.
Ecco
l’esempio, ci trasmette Moro, di una “ideologia di parte”, di una impostazione classista che esclude e che
non allarga la partecipazione.
Nessuna
estromissione, quindi, ma l’impegno per l’elevazione morale e sociale degli
esclusi, per la realizzazione di una Libertà eguale che non può che completare il formalismo
dell’eguaglianza di fronte alla legge, impegnando lo Stato a rimuovere quegli ostacoli
di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza degli individui, impediscono la reale possibilità di tutti i
lavoratori nel concorrere all’Organizzazione del Paese.
La
“cittadinanza
democratica è cosa indipendente dalla qualifica di lavoro” ma, senz’altro, l’ideologia necessaria dell’affermazione della più alta “dignità umana” non può prescindere dall’arricchire la pienezza
della vita dello Stato attraverso l’immissione decisa del contributo dei
lavoratori.
In
tale contesto, la legislazione sociale, per Moro padre costituente, assume un ruolo propriamente costituzionale,
arricchisce di senso la cittadinanza, eguagliando le possibilità e le
condizioni di vita per tutti, lungo uno standard di vita, come afferma Agnes Heller, liberante perché alla
portata di tutti.
Sulla
“democrazia
umana”, poi, Moro è ancora più
preciso: la rivendicazione della dignità, della libertà, dell’autonomia
dell’uomo – oggi
raccolto nell’art. 2 della Carta
– non può prescindere dalla tutela delle “formazioni sociali” ove si svolge la personalità umana.
“Uno Stato non è veramente democratico se
non è al servizio dell’uomo”, se non
è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana, nella
storia, liberamente svolge la propria vita e integra la propria personalità.
La
questione, quindi, è innanzitutto quella del “pluralismo sociale e giuridico”, della tutela dello spontaneismo associativo
libero nelle dinamiche storiche che contrasta con la visione della Società come
“Unica”, monopolizzata dall’azione dello Stato.
Moro
– da sincero liberale – tutela, attraverso l’affermazione del pilastro Democrazia umana, le “forme più imprevedute” della libertà degli individui, quel pluralismo
vitale, pratico e concreto che fu umiliato dalla tirannide dello Stato padrone, dello Stato etico che tutto riassume nelle proprie Istituzioni.
Non
si tratta, ideologicamente, di tutelare le c.d. “comunità naturali” sulla base di un astratto giusnaturalismo, non c’è nessuna contrapposizione, in Moro, tra natura e storia, nessun facile riparo nella trascendenza di senso
che sconfessa il Mondo.
Moro
è chiaro: “si
parli pure di storicità in questo senso … Non poniamo [Natura e Storia] una …
contro l’altra, ché non si tratta di cose diverse”.
Storia
e Natura, quindi, secondo un approccio concreto e vitale, coincidono nello
svolgimento del moto sociale.
Nessuna
sterile ipostatizzazione può contrastare la forza della realtà che evolve,
liberamente, nell’impegno e della lotta, verso maggiori acquisizioni di libertà e
uguaglianza.
La
famiglia, le comunità spontanee del vivere associato, in quanto tali, in quanto
realtà concrete produttive di Diritto e ordine spontaneo, sono decisamente
produzioni sociali, autentiche.
In
tal senso, la loro naturalità, la preesistenza rispetto ad ogni tutela di Stato,
è propriamente storica ed anzi, in questo contesto, è spesso l’ambizione dello
Stato ad inglobare e fare proprie (se non cassare) queste autonomie, ad essere anti storica: astratta ideologia piegata ad interessi che non
sono precisamente umani nel senso della tutela della dignità del Singolo.
Le
“libere
formazioni sociali” – anche la Scuola, si intende –
impongono allo Stato che sia davvero democratico “dei confini”, “delle zone di rispetto” che sanciscano l’autonomia dei diversi ordini – anche dell’ordine
economico - lungo il crinale liberale e
cristiano del principio di sussidiarietà
che legittima l’intervento statale solo dove le formazioni sociali non riescano
ad intervenire fruttuosamente.
Tale
autonomia, ovviamente, secondo la prospettiva sociale di Moro, non significa
isolamento, individualismo egoista ma convergenza del pluralismo dell’offerta
sociale verso il fine della “solidarietà sociale”,
maturato nella cooperazione e nel lavoro comune.
Questi
Pilastri, questi valori, questa “ideologia necessaria”, anche grazie all’azione di statisti come Moro, non
sono stati relegati in un preambolo
innocuo del testo costituzionale, privi di azionabilità e vincolatività
giuridica ma, invece, hanno concretato, nei primi articoli della Costituzione, diritti veri, le “idee dominanti di una Civiltà”, l’espressione di una vera e propria formula di
convivenza orientativa di tutta l’attività dello Stato, incarnate in Norme giuridiche superiori rispetto alla mutevolezza della
legislazione ordinaria.
La
questione posta da Moro – tutta politica, spirituale, morale – individua,
quindi, il principale effetto delle Norme costituzionali: vincolare la Sovranità, il Legislatore, al
rispetto di criteri superiori che prevalgono, sempre, di fronte alle effimere dinamiche
politiche, al consenso momentaneo di questo o quel leader.
La
“sede
giuridica” della Costituzione
contribuisce, quindi, attraverso la forza del “dover essere”, della meta da raggiungere, ad evitare che le
sacrosante acquisizioni storiche antifasciste, la negazione stessa del “vuoto politico”, vengano relegate – Moro ritorna ancora sulla
tematica del “Preambolo” – in un elemento fisso e morto che si limiti solo ad
enucleare la motivazione della nascita di una Costituzione.
Non
si tratta, infatti, nel fondare un nuovo Stato, di “esaurire nel
passato” le motivazioni ideologiche ma
di “attivarle” nel quotidiano – nell’oggi in cui il Nemico non è ancora
vinto – per la soluzione di problemi
immanenti.
Per
Moro, l’antifascismo
ideologico della Costituzione repubblicana acquisisce un senso prospettico direttamente collegato al futuro delle
nuove generazioni: “perché
questa è la debolezza umana, questa è la complessità dei problemi sociali”.
Un
significato vivo, sempre più vivo, quindi, che parte dalla storicizzazione puntuale
delle posizioni
raggiunte; una storicizzazione, nemica di
ogni vuota rigidità, che svela, nell’impegno costante, la fragilità di ogni conquista
e la necessità della forza morale di ogni nuova generazione.
Generazioni di liberi che, nella Costituzione, possono ancora trovare un
sicuro orientamento “per
una lotta che non è finita adesso e che non può finire. La lotta per la libertà
e la giustizia sociale”.
UN’AUTONOMA
COLLOCAZIONE POLITICA
È
un discorso pronunciato da Moro il 21 novembre 1968, nel contesto del Consiglio
nazionale della DC.
Il
discorso fu pronunciato in un tempo in cui, dopo l’esaurirsi della prima spinta
propulsiva del centro-sinistra, è in gioco la ricostituzione della solidarietà
tra i partiti riformisti, per il Buon Governo del Paese.
Il
problema epocale - attuale anche oggi - è quello, quindi, di costituire un Governo di
coalizione, di pensare le basi culturali e
politiche di una collaborazione tra diversi orientata all’affermazione dei valori costituzionali condivisi, di
quella ideologia interpretata come “necessità” da Moro come abbiamo visto
sopra.
Il
compito di un Governo
di coalizione - il significato storico e originale di un Centrosinistra coeso che, per molti versi, in questo discorso per
nulla “partitico”, sembra davvero declinabile unitariamente e senza trattino - è quello, per Moro, di estendere il più
possibile la piattaforma sociale e culturale del Potere democratico, in modo da
riflettere più compiutamente, nell’azione dell’esecutivo, le esigenze della
Società e il moto del progresso.
L’alternativa,
per lui allora e, forse, anche per noi oggi, è il rischio dell’affermazione di
un pericoloso “vuoto
politico”, che è vuoto di libertà e di giustizia,
paradossale “pienezza” di
conflitto, e cedimento ai disvalori anticostituzionali sempre sottesi e pronti ad emergere nell’agone
democratico, stante la crisi – prima spirituale e, poi, politica – degli attori
politici “istituzionali”, dei partiti storici.
La
“ferma
volontà” e lo “spirito di unità” sono la ricetta per sconfiggere l’affermazione
del “vuoto”, una solidarietà operosa conscia del ruolo
storico che i democratici sono chiamati a rivestire.
Le
differenze, quindi, non vanno e non possono essere annullate, come le
difformità legittime e feconde; ciò che, però, è necessario fare contro ogni
tatticismo identitario, è comporre le distanze, omogeneizzare per quanto possibile le posizioni, per aderire al
meglio alle esigenze del Paese.
Vi
è, quindi, un dovere di stabilità
politica che è bene prezioso per l’Italia:
l’unione delle forze democratiche contro le alternative che sostanziano
altrettante avventure pericolose.
Nella
riflessione di Moro – è bene sottolinearlo – la stabilità non significa per
nulla conservazione ma, grazie alla formula del centro-sinistra, vuol dire “slancio innovatore”, adeguare attraverso il riformismo l’autorità statale agli impulsi di mutamento
provenienti dall’inquieto svolgimento sociale.
La
vita sociale, i conflitti insiti, i vagheggiamenti ideali, vanno ovviamente composti
– attraverso l’ordinamento giuridico – lungo i canoni di libertà e
giustizia.
Il
moto incessante della Storia va incardinato in programmi ragionevolmente
definiti, per nulla palingenetici e realizzabili secondo un’effettiva
“possibilità” e sempre aperti alla discussione critica.
Il
gradualismo, secondo Moro, non va sminuito né svalutato; le
conquiste faticosamente realizzate, i compromessi di ripartenza posti in
essere, la stabilità perseguita, diviene un valore – un valore del centro-sinistra – se scongiura la cristallizzazione conservatrice
quanto la perniciosa ed infruttifera fuga in avanti.
Il
progresso auspicato, infatti, va tradotto in una evoluzione pacifica che si
realizza solo nell’ambito della Legge e con gli strumenti della “democrazia aperta” che diano graduale soddisfazione alle spinte
pressanti della Società.
Ovviamente,
per Moro non esiste alcun cedimento al populismo e alla demagogia
semplicistica, egoistica e qualunquista: il
ritmo delle realizzazioni va accelerato ma solo nel senso nei valori
costituzionali.
Ciò
che deve davvero concretizzarsi è una vita democratica sempre più libera,
giusta e umana!
Una
vita democratica, per altro, mai solo limitata alla “comunità nazionale” ma progressivamente tesa all’intera famiglia umana.
Lo
scopo, anzi gli scopi, i fini insiti nelle Norme costituzionali anti fasciste, il senso stesso della “ideologia
necessaria” di cui Moro ha parlato tanto a
lungo, ha a che fare con il rinnovamento, la liberazione dell’uomo.
E
l’esigenza del governo
di coalizione, la sua necessità storica, fa
riferimento a forze che hanno una “carica di libertà” non inferiore a quelle che strumentalmente si
sottraggono ad ogni confronto, aprendo il varco al “vuoto politico” che, lo precisiamo, è una forma paradossale di nichilismo
occasionalista attivato da un decisionismo
spicciolo di matrice manichea e sbrigativo.
Le
forze
responsabili sono tali in quanto si assumono
il compito “aggiuntivo” dell’azione non retorica, di una realizzazione
effettiva che prescinde dalla propaganda ideologica e, in tal modo, si offrono all’opinione pubblica quale garanzia reale innanzi
al rischio che l’impeto del moto sociale, preda delle forze populistiche, metta
in crisi il sistema
democratico.
Il
rischio, infatti, allora come ora, è il rischio della violenza, della
confusione programmatica, del “semplicismo scarsamente efficace”, del cinismo opportunistico.
Contro
tutto questo va affermato il rigore d’un approccio morale che domini la
politica per renderla intensamente umana, secondo i principi di solidarietà e
di buon senso.
“In una condizione
come questa – ci dice Moro – chi si potrà stupire
che la protesta e l’attesa, almeno in un primo tempo, più facilmente si
incanalino, non senza punte politiche, nell’opposizione piuttosto che nella
maggioranza, nelle forze che chiedono e non in quelle che alla richiesta
debbono corrispondere con l’assolvimento di un compito costruttivo?”.
Il
rischio è, quindi, che, senza questa disciplina morale e politica, le decisioni
politiche possano scivolare, di nuovo, verso il particolarismo corporativo,
disumano e illiberale, a favore di forze irresponsabili capaci di incanalare
istanze e consensi ma incapaci di fornire risposte serie.
Enzo Musolino